Tuesday, February 26, 2008

IL CERVELLO COME UN MP3: SCOPERTO IL SEGRETO DELLA VISTA

La Repubblica 26 Giu. ‘07

IL CERVELLO COME UN MP3: SCOPERTO IL SEGRETO DELLA VISTA

ELENA DUSI
ROMA -Non è così facile mantenere fermo il mondo davanti ai nostri occhi. Per osservare un oggetto abbiamo bisogno di avvolgerlo con un gran numero di occhiate, spostando le pupille fino a 4-5 volte ogni secondo. I movimenti rapidi degli occhi inviano al cervello un fotogramma ogni due o tre decimi di secondo, e come riesca il nostro organo del pensiero a trasformare questo balletto di immagini in una sequenza fluida di eventi è un altro di quei fenomeni che più si indagano e più rimangono misteriosi.
David Melcher, un neuroscienziato del Centro Interdipartimentale Mente-Cervello dell'università di Trento e Rovereto e dell'università di Oxford, si è accorto di un particolare importante: i neuroni incaricati di concentrarsi su un oggetto riescono a mantenersi fissi su di esso incuranti dello spostamento continuo della retina. E non solo sono capaci di mantenere il mirino puntato sul loro obiettivo, ma riescono anche a prevedere 1a posizione che assumeranno sulla retina qualche decimo di secondo dopo, quando l'occhio avrà completato il suo spostamento. «L'adattamento comincia ad avvenire già prima dello spostamento dell'occhio - scrive Melcher in un articolo che appare oggi su "Nature Neuroscience " -e questa capacità di prevedere in anticipo i cambiamenti spiega come mai tutte le diverse occhiate ci appaiano come un flusso ininterrotto».
Lo scienziato ha usato un computer che proiettava sullo schermo dei punti luminosi in continuo spostamento e uno strumento per seguire i movimenti delle pupille. Poi ha concluso che in fondo il nostro cervello non funziona in modo troppo diverso da un lettore di Mp3. «I file musicali - spiega - sono compressi nel lettore. Non contengono l'intera canzone, ma solo pacchetti discreti di informazione separati da brevi intervalli. Il riproduttore di canzoni riesce a ricomporre i brani perché è capace di leggere il pacchetto di informazione attuale e di anticipare anche quello successivo, riempiendo 1o spazio tra i due intervalli».
Anche se l'immagine di un oggetto si sposta continuamente all'interno della retina, i neuroni che si trovano nell'area del cervello incaricata di decodificare i messaggi visivi riescono a mantenere puntata l'attenzione sull'oggetto che abbiamo messo a fuoco. Il cervello non deve spendere tempo ed energie ad "accendere" nuovi neuroni per ognuno dei circa 150mila spostamenti della pupilla che avvengono ogni giorno. E questo trucco, unito alla capacità di prevedere in quale direzione la pupilla effettuerà il movimento successivo con una velocità di circa un decimo di secondo, permette alla realtà di scorrere davanti ai nostri occhi in maniera fluida. E lo stesso meccanismo ci consente di distinguere quando è l'oggetto a spostarsi rispetto a noi o quando a muoversi è il nostro occhio i neuroni riescono a tenere l'attenzione sugli oggetti messi a fuoco

Rito del Giorno Pagano Europeo della Memoria 2008

Il segreto dei numeri, la matematica, gli uccelli e le rane

La Repubblica 26.2.08
Il segreto dei numeri, la matematica, gli uccelli e le rane
di Freeman Dyson

Come i volatili che scrutano dall´alto, alcuni studiosi prediligono i concetti. Come gli anfibi, altri osservano gli oggetti nei loro particolari
Abbiamo bisogno sia degli uni che degli altri. Perché questa disciplina, ricca e affascinante, è insieme grande arte e grande scienza

Alcuni matematici sono uccelli, altri sono rane. Gli uccelli volano alto nell´aria e scrutano le vaste distese della matematica spingendo lo sguardo fino all´orizzonte. Prediligono i concetti che unificano i nostri modi di pensare e partendo da punti diversi del paesaggio riuniscono una molteplicità di problemi. Invece le rane vivono nel fango e vedono solo i fiori che crescono nei pressi. Preferiscono osservare i singoli oggetti nei loro minuti particolari e risolvono i problemi uno alla volta. Personalmente, io sono una rana, ma molti dei miei migliori amici sono uccelli.
La matematica ha bisogno sia degli uccelli, sia delle rane. La matematica è così ricca e affascinante proprio perché gli uccelli assicurano l´ampiezza della prospettiva e le rane l´attenzione alla complessità del dettaglio. La matematica è insieme grande arte e grande scienza, perché unisce la generalità dei concetti alla profondità delle strutture. È sciocco sostenere che gli uccelli siano migliori delle rane perché vedono più lontano, o che le rane sono migliori degli uccelli perché vedono più da vicino.
Il mondo della matematica è vasto e profondo al tempo stesso, e per esplorarlo serve che uccelli e rane sappiano lavorare insieme. All´inizio del XVII secolo, due grandi filosofi - l´italiano Galileo Galilei e il francese René Descartes - annunciarono la nascita della scienza moderna. Descartes era un uccello e Galileo era una rana. Ciascuno dei due presentò una sua visione del futuro, l´una molto diversa dall´altra. Galileo disse: «Il gran libro della Natura è scritto in simboli matematici». Descartes disse: «Penso, dunque sono». Secondo Galileo, lo scienziato deve osservare e misurare accuratamente ciò che vede finché la somma di tutte queste misurazioni non rivela il funzionamento della Natura.
A quel punto, partendo dai dati di fatto, lo scienziato induce le leggi cui obbedisce la Natura. Invece secondo Descartes lo scienziato deve restare a casa sua e dedurre le leggi della Natura per mezzo del puro pensiero. Per dedurre correttamente le leggi della Natura non gli occorre altro che le regole della logica e la conoscenza dell´esistenza di Dio.
Ora, nei quattro secoli trascorsi da quando Galileo e Descartes hanno aperto la via, la scienza è corsa avanti seguendo ambedue le piste contemporaneamente. Né l´empirismo galileiano, né il dogmatismo cartesiano hanno da soli il potere di svelare i segreti della Natura, ma insieme hanno realizzato conquiste sbalorditive.
Da quattro secoli, gli scienziati inglesi sono tendenzialmente galileiani e gli scienziati francesi cartesiani. Faraday, Darwin e Rutherford erano galileiani: Pascal, Laplace e Poincaré erano cartesiani. La scienza è stata grandemente arricchita dall´ibridazione di queste due opposte culture nazionali, rimaste entrambe operanti in ambedue i paesi. In fondo, Newton era un cartesiano: ha usato il puro pensiero nel modo in cui lo intendeva Descartes, e lo ha usato per demolire il dogma cartesiano dei vortici. In cuor suo, Marie Curie era una galileiana, e ha fatto "cuocere" tonnellate di minerale di uranio grezzo per demolire il dogma dell´indistruttibilità degli atomi.
Nella storia della matematica del XX secolo spiccano due avvenimenti decisivi, l´uno appartenente alla tradizione galileiana, l´altro a quella cartesiana. Il primo fu il Congresso Internazionale dei Matematici tenutosi a Parigi nel 1900, dove Hilbert pronunciò un memorabile discorso in cui propose un famoso elenco di ventitré grandi problemi rimasti irrisolti, tracciando così la rotta della matematica per il secolo a venire. Hilbert era un uccello che volava alto sopra l´intero territorio della matematica, ma affidò i suoi problemi alle rane perché li risolvessero uno alla volta. Il secondo evento decisivo fu la costituzione, nella Francia degli anni Trenta, di un gruppo di matematici, riuniti sotto lo pseudonimo di Bourbaki, i quali pubblicarono una serie di libri di testo che stabilissero un quadro unificante per l´insieme della matematica.
I problemi di Hilbert sono stati di enorme utilità nell´orientare la ricerca matematica in direzioni proficue. Alcuni di quei problemi sono stati risolti, per altri non si è ancora trovata una soluzione, ma quasi tutti hanno stimolato il sorgere di nuove idee e di nuovi ambiti della matematica. Il progetto Bourbaki è stato altrettanto influente: ha cambiato il modo di fare matematica per i cinquant´anni successivi, imponendo una coerenza logica quale non si era mai vista e spostando l´attenzione dagli esempi concreti alle generalità astratte.
Nello schema adottato dal gruppo Bourbaki, la matematica è la struttura astratta proposta nei testi del gruppo stesso. Ciò che non è nei testi non è matematica; gli esempi concreti, poiché non compaiono nei testi, non sono matematica. Insomma, il programma del gruppo Bourbaki è l´espressione estrema del modo cartesiano di fare matematica. Ha circoscritto la portata della matematica escludendone i bei fiori che un viaggiatore galileiano avrebbe potuto raccogliere lungo il cammino. Ciò che più manca nel programma Bourbaki, per me che sono galileiano, è l´elemento sorpresa. Quando ripenso alla storia della matematica, vedo una successione di salti illogici, di coincidenze improbabili, di scherzi della natura. Uno degli scherzi della natura è l´esistenza dei quasicristalli.
Nel xix secolo, lo studio dei cristalli ha condotto all´enumerazione di tutti i possibili gruppi discreti di simmetria dello spazio euclideo. Sono stati dimostrati teoremi che stabiliscono che nello spazio tridimensionale i gruppi discreti di simmetria possono contenere soltanto rotazioni di ordine 3, 4 o 6.
Poi, nel 1984, sono stati scoperti i quasicristalli, oggetti solidi reali che nascono da leghe di metallo liquido e mostrano la simmetria del gruppo icosaedrico che comprende rotazioni quintuple. Intanto il matematico Roger Penrose aveva scoperto la tassellatura del piano che reca il suo nome. Si tratta di uno schema di parallelogrammi che coprono al limite il piano con un ordine pentagonale. I quasicristalli di lega sono analoghi tridimensionali delle tassellature di Penrose, che sono bidimensionali. Dopo queste scoperte, i matematici hanno dovuto ampliare la teoria dei gruppi cristallografici così da includervi i quasicristalli, dando avvio a un grande programma di ricerca che è tuttora in corso.
Un altro scherzo di natura è costituito da un´analogia di comportamento fra i quasicristalli e gli zeri della funzione zeta di Riemann. I matematici si appassionano tanto agli zeri della funzione zeta perché sono situati su una linea retta e nessuno capisce perché. Secondo la famosa "ipotesi di Riemann", tutti questi zeri, a eccezione di quelli banali, sono situati su una linea retta. Da oltre un secolo, dimostrare l´ipotesi di Riemann è il sogno di ogni giovane matematico. Voglio ora suggerire un´idea scandalosa: potremmo usare i quasicristalli per dimostrare l´ipotesi di Riemann. Quanti di voi sono matematici potranno anche considerarla futile; agli altri, cioè ai non matematici, potrà sembrare priva d´interesse. Io però vi chiedo di prenderla in seria considerazione.
In gioventù, il fisico Leo Szilard decise che non era soddisfatto dei dieci comandamenti di Mosè e al loro posto ne scrisse altri dieci. Il secondo comandamento di Szilard dice: «Fa´ che le tue azioni siano dirette verso uno scopo degno, ma non chiederti se possano raggiungerlo: dovranno essere modelli ed esempi, ma non mezzi rivolti a un fine». Szilard ha posto in pratica ciò che predicava: è stato il primo fisico a immaginare le armi nucleari, e il primo a impegnarsi attivamente nella campagna contro il loro uso. Ebbene, il suo secondo comandamento fa perfettamente al caso nostro: dimostrare l´ipotesi di Riemann è uno scopo meritevole, e non sta a noi domandarci se possiamo raggiungerlo. (...)
Il problema di classificare i quasicristalli unidimensionali è di una difficoltà spaventosa. Ma la storia della matematica, se la guardiamo dal punto di vista galileiano, è fatta di problemi spaventosamente difficili che sono stati risolti da giovani troppo ignoranti per sapere che erano insolubili. La classificazione dei quasicristalli è uno scopo meritevole e chissà, potrebbe persino rivelarsi raggiungibile. Ma non è certo un vegliardo come me che può risolvere un problema di questo grado di difficoltà. Lascio quindi questo esercizio ai giovani ranocchi che mi leggono.
Traduzione di Marina Astrologo

Monday, February 25, 2008

La laicità della polis, Quando la legge non era di Dio

La Repubblica 25.2.08
La laicità della polis, Quando la legge non era di Dio
Intervista allo storico Christian Meier

Nella cultura greca le regole erano vincolanti non perché dotate di un fondamento divino ma perché decise dai cittadini
Solone, fondatore della democrazia, incarnava l´autonomia dal sacro. E oggi? Se ne discute a Berlino all´Accademia delle Scienze
Esiste un´eredità ateniese in Europa? Ora il meccanismo democratico appare ostacolato dalla mancanza nelle scelte di una reale condivisione

BERLINO. Nel 650 a. C. i cittadini di Dreros decisero che nessuno potesse ricoprire la carica più alta di quella città cretese per due volte in dieci anni; e istituirono un consiglio per punire eventuali trasgressioni. È il più antico documento costituzionale europeo arrivato fino a noi. Si concludeva solennemente con la frase: «Questo ha deciso la Polis». Documenti dello stesso genere ce n´erano moltissimi nell´antica Grecia, che ora in buona parte sono andati perduti. Regolavano l´esercizio del potere, distinguevano il sacro dal profano, il privato dal pubblico. La Polis proclamava orgogliosamente la propria autonomia. «Di insegnare questo agli Ateniesi mi ha dettato il cuore», scrisse Solone dopo aver elaborato il corpo di leggi che lo ha fatto passare alla storia come il fondatore della democrazia. Nel 594 a. C. gli ateniesi gli avevano conferito speciali poteri per riportare l´ordine in una città in cui erano in aumento i conflitti sociali, e dove cittadini liberi finivano sempre più spesso schiavi per non aver potuto ripagare i propri debiti. Solone fu il primo legislatore nell´antichità a vietare che un uomo libero potesse essere dato in garanzia di un prestito.
«I Greci non hanno mai sentito il bisogno di dare alle loro leggi una legittimazione divina. Non hanno un re babilonese come Hammurapi che chiede al dio Marduk di dargli le leggi, come si vede nella statua che sta al Louvre; non un Mosé che scrive i comandamenti di Jahvè, né un Maometto sul quale "scende" il Corano. In Grecia sono i cittadini che decidono le leggi. Nessun oracolo le ha ispirate, nessun fondatore mitico le ha ordinate», dice lo storico tedesco Christian Meier. «Per questo l´Europa non ha la tradizione di un clero di giurisperiti. Diversamente da tutto ciò con cui veniva in contatto in Oriente, la cultura greca si distinse perché era dominata non dall´idea del potere ma da quella della libertà. Non c´è mai stata nella Grecia antica una monarchia né un clero forte e nemmeno una aristocrazia disciplinata come a Roma. Le leggi erano vincolanti perché se le erano date i cittadini. Siamo di fronte a un fondamento dell´Europa antica. Né i Greci né i Romani hanno mai fondato il loro ordine su una lex divina. Anche il diritto romano è essenzialmente diritto ancorato nella società, adattabile a nuove situazioni, capace di fornire al Senato e più tardi all´imperatore i princìpi sulla cui base emanare nuove disposizioni».
Il tema è di grande attualità. Duemilaseicento anni dopo Solone, l´umanità sembra di nuovo incerta se rivendicare la propria autonomia o chiedere a Dio di dettare la legge. Meier ne ha appena discusso all´Accademia delle Scienze di Berlino con l´egittologo e storico delle religioni Jan Assam, che invece critica la tesi di una "singolarità" greca e sostiene che anche gli europei sono figli dell´Oriente. «Certamente tra i Greci esisteva una consapevolezza che in un tempo antico gli dei avessero dato delle regole, che alcune cose si potessero fare ed altre no; che esistesse un nomos, un diritto che andava individuato, compreso. Ma per comprenderlo non servivano sacerdoti o oracoli. Il compito era affidato a persone indipendenti, che godevano di grande prestigio nella città e non dovevano possedere né potere né ricchezze», dice Meier.
In mancanza di un monarca che decida, i cittadini della Polis devono trovare modi sofisticati per risolvere i problemi. Come riescono a trovare un equilibrio degli interessi?
«La libertà dei Greci consisteva soprattutto nella partecipazione alle decisioni, nella responsabilità per la comunità. C´erano enormi conflitti, riconciliazioni, discussioni, fu una straordinaria sperimentazione politica. Certamente presero dall´Oriente per quanto riguarda la scienza e la filosofia. Ma altri aspetti nascono in Grecia e concorrono specificamente alla formazione della democrazia: la poesia, più tardi la tragedia e la storiografia. Quando col tempo i problemi nella Polis aumentano, e sono necessarie sempre più leggi, i cambiamenti della legge portano con sé la sensazione dell´arbitrio. La tragedia tematizza questo passaggio, lo rappresenta davanti a tutto il popolo. Che cosa è giusto? Che cosa succede agli uomini? Che cos´è il male? Tutto si svolge sotto gli occhi dell´opinione pubblica. Le città greche sono così vicine che quando in una vengono decise leggi arbitrarie le altre gridano allo scandalo».
Le leggi cambiano troppo spesso.
«Un comico, di nome Platone come il filosofo, lamenta che, chi se ne va via per tre mesi, al ritorno non trova una legge uguale. Esagera, ma è così che il diritto finisce per separarsi tra norme e natura. Nasce la filosofia sofistica, che si chiede da dove le leggi traggano il loro potere vincolante. E alla sofistica risponderanno poi Socrate e Platone. Il tutto è una costruzione politica le cui conseguenze arrivano fino a noi, e che pone domande ancora oggi fondanti».
Boeckenfoerde, che in Italia è stato scoperto con più di un decennio di ritardo rispetto alla Germania, sostiene che «lo Stato liberale secolarizzato non garantisce le premesse delle quali vive». È d´accordo?
«Un ordinamento politico che riconosce la libertà di confessione come diritto di libertà individuale e collettivo non si pone più nei confronti della religione come verso un proprio necessario fondamento. Persegue obbiettivi terreni, quelli religiosi restano al di fuori delle sue competenze. Boeckenfoerde dice una cosa giusta: che la separazione della religione dall´agire attivo dello Stato ha una doppia valenza. Da una parte significa la fine del collegamento istituzionale tra Stato e Chiesa; dall´altra la religione viene lasciata libera di operare attivamente sul terreno della libertà individuale e sociale, e perciò cercherà, secondo la forza e l´impegno dei suoi sostenitori, di conquistare sempre maggiore significato politico, e non rinuncerà ad un potenziale carattere pubblico».
Si assiste nel mondo a una rinascita della religione che fino a pochi decenni fa sembrava aver esaurito il suo ruolo politico. Questo fermento, che è cominciato alla fine degli anni Settanta nel mondo islamico, si è propagato anche il mondo cristiano?
«Io non sarei così sicuro che ci sia una rinascita della religione. Almeno non la vedo in Germania, che però è una paese biconfessionale dove nessuna delle due confessioni potrebbe rivendicare un ruolo di guida. Vedo che il mio parroco, a Monaco, non ha altre funzioni che quelle di un operatore sociale».
È corretto parlare di eredità greca in Europa? Sicuramente nelle arti, nella filosofia, ma nella politica?
«La Polis era una unità politica, e necessariamente era piccola. Nell´età moderna non può esserci la stessa pregnanza del politico perché abbiamo lo Stato monarchico. Da una parte il monarca e il suo apparato, dall´altra il popolo. Lo Stato non è però privo di concorrenza: le città, le chiese, le università. Per mantenersi, ha dovuto incorporare elementi di democrazia, dare una certa libertà. Ai nostri giorni poi le cose stanno in modo diverso, anche perché non si può più parlare di partecipazione dei cittadini alla politica. Questa partecipazione era collegata, fino a una trentina d´anni fa, a una filosofia del progresso, condivisa prima dalla borghesia liberale e poi dal proletariato con la socialdemocrazia e il comunismo. Oggi le trasformazioni sono molto più rapide e riguardano élite specializzate che non portano con sé nessuna promessa di una società nuova. La filosofia del progresso raggruppava i cittadini in destra e sinistra. La linea di separazione oggi è tra basso e alto, nel senso che sopra stanno i politici che fanno quello che vogliono e distribuiscono qualche elargizione. Ma tutto questo ha a che vedere con la democrazia solo esteriormente».
La straordinaria storia dell´antichità ci deve comunque rendere ottimisti, conclude Meier, perché ricorda al nostro mondo presente, stanco e ingrigito, che la Storia può riservarci delle grosse sorprese.

Saturday, February 23, 2008

Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa

Corriere della Sera 23.2.08
Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa
Generosi per obbligo, i geni non c'entrano
di Massimo Piattelli Palmarini

Studi effettuati su alcune specie di insetti sociali (e altri animali) aprono nuovi scenari su uno dei rompicapi della teoria evoluzionista

Un giorno del lontano 1939, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania e la conseguente mobilitazione generale, il grande genetista J. B. S. Haldane, eroe della prima guerra mondiale, già troppo anziano per essere richiamato sotto le armi, con un suo collega umanista, osservava con tristezza, alla stazione ferroviaria di Cambridge, tanti giovani partire per il fronte, consapevoli che molti non sarebbero tornati.
Il letterato sbottò: «Caro Haldane, come può la tua teoria evoluzionistica spiegare tutto questo?» Haldane ci pensò un attimo e rispose, lapidariamente: «Nessun problema, se con il loro sacrificio salvano la vita ad almeno due fratelli o otto cugini ».
Molti anni dopo, nel 1964, questa brillante intuizione venne sviluppata da un altro genetista inglese, William Donald Hamilton, in una teoria detta della selezione parentale (kin selection). Le sue equazioni prevedono che un comportamento altruista sia evolutivamente efficace, se il costo riproduttivo di tale comportamento è inferiore ai vantaggi riproduttivi ottenuti da un buon numero di stretti consanguinei. In altre parole, quello che conta non è la trasmissione dei geni fisici, portati da un singolo individuo, ma quella di tutte le copie di quei geni, portati da individui imparentati. Questo aprì la strada all'idea del «gene egoista», resa famosa da ancora un altro genetista ed evoluzionista ingles e, Richard Dawkins.
Gli individui, secondo questa teoria, sarebbero macchine riproduttive al servizio dei propri geni. Una lunga storia, quindi, quella dei comportamenti altruistici, un perenne rompicapo per la teoria dell'evoluzione darwiniana. Fu, infatti, lo stesso Darwin a confessare esplicitamente che essi potevano essere «fatali» per la sua teoria. Perché? Beh, supponiamo che esista un gene, o un complesso di geni, che predispone un individuo ad essere altruista nel senso ristretto contemplato dalla teoria dell'evoluzione. Con quel comportamento, il portatore di quei geni diminuisce la propria probabilità di lasciare discendenti, aumentando invece, la probabilità di altri individui di lasciarne. Il meccanismo ortodosso della selezione naturale prevede che tale corredo genetico debba scomparire piuttosto rapidamente.
Invece, si osservano in natura molteplici comportamenti, in specie diverse, che sono altruisti proprio in questo senso. Scimmie che emettono un caratteristico grido, avvertendo le altre scimmie dell'approssimarsi di un predatore, ma rendendosi così più facile preda. Sempre all'avvicinarsi di un predatore, alcune specie di gazzelle saltellano cospicuamente sul posto e alzano la coda, scoprendo così un cospicuo sotto-coda bianco, dando così un segnale di fuga al branco, ma ritardando la loro propria fuga. Il comportamento altruista per eccellenza, il più studiato e il più discusso, è quello delle femmine «nutrici» in svariate società di insetti, per esempio le api e le formiche. Le nutrici non si riproducono affatto, accudendo invece le uova delle loro sorelle, figlie della regina.
La scena si sposta ora a Harvard, nel 1976, quando Hope Hare e Robert Trivers spiegano in dettaglio, adottando le equazioni di Hamilton, le ragioni evolutive del comportamento delle nutrici.
La particolare conformazione dei cromosomi negli insetti sociali fa sì che due sorelle abbiano il 75% dei geni in comune, contro il 50% di geni in comune tra madri e figlie, e appena il 25% tra sorelle e fratelli. Quindi è evolutivamente per loro più vantaggioso accudire le sorelle che non avere discendenti propri. Non solo, ma i conteggi genetici di Hare e Trivers prevedevano che le nutrici allevassero, in media, tre uova femmine per ogni uovo maschio. I dati sperimentali lo confermavano e il loro articolo, pubblicato in «Science», divenne un classico.
Arrivano, però, questo mese di Febbraio 2008, due guastafeste: l'inglese Francis L.W. Ratnieks e il belga Tom Wenseleers. In un dettagliato articolo appena pubblicato su «Trends in Ecology and Evolution », rivedono le bucce alla teoria di Hamilton e di Hare e Trivers. Dopo aver ben calcolato tutti i coefficienti di correlazione genetica in molte specie di insetti sociali, concludono, cifre alla mano, che la parentela stretta non spiega completamente il fenomeno delle femmine nutrici. La spiegazione risiede anche nella «coercizione» sociale (letteralmente).
La colonia nel suo insieme punisce severamente, non di rado con la morte, le femmine che tentano di accoppiarsi ed avere discendenti propri. Il motore dell'altruismo delle nutrici, quindi, non è solo la correlazione tra i geni, ma anche un severo e spietato controllo sociale. Questi autori usano i termini «coercion» e «policing» (controllo poliziesco), estendendolo anche ai comportamenti in società di pesci. Nasce, adesso, il problema della spiegazione evoluzionistica della coercizione, legata ai coefficienti di parentela, ma non completamente spiegata da questi. Il quadro si fa più complicato. Trivers, Hare, il loro maestro E. O Wilson e Dawkins, tra altri, non si erano peritati di trarre «lezioni » dalla loro «kin selection» per le società umane. Il sacrificio dei piloti kamikaze, ci dissero, si spiegava con l'altissimo grado di imparentamento del popolo giapponese.
Ratnieks e Wenseleers indulgono anche loro, brevemente, in diverse estrapolazioni sulle società umane. Lasciamole da parte, perché non penso avranno miglior destino delle precedenti. Il genetista americano Theodosius Dobjansky è famoso per aver detto: «In biologia niente ha un senso se non alla luce dell'evoluzione». Ma io concordo con il genetista inglese Gabriel Dover, in passato amico e collaboratore di Steven J. Gould e Richard Lewontin: non c'è molta luce da ricavare dall'evoluzione, per le società umane.

Friday, February 22, 2008

Un idolo magico

Un idolo magico.


Dal cantiere per i box riaffiora Abraxas, il talismano che affascinò Jung e HesseConosciuto da ebrei, cristiani e gnostici, il demone ha testa di gallo, tronco di uomo e zampe di drago: dal suo nome deriva la formula «abracadabra»

La scoperta è di quelle che fanno sobbalzare di stupore gli addetti ai lavori e mandano in estasi Indiana Jones, Dan Brown e tutti i loro seguaci. In effetti, quel che è affiorato dagli scavi archeologici in piazza Meda potrebbe dare l' incipit a un romanzo di angeli e démoni. Sepolti da oltre 1.500 anni nel ventre di Milano insieme con altri reperti, due oggetti di straordinario valore storico, artistico, persino magico. «Una coppa di terracotta d' origine africana decorata con la storia del sacrificio di Isacco, e un Abraxas, raro talismano inciso su diaspro nero. Entrambi risalenti al IV-V secolo dopo Cristo», annuncia Anna Ceresa Mori responsabile dello scavo per la Soprintendenza per i Beni archeologici di Milano. La gemma, spiega la studiosa, raffigura una strana creatura: «La testa di gallo, il tronco di uomo, le zampe di drago. Nella mano destra regge una verga, nella sinistra uno scudo». Quanto al nome, aggiunge, ha diversi significati. Tutti comunque legati al mondo esoterico. Sequenza di lettere in codice incisa in manoscritti e pietre di carattere occulto, Abraxas sarebbe il codice da cui deriva la formula magica per eccellenza, quell' «abracadabra» ben nota a ogni maga che si rispetti. «Il significato varia dalla disposizione delle lettere e dal materiale di cui è composto il talismano su cui sono incise - precisa Remo Cacitti, docente di Storia del Cristianesimo antico all' Università Statale -. Pur se con diverse valenze, questi oggetti magici hanno attraversato tutta la società antica, cristiana, ebraica, gnostica. Molto interessante a mio parere, è l' aver ritrovato l' Abraxas accanto alla coppa con la storia di Isacco. Una vicinanza forse non casuale, dato che nel Medioevo il termine Abraxas veniva fatto derivare proprio da Abramo». Inoltre, sempre scavando nelle simbologie, il nome Abraxas avrebbe potere apotropaico, legato al valore numerico delle sue sette lettere che, sommate secondo la numerazione greca, danno 365. Ovvero il numero dei giorni di un anno ma anche, secondo lo gnostico Basilide, il numero dei cieli di cui era costituito il mondo materiale. A reggere ogni cielo un dio, a capo del più alto, Abraxas. «Secondo le teorie gnostiche Abraxas era una divinità somma, un altro nome del Cristo, secondo i Padri della Chiesa che combatterono quelle presunte eresie, una forma di culto di Satana», precisa la dottoressa Ceresa Mori. In ogni caso, Abraxas è ben noto a chi si occupa di quelle cose segrete che stanno tra terra e cielo. Tra quelli che se ne sono occupati, Jung, Borges, Hermann Hesse. Ma il suo nome spunta anche in Harry Potter, dove Abraxas si chiama il padre di Lucius Malfoy, e persino nella serie tv «Streghe», chiamato in causa tra entità infernali... Insomma, angelo o demone che sia, un Abraxas sepolto nelle viscere di Milano è un segno che comunque dà da pensare. Giuseppina Manin Antichità LA SCOPERTA Negli scavi di piazza Meda, sepolti da 1.500 anni, sono stati trovati due reperti archeologici: una coppa di terracotta decorata con la storia del sacrificio di Isacco, e un Abraxas, talismano in diaspro nero


Autore: Manin Giuseppina
Fonte: Corriere della sera

Tuesday, February 12, 2008

Mistero a Olimpia Un altro dio prima di Zeus

Archeologia Ritrovamenti sul monte Lykaion rivelati dal «New York Times». Uno studioso: culto di una divinità suprema
Mistero a Olimpia Un altro dio prima di Zeus
Scoperti resti di sacrifici di 5000 anni fa

MILANO - Resti di sacrifici a una divinità sconosciuta di cinquemila anni fa sono affiorati sotto quello che rimane di un altare dedicato a Zeus, sulla cima del monte Lykaion, in Grecia, una trentina di chilometri da Olimpia. Scavando sotto le pietre bruciate dai fuochi sacrificali dell' altare destinato al signore dell' Olimpo, sono state rinvenute diverse ossa di pecore e capre, oltre a frammenti di terracotta bruna, priva di decorazioni, che hanno permesso di datare i più antichi rituali al 3000 avanti Cristo. Una data ben più antica di quella dell' altare superiore attorno al quale sono stati trovati frammenti di oggetti di bronzo e un sigillo di epoca minoica con un' incisione raffigurante un toro, l' animale sacro a Zeus. David Gilman Romano, direttore della missione archeologica della Pennsylvania University che ha fatto la scoperta, ripresa dal New York Times, non si pronuncia sull' identità del dio a cui erano destinati i sacrifici e considera prematura qualsiasi conclusione. «In epoca preistorica - ha comunque fatto notare Jack Davis, direttore dell' American School of Classical Studies ad Atene - in Grecia era praticato un culto a un dio supremo che poteva manifestarsi sia con forme maschili che femminili, ma non possiamo dire nulla prima di avere identificato la vera natura dei resti». Il fatto che il luogo di culto dedicato a una sconosciuta divinità preistorica si trovi proprio sotto l' altare di Zeus, non sorprende gli archeologi. L' usanza di occupare vecchi santuari e dedicarli a nuovi dèi è una pratica ben nota in tutta l' antichità: moltissime chiese cristiane, ad esempio, furono costruite sui resti di templi di divinità pagane, spesso come segno di vittoria sul paganesimo, ma anche per «sfruttare» la sacralità del luogo, profondamente sentita dalle popolazioni locali. Il monte Lykaion è tradizionalmente considerato il luogo di nascita dello stesso Zeus, ma i resti rinvenuti risalgono ad almeno 900 anni prima dell' arrivo in Arcadia di genti di lingua greca, provenienti dai Balcani settentrionali. Inoltre, come testimoniano alcune tavolette iscritte in Lineare B, un' antica forma di scrittura greca, le più lontane testimonianze del culto di Zeus non vanno oltre il 1400 avanti Cristo. Impossibile, quindi, identificare la divinità senza nome con il re dell' Olimpo. È molto probabile, invece, che la posizione del luogo sacro - in cima a una montagna, esposto ai venti, alla pioggia, al fulmine e ai terremoti - abbia indotto i nuovi arrivati a identificare il dio preistorico con il loro Zeus, signore del fulmine. Il geologo della missione della Pennsylvania University ha fatto anche notare che il luogo di culto si trova all' incrocio di tre faglie sismiche e questo potrebbe avere indotto sia i greci sia i loro predecessori a collocare proprio in quell' area il santuario di una divinità relazionata alle forze della natura. In epoca greca, l' altare sul Monte Lykaion era meta di pellegrinaggi e fu descritto da Pausania nel II secolo dopo Cristo: «Sul punto più alto della montagna c' è un monticolo di terra che forma l' altare di Zeus Lykaios, e da qui si può vedere gran parte del Peloponneso. Davanti all' altare, sul lato orientale, ci sono due pilastri sui quali c' erano una volta due aquile dorate». Poi, con la consueta sufficienza verso tutto quello che non conosceva, aggiunse: «Su questo altare loro sacrificano in segreto a Zeus Lykaios. Io sono stato riluttante a indagare i dettagli del sacrificio lasciandoli così come sono sempre stati». Probabilmente, se fosse stato un po' meno distaccato, avrebbe potuto raccontarci qualcosa di più e magari lasciare un indizio utile all' identificazione del misterioso signore della montagna.

Domenici Viviano

Pagina 26
(6 febbraio 2008) - Corriere della Sera

La giornata di Cupido, scugnizzo alato

La giornata di Cupido, scugnizzo alato
Ezio Savino, Il Giornale, martedì 12 febbraio 2008

«Ha una brutta voce? Falla cantare!». «Ha i denti storti? Falla ridere!». «È goffa, non sa muovere neanche una mano? Falla danzare!». «Sorprendila al mattino, quando ancora non si è truccata!». «Dopo l’amore, a desiderio spento, spalanca la finestra, e in piena luce fa’ l’inventario di tutti i suoi difetti, mandali a memoria!». Una voce che stecca fuori dal coro mieloso di San Valentino (vescovo martirizzato sotto Aureliano, nel 273), tutto fruscii di ali di Cupidi, di cioccolatini spacchettati, di frasi zuccherose a contorno del regalino di rito.
È la lezione del professor Ovidio, poeta latino, specialista del ramo, che nel suo I rimedi dell’amore, fornisce spicce e ciniche istruzioni per santificare al contrario la festa degli innamorati. Il patrono del dolce sentimento resta lui, il mite Valentino (Valens tyro, «forte soldato», di Cristo, s’intende), che rappacificava fidanzatini litigiosi con il dono di una rosa o, secondo varianti leggendarie, di una coppia di colombi; che all’imbrunire porgeva un fiore ai bambini perché lo offrissero alle mamme senza attardarsi per strada; che firmò la lettera d’addio alla figlia del suo carceriere Asterius, guarita dalla cecità, con il prototipo di ogni messaggino tenero: «dal tuo Valentino...». Come spesso accade, sulla ricorrenza cristiana si addensarono rituali pagani. I Romani avevano già una loro cerimonia dell’amore carnale: erano i Lupercalia, in onore di Luperco, arcaico nume della fecondità. Travestiti da lupi, il 15 febbraio i ragazzi di Roma scorrazzavano intorno al Palatino, fustigando con pelli di caprone sacrificale le donne, che aspiravano a sicura maternità. Un culto greve, di memoria agraria, che papa Gelasio, nel 497, rimpiazzò con la festività del santo di Terni. Ma i simboli connessi conservarono (e tuttora esibiscono) la fragranza d’antico. Cominciamo dagli Amorini, i Cupidines dei romani. Sono d'incantevole invenzione greca, e si chiamavano èrotes. Gli Elleni ebbero fede, da sempre, nel potente Eros, un dio senza volto, una forza positiva che ai primordi del cosmo legò gli elementi dispersi nel caos. Un emblema buono per i filosofi, ma poco appetibile per le coppiette spensierate. I poeti ci lavorarono sopra. E nacque Amore, figlio di Afrodite (la Venere latina), impertinente scugnizzo alato che si diverte a ferire con frecce d’oro, scagliate dal suo arco incordato di porpora. Neppure sua madre riesce a gestire il monello, assicura il poeta Mosco, che si nasconde e fugge, mitragliando dardi perfino nel mondo dei morti. Platone, in una poesia, ce ne lascia un ritrattino indimenticabile: eccolo, nell’innocenza del sonno, abbandonato su un cuscino di rose, le piume raccolte dietro le spalle, mentre le api depongono miele sulle sue giovani labbra. Dal ramo dell’albero pende la sua arma, la faretra colma di dardi, a ricordarci che quel riposo infantile è una pausa, tra una strage e l’altra. Gioca con dadi d’oro insieme a Ganimede, nel giardino di Zeus: perché l’amore è un volo d’azzardo, e gli astràgali (i dadi greci) sono i destini dei mortali, oggi un sei, il tiro di Venere, domani un uno, il colpo peggiore, detto «del cane». Ben presto Eros si moltiplica, nei puttini dispettosi cari alla matita di Peynet. Ora vendemmiano (e i grappoli rappresentano i cuori umani); ora da arcieri si trasformano in incendiari, lanciando nei petti devastanti scintille. Il poeta Asclepiade geme per l’indifferenza con cui gli amorini gli fanno il cuore di cenere. Che festa sarebbe, senza regalini? La grancassa commerciale di San Valentino ne squaderna per tutti i gusti, ma il campionario antico è già vario e vasto.
In Grecia, i pittori di vasi davano le prime dritte. Il presentino d’amore era, in sé, il piatto o il recipiente, impreziosito dalla raffigurazione del gesto affettuoso: lo spasimante che porge un galletto, una quaglia, un tordo, una lepre, accreditati, presso gli antichi, di vigore erotico. Catullo regalò alla sua Lesbia un passero, e ci ricamò sopra versi futili e toccanti. Poi fiori, in ghirlande dove spiccano le rose, da sempre messaggere di Venere, incarico diviso con le mele, da regalare in cesto. Seguono i libri di poesia, in formato tascabile: i Virgilio e gli Omero «palmari», che stavano in una mano. Non mancano i capi di vestiario, gli accessori.
Il più indicato era la cintura, che per i classici includeva significati maliziosi: «sciogliere la cintura» era, infatti, il codice per indicare i preliminari amorosi. Per questo le belle, talvolta, mettevano le mani avanti e tra i ricami di fiori inserivano sulla fascia (ricordava il cinto di Venere alla cui seduzione neppure Giove resisteva) scritte fin troppo sincere. L’affascinante Ermione, lamenta un epigrammista dell’Antologia Palatina, vi aveva trapunto l’avviso: «Amami pure come vuoi, ma non soffrire troppo se qualcun altro mi fa sua!». Il pratico Ovidio consiglia di comprare frutta e noci al mercato rionale, ma di far sapere alla fidanzata che il dono arriva fresco dai propri poderi suburbani. Anche una poesiola può fare la sua figura, aggiunge l’autore dell’Ars Amatoria, ma il regalo più promettente resta sempre un bel gruzzolo di sesterzi d’oro. Marziale raccomanda la carta da lettera, economica: le tabulae vitellianae, che non avevano il pregio della pergamena o delle pagine d’avorio, ma andavano dritte al cuore. Erano le antenate romane dei nostri SMS. Ricevendole, si sapeva che non parlavano d’affari o d’incarichi di stato. Però contenevano la notizia più gradita della giornata: l’ora dell’appuntamento.

Monday, February 11, 2008

RIVE TEMPESTOSE ovvero il genio del luogo

una semplice e veloce lettura di un quotodiano ci darebbe l'iimediata percezione che cattivo rapporto che abbiamo con l'ambiente.
la cultura monoteista ha insegnato all'uomo di considerare la natura come una cosa inanimata.
il monoteismo pensa alla realta' dell'ambiente come semplice cosa, come oggetto privo di una propria intinseca volonta'.
le religioni monoteistiche avendo la concezione del mondo come creato tolgo al mondo la sua bellezza e non gli riconoscono la loro volonta'.
ho trovato come questo "vecchio" racconto, non considero quello che vi e' scritto come un'invenzione.
questo racconto ha un profondo significato, si portrebbe quasi definire la conferma "leggendaria" dell'ipotesi, che poi noi pagani sappiamo che non e' un'ipotesi, di Lovelock su Gaia come sistema vivente, auto-regolante, cosciente della sua capacita' di preservare la vita.
francesco scanagata
-----------------------------

RIVE TEMPESTOSE

L'Oceano inghiottiva senza pietà le case. Non restava che evacuare tutti gli abitanti

La prima casa inghiottita dall'oceano fu quella di Caterina.

Quando il disgelo di maggio sbriciolò la sabbia di quella piccola insenatura sullo stretto di Bering, in Aiaska, la casa di Caterina Chiarodiluna, Si chiamava proprio così, Cathy Moonlight, che era la più vicina al mare cominciò a scivolare verso l'acqua. Fu un miracolo se nessuno si fece male, non lei, non i figli e neppure il nonno sdentato e perennemente suonato dal whisky, che viveva con lei. Ebbero fortuna li svegliarono i gemiti e gli scricchiolii della casa, che stava franando verso il mare, trascinata dall'erosione. Fecero in tempo a scappare, arrampicandosi sul pavimento ormai in pendenza il mattino dopo, Caterina, i suoi figli, il nonno e tutto il villaggio si raccolsero a guardare in silenzio il funerale della casa divorata dall'oceano.

La seconda fu quella di Lilian Goodhope, Liliana Buonasperanza, che sorgeva proprio dietro quella di Caterina Una furiosa tempesta di primavera aveva scavato altra sabbia dalla costa, e anche la sua casa cominciò a pendere. Quando anch'essa raggiunse il relitto della casa di Caterina in mare, gli anziani di quel villaggio di esquimesi Inuit decisero che era arrivato il momento di fare qualcosa.

II capo, Frank Aquila (Eagle) si attaccò alla radio trasmittente con ia quale comunicavano con la città più vicina in quella sterminata Alaska, la città di Nome, e spiegò che l'erosione del mare stava divorando li suo piccolo villaggio di Shishmarev, chiamato cosi dal nome del cacciatore di pellicce russo che l'aveva fondato un secolo e mezzo fa. Le case delle famiglie Chiarodiluna e Buonasperanza se ne erano già andate e le altre 16 che componevano Shishmarev rischiavano di fare la stessa fine.

Da Nome e dalla più lontana Anchorage arrivarono in stormi gli elicotteri del servizio geologico Gli esperti cominciarono a misurare, sondare e scavare con attrezzi misteriosi, ma la loro conclusione fu chiarissima: se fosse stato lasciato a se stesso, l'oceano avrebbe inesorabilmente divorato tutta la piccola insenatura sabbiosa, prima che il prossimo inverno tornasse a indurire la terra. Occorreva costruire subito un argine di contenimento per proteggere Shishmarev Tutto si sarebbe risolto. Non si risolse proprio niente Appena gli uomini con gli elmetti di plastica gialla cominciavano a costruire il murazzo, una tempesta improvvisa, un vento furioso, una mareggiata arrivavano puntuali e spazzavano via il cantiere. Ricominciavano, e la furia del Nord li sconfiggeva. Stavano quasi per abbandonare il villaggio e convincere gli abitanti ad evacuarlo, quando arrivo la vecchia Si chiamava Leidelvento, "She Of the Wind", era una sciamana, una donna di magia e di spinti che viveva sola, lontana dal villaggio, e quasi nessuno le dava più molto ascolto. Le giovani, che guardavano la televisione via antenne satellitari e andavano tutte a partorire via elicottero nell'ospedale di Nome, consideravano Leidelvento come a una curiosità. Sorrisero, insieme con i bambini che le saltellavano intorno, quando andò sul ciglio della scogliera franosa, armeggiò con sacchettini, conchiglie, sassetti e alla fine proclamò con la sua voce vecchissima: "L'Oceano e molto in collera perché nessuna vita nasce più qui, da noi Se non nascerà presto un figlio di uomo nel nostro villaggio, ci porterà via tutti". Nessuno le diede retta. I tecnici continuarono a costruire. Il mare a distruggere. Leidelvento era tornata nella sua foresta. Aquila, il capo, stava per dare l'ordine di evacuazione, quando proprio Caterina lanciò una proposta strana "Da anni ormai non nasce più un bambino qui a Shishmarev. Tutte andiamo via a partorire e forse il mare lo sa. Se provassimo a far nascere un bambino qui, come dice la vecchia? Che abbiamo da perdere?". Gli occhi di tutti puntarono sull'unica donna incinta del villaggio, ormai prossima al parto, Juliet Goodweather, Giulietta Beltempo. "Va bene", disse lei Giulietta attese. Quando cominciò il travaglio, dalia città arrivarono in volo un ostetrica e un infermiere anestesista, che erano stati preavvertiti. Tutto andò bene. il bambino, un maschio, nacque senza problemi. Giulietta non ebbe complicazioni e lo chiamò Figliodelmare. il cantiere della diga fu riaperto per un ultimo tentativo, tra molto scetticismo.

Ma il tempo e ti mare misteriosamente si calmarono. Non un'onda forte dall'acqua mansueta, non una bufera, un diluvio, una spallata di vento. Neppure i vecchi ricordavano un periodo cosi lungo di bei tempo. Gli operai lavorarono in pace per sei settimane, il cemento fece presa, la piccola diga si alzò e resse. Ora, naturalmente, dovrà passare la prova dell'inverno, prima di poter dire che Shishmarev è salva, ma per adesso l'oceano sembra ben disposto verso quei villaggio dove ora vive suo figlio.

Vittorio Zucconi, da "D" del 29/06/1999.

L'Importanza del Dio Pan

Pan insegue la ninfa.
A volte non la raggiunge. A volte lei si trasforma, in canna ad esempio. Da quella, prima sublime sublimazione, nasce la sirin­ga, lo zufolo fatto di sette canne dalla diversa lunghezza, da mettere sotto alle labbra, e soffiare.

Ama mai Pan, o è solo istinto, foia, desiderio che s’avvera, s’invera o si sublima?

Sì, ama. Ha amato almeno una volta, la ninfa Eco, che sempre gli è vicina. Che gli risponde, sempre, quando lui lancia il suo grido terribile, che scuote monti e valli e foreste. Lui la insegue sempre, la cerca tra le colline, ma non la prende mai. Perché lei, o è davanti a lui, o a volte dietro a lui, che ~li restituisce il suo grido acutissimo. Mai, mai si fa prendere. E Eco, la ninfa inafferrabile, l’unica vera compagna di Pan, il solitario.

Che quando è troppo solo, s’addolcisce da solo, in un atto for­tissimo, primordiale, di furioso violento scuotimento che si stempera nella dolcezza dello schizzo di sperma-gioia finale. E masturbazione.

E il suo membro di capro e la sua mente cornuta, che insieme alla sua mano, sdipanano l’arcano che già il primate scopre quando s’erge sulle sue gambe e si mette ritto col corpo.

L’uomo-dio capro ha inventato la masturbazione, o l’ha solo enfatizzata, fatta come lui divina? O è solo un problema di la­na caprina?

Nella masturbazione (puro istinto o puro gioco?) di Pan c’è la voglia (pansessuale, panteista, pantagruelica, panica?) di esplo­dere, come nell’urlo, in un gesto che non ha per scopo che sé stesso. La masturbazione non procrea, e solamente dà sfogo al desiderio? E desiderio di un altro, o desiderio di sé stessi, o de­siderio d’un desiderio?

E liberazione, scatenamento della fantasia che, senza un ogget­to, un altro soggetto se volete, può scatenarsi come vuole.

E fantasia che libera dall’angoscia, dicono gli Junghiani ancora. Quando, da sempre, esorcizziamo il malocchio, la malasorte, ci tocchiamo i genitali (operazione maschile, per la verità, e le femmine?) come gesto antidoto, come propiziazione a Pan, dio del panico, dio che ha inventato la masturbazione. Tutto in lui, a ben guardare, è masturbazione. È insomma gio­co di ninfe non raggiunte e di grotte, di altissimi silenzi e di grida lancinanti, di soli montani e meriggi dal declinare sonno­lento e arcano.

E Pan masturbatore porta l’uomo (e la donna?) ancor più indie­tro del periodo matriarcale, quando ormai era il coito a regna­re, con le sue femminili magie legate alla terra-femmina. Alla riproduzione. Al godimento finalizzato.

Il dio capro viene da ancor più lontano, dal periodo preceden­te, quando probabilmente ancora il nesso sesso-riproduzione non era così chiaro, e la istintualità nell’uomo era un diffonder sperma, uno schizzare al cielo. Che Pan, figlio divino di pasto­re e di capra, ritualizzò, mitizzò, divinizzò.

Poi saranno i Cristiani a chiamarla onanismo, da Onan, che, come si sa, fu colpito a morte dal Dio dei Cristiani, e amen.

Con Pan, i Cristiani si trovano il diavolo bello e fatto. Con le sue ninfe, ecco belle e fatte le streghe.

Lui, aveva il primo dono della mantica, della profezia.

È da Pan che Apollo la apprende. E il giovane pastore da lui amato, Dafnis, che è ‘promantis’ nel più antico di tutti gli ora-coli delfici, quello di Gaia.

Ed è già Il, tra la mantica di Pan, e quella delle ‘sue’ ninfe, che avviene la prima divisione. La mantica di Pan è profetica. Quella delle ninfe è terapeutica. Lui vede nel ribollire del san­gue nero i moti inevitabili delle creature, e dei mondi.

Loro, le ninfe, spiriti delle sorgenti, ‘delle polle d’acqua, dei luoghi agli uomini ristoratori, loro sono ‘genius loci’, e portan la guarigione. A volte portano anche follia, profezia, o en­trambe.

Ma non crediate che tutta la sua crudezza lo facesse solo dio d’Arcadia, lo tenesse lontano dalla Grecia e dalla grecità. No. Lui è a parte, certo. E altro, ma è anche parte integrante parte­cipante del tutto.

Lui è nella battaglia campale, quando la Grecia si gioca il suo destino, contro le forze preponderanti dei Persiani. A Marato­na, nel 490 a.C. Pan appare, nella grande mischia, e mette il panico ai nemici di Grecia, con il suo grido altissimo. Li sgomi­na. Atene gli sarà riconoscente.

Un’altra volta ricompare, anche quella nel momento più duro, più cruciale per la grecità, quando sono i Celti ad invadere, nel 227. Anche lì lui apparirà, metterà il panico tra i ‘barbari’ e salverà la Grecia.

Quasi un’ultima carta della grecità insomma, a mostrare come, oltre il patto di civiltà che ha creato e ‘polis’ e Olimpo, c’è lui, il figlio di capra, lui, il capro. In ‘Pan in America’ di D.H. Lawrence, Pan e il suo amore per Pinis, la ninfa che poi sarà pigna di Pan che è irto, duro come pino, lui e le ninfe sono tutt’uno, sono yin e yang insieme. Una ninfa Pan ama con un qualche risultato, perché da lei, da Eufe­me, che è la nutrice delle Muse, ha un figlio, Krotos. Sarà fra­tello di latte delle Muse, e con loro giocherà.

Pan e le sue ninfe sono progenitori-progenitrici delle Muse stesse. Le ninfe come ‘genius loci’ delle bellezze della natura, aura di quelle bellezze, diventan forse poi l’espressione della bellezza che gli uomini voglion produrre loro stessi. Dalla natu­ra all’arte, e saranno le Muse a guidarci.

Eufeme è loro nutrice. E la radice di ‘eufemismo’, il nome che abbellisce la cosa.

È qui che Pan, il capro (anche lui, perfino lui!) trascende sé stesso.

Nella iconografia della grecità, lui è sempre fuor di mischia, lui contempla, lui è altro dal resto della scena olimpica.

Però c’è. Qualche volta soltanto, fa a lotta con Eros, per gioco. Gioco-lotta è il loro rapporto. Perché Eros è la faccia solare dell’amore, e Pan il suo sole nero. Sono opposti, complementa­ri. Tocca a Lawrence, sull’argomento trovare la sintesi:

“... negli dei compositi, la tensione tra castità e passione o tra pe­nitenza e piacere, che viene in generale ricollegata al conflitto tra cristianesimo e paganesimo si rivelava una fase insita nel paganesi­mo stesso “.

Trascende spazio e tempo, Pan il capro, che, figlio di dio o uo­mo, di ninfa o bestia non si sa, può forse morire.

Morirà. Morirà con la grecità.

Era il tempo che a Roma regnava Tiberio. Il tempo in cui na­sceva Cristo. La Roma imperiale avea le sue corti, più d’una, oltre a quella di Tiberio, e una aristocrazia fatta di senatori e nuovi ricchi, attorno ai quali cultura greca e romana, mescola­te, rivaleggiavano.

Accanto agli antichi culti etruschi, diventati ormai un guscio vuoto, rivaleggiavano, nel vasto Pantheon, tre divinità.

Mitra, il dio duro e sanguinano dei legionari dell’impero, Isi­de, l’antica ed eterna, colei che è stata, è, e sarà, e Cristo, il dio del riscatto dei servi, dei miserabili, avrebbe presto fatto proseliti a frotte.

Un capitano di lungo corso Greco, dal nome di Epiterse (ci racconta Plutarco) navigava le coste dell’Acarnania. La nave era partita dalla Grecia, diretta verso l’Italia, che era ancora Magna Grecia, nonostante il dominio politico e militare dei Romani.

“D’improvviso, dall’isola di Paxo si udì una voce, o meglio, un grido, che chiamava Tamo. Erano tutti stupiti. Tamo era il nostro pilota egizio. Per ben due volte chiamato, lui non rispose. Alla terza volta, rispose a chi lo chiamava. Questi (uomo o dio?) con tono ancora più alto gli disse: ‘Quando arrivi nei pressi di Palode, annuncia che Pan, il grande, è morto...’

Appena si giunse presso Palode, una gran calma di venti, e di flut­ti, scese sul mare. Tamo, da poppa, con lo sguardo volto alla riva, come gli era stato detto, esclamò: ‘Pan, il grande, è morto!’

Non aveva neppur chiuso bocca, che un immenso gemito, non di uno ma di tanti, s’innalzò. E con questo grida di stupore “.

Così Plutarco, che ci lascia questa testimonianza lancinante, isolata da ogni contesto, sola.

Si sa solo che notizia di quell’episodio che squarcia il velo d’u­na grecità sulla quale Roma conta, Roma s’appassiona, arriva fino all’imperatore Tiberio.

Lui ne chiede spiegazione, ragione, ai suoi ‘esperti’, ai dotti di corte. A lui fu solo detto che si trattava del figlio di Hermes e di Penelope, e tanto dovette bastare.

Ma non bastò mai, né ai Greci, né ai Romani, né ai Cristiani, né a noi. Ci fu chi ipotizzò (tra gli studiosi è il Reinach ad avanzare l’ipotesi) che Tamo, il nome del pilota della nave cui è affidato il messaggio, è lo stesso nome di Tammuz, che è l’A­done egiziano, e che nei suoi riti spesso lui è dato per morto. Che quindi si trattasse della morte del dio egizio, diventato Adone nella tarda grecità. Che spesso ha frasi, come la stessa Saffo, che proclamano: ‘O Citrea, il bell’Adone è morto!’ Ma allora piangono l’Adone-amore, il bell’Adone che è il vaso, il recipiente dell’amore.

Si, ed anche no.

Pan è morto perché il dio che s’incarna nelle ninfe, e nella istintualità della natura, muore, non può non morire quando s’afferma il cristianesimo, che grida e giura che l’uomo ha un anima si, ma che appartiene al loro dio, non alla natura. E che grida, giura ed alla fine ahimè convince il mondo (suo) che la natura non ha anima. Di questo, per questo Pan è morto. Il Pan capro, figlio di pastore e di capra, è morto.

Ma il Pan figlio della madre-terra, il Pan delle ninfe, no, lui non è morto, lui è immortale.

E stato solo rimosso, dall’Occidente in cui ha vinto Cristo.

Il figlio del dio che ha diviso il reale nel bene e nel male, ha condannato tutto il passato come male, e ha diviso il futuro di tutti in paradiso ed inferno.

Molto ha preso per sé, del Pantheon greco.

Per Pan ha trovato una stupenda, perfetta collocazione nera. Ne ha fatto il diavolo, rimuovendolo dall’Olimpo in cui lui in

fondo non era mai stato. Cacciandolo nei boschi della psiche, nelle grotte dei sogni, nelle fonti dell’immaginario, insieme alle sue ninfe, fatte streghe, dove acquattato, aspetta.

Pan con le sue ninfe, ritorna.

E tornato con l’Orfismo rinascimentale e neoplatonico, un mo­mento magico e forte, che lo ha visto rivivere, anche nelle im­magini, trionfanti.

E tornato in Nietzsche. E tornato con Lawrence. E tornato an­che con il nerissimo Alister Crowley.

Ma son solo apparizioni fugaci.

Quando la scissione così terribile, così sofferta tra uomo e na­tura, operata dai seguaci del Cristo verrà meno, e la natura umana si ricomporrà in una unità più armonica, allora un altro nocchiero, un altro Epiterse — state sicuri — tornerà. Magari da qualche schermo elettronico (cioè dall’Olimpo piuttosto nero contemporaneo) ad annunciarci che Pan è vivo.

Perché Pan è vivo, e vive insieme a noi, dentro noi."

(Angelo Quattrocchi: Miti, Riti, Magie e Misteri dei Greci. Vallardi, Milano 1993)

Saturday, February 09, 2008

Giorno Pagano Europeo della Memoria: Jesolo 23 febbraio 2008

Giorno Pagano Europeo della Memoria:
Jesolo (venezia) 23 Febbraio 2008

Come potete vedere anche dal contatore sulla nostra pagina su MySpace, il Giorno Pagano Europeo della Memoria si avvicina a grandi passi. La Federazione Pagana celebrerà un rito il 23 febbraio nel Bosco Sacro di Jesolo, per partecipare al quale potete contattare gli organizzatori. Alcune foto del rito dell'anno scorso sono visibili sul nostro sito e sul canale YouTube c'è una sintesi del rito. Ancora una volta, invito tutti coloro che aderiscono alla celebrazione della giornata o che si dichiarano d'accordo con gli scopi a celebrarla e ad inviare almeno una foto della celebrazione. La documentazione è importante, è un modo in più per far sapere che ci siamo, che non siamo solo voci su internet, ma che desideriamo veramente raggiungere i nostri scopi e che operiamo concretamente per farlo. Non servono grandi cose: pensate all'effetto che potrebbe avere se tutti noi accendessimo una fiamma, grande come un falò o piccola come una candela, e la fotografassimo, per riunire le foto sul sito. Credo che sarebbe un segnale forte per tutti.
Non vi perdete poi la prossima puntata di Fontes, che uscirà indicativamente il 15 febbraio, giorno di chiusura del ciclo annuale della memoria pagana, in cui parleremo della memoria e della sua divinità, del rapporto tra ricostruzione storica e paganesimo e faremo un riassunto di tutte le iniziative prese durante l'anno e di quelle dell'anno a venire.

Se la medicina sconfina nella filosofia

Corriere della Sera 9.2.08
Massimo Piattelli Palmarini illustra la ricerca sul funzionamento del cervello
Se la medicina sconfina nella filosofia
Biologia, psicoanalisi, etica: gli sviluppi delle neuroscienze
di Edoardo Boncinelli

Gli studi La scelta
In dieci assunti Piattelli Palmarini definisce il campo del nuovo sapere Intelligenze: la mente dell'uomo nella complessità delle sue funzioni secondo S.M. Sandford (Corbis)

Si parla oggi sempre più spesso di neuroscienze, anche se alcuni usano il termine neuroscienza, al singolare, e altri parlano più specificamente di neuroscienze cognitive o direttamente di scienze cognitive. Si tratta della nuova, ultima forma di conoscenza scientifica del cervello e del suo funzionamento, che include molte conclusioni tratte dalla ricerca sperimentale nei campi della neurobiologia e della psicologia, ma anche una certa dose di interpretazione e di speculazione.
Rappresenta comunque il meglio che abbiamo saputo fare fino a oggi sulla via della comprensione del cervello e della mente. La popo-larità di questa disciplina è divenuta a poco a poco tale che ciascuno cerca di «tirarla dalla sua parte». Molte teorie psicologiche, sociologiche ed economiche — per tacere di quelle filosofiche e politiche — hanno creduto di acquistarsi un'attendibilità maggiore sostenendo che questa o quella conclusione delle neuroscienze dimostra, sostiene, o anche semplicemente non contraddice i fondamenti della propria dottrina. Per questa via si è arrivati a parlare di una neuropsicoanalisi, di una neuroeconomia, di una neuroestetica e di una neuroetica.
Ma che cosa sono effettivamente le (neuro) scienze cognitive? Che cosa affermano? Quali sono i punti essenziali della disciplina, le nozioni delle quali oggi non si dubita più? E cosa si trova invece ai confini di questa scienza, qualcosa che è probabile o quasi certo, ma ancora non definitivamente appurato e consacrato?
Non è facile per una persona non addetta soddisfare queste curiosità e ancora più difficile per il lettore medio. Il motivo è semplice. La disciplina si è sviluppata in tempi relativamente recenti e con una tale rapidità da rendere difficile per chiunque seguirne gli sviluppi. E ancora più difficile è digerire la mole dei dati e delle conclusioni e produrne una sintesi equilibrata, obbiettivo che può essere raggiunto solo in un libro scritto da un esperto del campo che abbia riflettuto a lungo sui punti essenziali e sugli snodi più significativi della materia.
Questo è proprio ciò che ha fatto Massimo Piattelli Palmarini nel suo ultimo libro Le scienze cognitive classiche: un panorama (Einaudi), steso con l'attiva collaborazione di due valenti giovani studiosi, Alessandra Gorini e Nicola Canessa.
La prudenza, quasi la circospezione, dell'autore si rivela fino dal titolo, che parla di scienze cognitive «classiche» e ce ne propone «un panorama». Come dire che non intende parlare di tutto «l'universo» delle scienze cognitive, ma solo della loro porzione ormai classica, e la vuole contemplare dall'alto, quasi a volo d'uccello.
Per il compimento di questa opera di definizione e quasi di «recinzione» della regione concettuale da esplorare è fondamentale il materiale contenuto nel primo capitolo, intitolato «Assunti centrali delle scienze cognitive».
L'autore elenca dieci di questi assunti, che secondo lui definiscono in maniera univoca il campo concettuale delle scienze cognitive. Non c'è dubbio che questi argomenti siano stati pensati e scelti con cura, ma anche con coraggio: non credo infatti che tutti sarebbero condivisi dalla generalità degli addetti ai lavori. Molti sono di carattere spiccatamente concettuale e quasi filosofico e risentono sicuramente delle frequenti conversazioni che Piattelli Palmarini intrattiene quasi quotidianamente con esponenti di spicco delle scienze cognitive statunitensi, primi fra tutti Noam Chomsky e Jerry Fodor. Dopo due capitoli altrettanto fondamentali sullo sviluppo storico della materia e sulla filosofia della mente, si passa alla illustrazione dei principali risultati raggiunti e delle conclusioni da questi tratte, cominciando dalla retina del... ranocchio. Esperimenti condotti negli anni Cinquanta del secolo scorso rivelarono quanto è curioso e sorprendente il modo che ha la rana di vedere il mondo circostante. Già nella sua retina, il tappeto di fotorecettori che rende possibile la visione, esistono cellule superspecializzate, capaci di rispondere selettivamente a stimoli sensoriali molto specifici, e fondamentali, occorre aggiungere, per la sopravvivenza di questo animale.
Ci sono cellule della sua retina che reagiscono soltanto alla visione di un moscone in volo. Un qualcosa che voli ma che non sia un moscone, o la vista di un vero moscone ma fermo, non suscitano alcuna reazione in queste cellule. Che sembrano stare lì solo per rispondere alla semplice domanda: c'è in giro un moscone vivo oppure no? Tutto il resto non le interessa. Tutto il resto non viene letteralmente nemmeno «visto». Ed è estremamente interessante osservare quante e quali conoscenze sono poi derivate da questa semplice osservazione, diciamo così, pionieristica. Ogni animale vede, e più in generale percepisce, il mondo a modo suo, e nel modo che gli è più utile. Compreso l'uomo.

Thursday, February 07, 2008

E l'Europa barbara divento' cristiana

La Stampa. TuttoLibri, 08-07-2000, pag.4

CASSIERI GIUSEPPE
E l'Europa barbara divento' cristiana

RICHARD Fletcher, storico del Medioevo presso l'universita' di York, e' di quegli autori fluviali, totalizzanti, che non contemplano fermate facoltative, che tendono a mimare il passo di un sanguigno novelliere, che arricchiscono il testo di scelta aneddotica. Il suo saggio La conversione dell'Europa comprende un millennio di storia (371-1386) mirato alle regioni occidentali (specie nord-occidentali), nel passaggio (traumatico? fortunoso? «fatale> >?), dal PAGANESIMO all'era cristiana. Se conosciamo in modo sufficiente gli apparati retorici e le tecniche seduttive degli evangelizzatori, il loro impulso apostolico, l'addestramento ricevuto, strategie e tattiche funzionali al rango dei destinatari, assai poco sappiamo sul PAGANESIMO germanico, sui culti dei Celti, degli Scandinavi, degli Slavi. Non per nulla le pagine di Fletcher traboccano di interrogativi appassionanti ai quali s'ingegna di rispondere rigorosamente, persuasivamente, nel corso della trattazione. Esempio: come riuscivano i missionari a trasfondere i principali concetti cristiani: battesimo, peccato, resurrezione? Quali associazioni mentali potevano suggerire ai convertiti? In che lingua comunicavano? Quali modelli di vita venivano presentati ai nativi? Dove e come si manifestavano le maggiori resistenze? In che misura idolatri e monoteisti si sovrapponevano, si respingevano, si ibridavano? Dopotutto i credenti precristiani, accomunati dalle tipiche aspettative della «religiosita' empirica» - e cioe' salute, raccolto dovizioso, vittoria nelle battaglie, un buon marito, una buona moglie, la vendetta, il ritorno in patria, la morte di un nemico - quali vantaggi tangibili finivano per cogliere nelle prediche degli attivisti? Tra costi e ricavi, da che parte pendeva la bilancia del dio straniero? Nella minuziosa ricapitolazione di vicende che affollano quel millennio (e basterebbero, a tener banco, il frantumarsi dell'Impero romano, il progressivo chiudersi in se' dell'Oriente, l'irruzione dell'Islam nel Mediterraneo, le Crociate...) ci accade di stralciare qualche figura piu' colorita o piu' leggendaria nel flusso ininterrotto dei figuranti. Cosi' e' per il prete italiano Paolino che nel 619 attraversa il regno del Kent, raggiunge la corte di Edvino, potente re di Northumbria, e lo converte grazie a una serie di complicita' domestiche, di presagi ai limiti della stregoneria, al felice parto della regina. «L'incontro tra Edvino e Paolino - racconta Fletcher a ridosso della fonte privilegiata: la Historia Ecclesiastica gentis Anglorum di Beda - fu quello tra un romano e un barbaro, tra un cristiano e un pagano, tra un latino e un germanico, tra un letterato e un uomo abituato a esprimersi solo oralmente, tra il vino e la birra, tra l'olio e il lardo, tra il Sud e il Nord». E cosi' per l'irlandese San Colombano, fondatore di monasteri nelle regioni orientali della Francia. A lui si deve un atto rivoluzionario: il capovolgimento della penitenza, da «pubblica» a «privata». Provate a rappresentarvi il sollievo dei peccatori fin li' costretti a confessarsi di fronte all'intera congregazione e condannarsi a vivere, di fatto, come appestati fuori le mura, e d'improvviso apprendere che la penitenza doveva essere considerata una medicina spirituale a dosaggio compatibile, prescritta da un ministro pronto all'ascolto e assolutamente vincolato al segreto del confessionale. Un colpo d'ala per la Chiesa, un trionfo personalissimo per Colombano. Negli interstizi del vasto repertorio non trascurerei la terminologia complessa e talora equivoca di certe istituzioni, sulla quale Fletcher si prodiga in adeguata veste disciplinare. Si va da parochia, parrocchia, che a lungo significo' diocesi, al polisenso monasterium, da ecclesia («anch'essa pone i suoi problemi») a «pieve», da «oratorio» a «cappella»... Il capitolo tredicesimo aiuta in ogni caso ad affrancarci da moleste approssimazioni e ci guida nella corruttibile nomenclatura del sacro. Allorche' il libro ci conduce all'estremo Nord d'Europa - con i Lapponi che testardamente ricusano gli evangelizzatori - e al circolo polare artico il viaggio si conclude, ci ritroviamo meno saturi di quanto temessimo, col carico di eventi previsti all'imbarco. Fletcher e' stato dunque bravo a non smarrirsi nelle cronache periferiche del vecchio continente, a non indugiare nelle aree in cui si sentiva piu' debolmente ispirato (es.: la convivenza di ebrei, cristiani e musulmani nell'Andalusia intorno al Mille); e altrettanto bravo a sfidare le difficolta' oggettive (depistaggi d'archivio, censure, autocensure, straripamenti agiografici) che incontra l'indagine storica sulle conversioni del primo Medioevo. Lo dice umilmente, e lo dice con una magnifica immagine calcistica: «Una partita giocata nella nebbia fluttuante su un campo in cui mani invisibili spostano continuamente i pali di una porta scarsamente illuminata».

Occhi azzurri. Quella sfumatura da semidei

Eva Cantarella
Occhi azzurri. Quella sfumatura da semidei
“Corriere della Sera”, 31 gennaio 2008
Erano occhi strani, diversi , per i greci, gli occhi azzurri. Occhi rari, comunque. Omero, che come è noto identifica i suoi personaggi con un epiteto che serve a ricordarne la principale caratteristica morale o fisica, identifica la dea Atena come glaukopis. Ma attenti: gli occhi glauchi non sono necessariamente azzurri. Letteralmente “glaucopide” significa “dagli occhi di civetta”: dunque dal colore chiaro, tra il verde, il grigio e l’azzurro. I greci definivano i colori usando coordinate diverse dalle nostre, che non distinguevano tra colori simili. Melas, ad esempio (nero), era anche il termine che indicava il sangue: dunque, rosso scuro. Xantos (il colore dei capelli di Menelao e altri eroi) significava sia biondo, sia rosso, sia fulvo Ma prescindiamo da questo: come erano considerati, allora, gli occhi che noi definiamo azzurri? Dal punto di vista estetico, non erano simbolo di particolare bellezza. Degli occhi, i greci lodavano la lucentezza, o il fatto che mandassero lampi, caratteristiche che fanno pensare più a occhi scuri che a occhi chiari. Quando lodavano la bellezza degli occhi, pensavano più alla forma, molto apprezzata se ovale, che non al colore. Ma l’occhio azzurro poteva essere un carattere distintivo straordinario, segno di origine e carattere divini. Basterà un esempio: Alessandro il Macedone. Secondo la tradizione , Alessandro aveva gli occhi di colore diverso, uno nero, l’altro azzurro. Ebbene, quell’Alessandro, bellissimo, che in Pascoli “piange dall’occhio nero come morte, piange dall’occhio azzurro come il cielo” non era un uomo come gli altri, non era uno dei tanti eroi. Era una figura semidivina: l’occhio azzurro stava a dimostrarlo.

Wednesday, February 06, 2008

La Crociata dimenticata che convertì i Paesi baltici

RISCOPERTE Pubblicata la cronaca di Enrico di Lettonia sui cristiani che partirono alla fine del XII secolo per la pagana Livonia (oggi Estonia e Lettonia)
La Crociata dimenticata che convertì i Paesi baltici
Lanciata da Innocenzo III, frenò gli ortodossi. Fu tra le più cruente e sterminò intere popolazioni

Le Crociate sono comunemente intese come le spedizioni militari che numerosi Paesi dell' Occidente intrapresero verso la Siria e la Palestina tra l' XI e il XIII secolo. Furono in sostanza guerre contro l' Islam. Raramente viene inclusa in questo gruppo la Crociata franco-papale che colpì gli Albigesi, la prima antieretica della storia cristiana, indetta da Innocenzo III nel 1209 e durata circa un ventennio. E di un' altra Crociata non si parla affatto, anzi si potrebbe dire che fa parte di quegli avvenimenti che l' Occidente ha rimosso: è quella che si svolse tra la fine del XII e l' inizio del XIII secolo contro l' ancora pagana Livonia.Questa antica denominazione corrispondeva all' attuale Estonia e a parte della Lettonia, luoghi oggi identificabili con città come Riga o Tallinn; terra che con l' evo moderno verrà poi divisa tra Svezia, Polonia e Russia, sino a diventare nel 1783 una provincia dell' impero degli zar. Sul finire del XII secolo questa regione comincia a rappresentare un valore religioso importante per il mondo cattolico, prima con papa Celestino III e poi con Innocenzo III; né si dimentichi che persino san Domenico di Guzmán sarà interessato alla conversione del Nord e lascerà traccia di questo suo desiderio quando dimorerà presso il vescovo di Lund, in Danimarca.Ma Innocenzo III, politico e pontefice di spessore, non elaborava soltanto pie intenzioni su quei territori e sapeva organizzare come pochi le necessarie strategie per occuparli. Così, per favorire l' afflusso di pellegrini - si potranno chiamare nel volgere di pochissimo tempo crociati a tutti gli effetti - assimila in un primo momento il viaggio in Livonia a quello verso Roma, poi con la lettera ai «fedeli di Sassonia e di Vestfalia» del 5 ottobre 1199 lo equipara addirittura a Gerusalemme. Un atto con grandi conseguenze, perché concede prerogative e privilegi come quelli spettanti ai combattenti di Terrasanta.Il testo che racconta questa guerra dimenticata non è stato sino ad oggi pubblicato in italiano: si tratta del Chronicon Livoniae di Enrico di Lettonia, un religioso quasi sicuramente di origine tedesca, la cui opera era conservata nel XXIII tomo della raccolta «Monumenta Germaniae historica» e conosciuta soltanto da rarissimi specialisti. Ora uno studioso del mondo ugro-finnico e del medio latino, Piero Bugiani, dopo anni di lavoro ha terminato l' impresa e ha tradotto nella nostra lingua con un ricco commentario queste pagine che narrano la dimenticata Crociata del Nord.Leggendole è come immergersi in un medioevo cupo, la cui luce ricorda quella delle foreste della Livonia. Nel suo stile scarno e irto, Enrico parla di razzie, di crudeli vendette, di vescovi felici allorché viene loro mostrata la testa mozzata del nemico. Tra pagani dipinti come perfidi e idolatri, la prosa del religioso incede con la medesima forza con cui la Croce avanza in queste terre, portata da uomini che sono certi della vittoria e che stanno espugnando in nome della «vera fede» l' ultima regione pagana d' Europa. Ma soprattutto si incontra in queste pagine una violenza primitiva che l' autore non sempre riesce a far ricadere sui «cattivi». È il sangue che ogni guerra richiede, indipendentemente dalle intenzioni o dalle formule religiose (o laiche) che scortano gli eserciti.Queste, però, sono nostre parole. Proviamo a utilizzare quelle del Chronicon, ricorrendo alla regola della par condicio, ovvero mettendo a confronto i delitti cristiani e le crudeltà pagane. Partiamo da queste ultime, ricordando la fine che fece il religioso Federico di Alt-Zelle con un suo discepolo, dopo che i due furono catturati dai livoni. Dopo essere stati scherniti e percossi con dei bastoni sulla testa e sulla schiena, li trattarono in questo modo: «Affilarono dei legni duri e secchi, li infilarono tra le unghie e la carne delle dita e dopo averli dilaniati a brani e a fitte, appiccarono il fuoco e li martoriarono crudelmente. Alla fine li uccisero con le loro scuri, troncandoli in mezzo alle spalle». (XVIII,8). A Enrico sfugge una citazione del Salmo 128: «Ma il Signore giusto reciderà i colli di costoro». Si potrebbe aggiungere che la profezia si era già avverata in un capitolo precedente: «La testa dell' ucciso venne mandata al vescovo, unitamente alla notizia della vittoria. Il vescovo, dopo aver celebrato la messa, nel timore di Dio e in preghiera, attendeva con i suoi chierici che arrivasse qualcuno a riferirgli ciò che era accaduto... Improvvisamente apparve in lontananza una barca e uno dei Fratelli della Milizia, che ritornava con alcuni feriti; costui presentò al vescovo la testa di Ako in segno di vittoria. Ne gioì molto con tutti quelli che erano rimasti a casa, rese grazie a Dio» (X, 8).Questo Chronicon ci permette di assistere all' ultima conversione cruenta dei resti pagani d' Europa e narra i rapporti con i principi russi, i quali si interessavano della Livonia una volta l' anno, quando era il tempo della riscossione delle imposte. La via del fiume Dvina, che collegava città della Rus come Pskov, Polock e soprattutto Novgorod, faceva troppa gola al mercato tedesco per lasciare in pace quelle popolazioni. Così, nel XII secolo inizia l' afflusso di mercanti, dietro i quali non mancano i missionari, seguiti poi da artigiani, quindi dai Cavalieri Portaspada (i predecessori dei Teutonici), infine da qualche avventuriero, da prostitute, da tutto. La crociata è anche una migrazione oltre che una guerra. Chi non subirà particolari conseguenze saranno i russi. Resteranno dei nemici, ma Enrico sottolinea che dovevano essere trattati diversamente dai livoni, perché cristiani; e il medesimo atteggiamento lo terranno quegli occupanti che giungeranno successivamente - danesi, svedesi ecc. - appartenenti allora alla fede cattolica.Il primo vescovo della Livonia si chiama Meinardo: comincia la sua carriera come cappellano delle navi mercantili. Viene dalla Germania settentrionale, terra allora di monasteri di frontiera, famosi per l' arte della memoria (i monaci sapevano a mente la Scrittura più che le raffinatezze del latino ciceroniano). Meinardo giunge a Üxküll (Ikskile per i lettoni), costruisce la prima chiesa e una fortificazione, entrambe in pietra. I livoni cercano di distruggere quest' ultima tirandola con le corde, ma con sorpresa si accorgono che è troppo solida per le loro usanze. Il secondo vescovo è Bertoldo (verrà ucciso e fatto a pezzi dalla popolazione locale); il terzo, Alberto, fonda la città e la diocesi di Riga e parteciperà al IV Concilio Lateranense del 1215 (lo accompagnerà proprio Enrico di Lettonia). Nel 1225 arriva il legato pontifico Guglielmo vescovo di Modena che, oltre a curare gli interessi di Roma in quelle terre già consacrate alla Vergine, redigerà anche una grammatica dell' antico prussiano (era una lingua baltica e non germanica). Emerge dal suo operato la grande importanza del battesimo. Oltre ad essere l' atto con cui si aderiva alla nuova religione, assumeva una valenza politica, perché con esso cominciava il pagamento delle decime.Per quanto crudele dovette apparire ai livoni questa crociata, per quante popolazioni abbia sterminato, per quanto incomprensibile potesse apparire a chi praticava una fede animistica (adorazione di piante, animali, fenomeni della natura come sorgenti o cascate, vedendo in ogni creatura la divinità), va detto che dopo di essa l' antica Livonia entrò nella storia dell' Occidente. Se oggi le repubbliche baltiche sono in Europa, dobbiamo considerare il fatto ultima conseguenza di quella Crociata, bandita senza il clamore di San Bernardo, senza un Santo Sepolcro da liberare, senza una Terrasanta da raggiungere. Ma Innocenzo III sapeva bene che i russi, scismatici e ortodossi, andavano contenuti e che era giunto il momento di estirpare il paganesimo, utilizzando la via delle armi. E che nessuno, almeno in quei secoli, lo avrebbe pianto.Tre curiosità in margine a questo Chronicon. La prima è sull' uso di una macchina da guerra, il paterello, che non si trova altrove: era ideale per scagliare pietre non molto pesanti e si spostava con facilità. La seconda riguarda il valore linguistico dello scritto di Enrico di Lettonia, che lascia nelle sue pagine le prime parole dell' estone e del lettone. La terza va a quel papa tosto che fu Innocenzo III, sempre al corrente di quanto accadeva lassù. Verrà portato al suo soglio un capo convertito dei livoni, Caupo. Il pontefice gli regalò una Bibbia e il prezioso libro si conservò a Riga sino alla Riforma protestante. Dopo di che sparì, anche perché il dono di un pontefice non era lo strumento migliore per leggere la Parola di Dio, finalmente liberata dal giogo delle interpretazioni di Roma. Il libro Il Chronicon Livoniae, curato da Piero Bugiani con una prefazione di Pietro U. Dini, è edito da Books & Company, Livorno, pp. 448, euro 35 (tel.0586.829979). Altre opere d' epoca sulla storia del Nord Europa disponibili in italiano sono: Sassone Grammatico, Gesta dei Re e degli eroi danesi (Einaudi) e Adamo di Brema, Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo (Utet).Si trova infine una anonima Cronaca rimata della Livonia in basso tedesco, di poco posteriore a quella di Enrico (c' è una traduzione inglese, Chicago 2001; il testo di riferimento fu pubblicato a Paderborn nel 1876)

Torno Armando

Pagina 25
(17 luglio 2005) - Corriere della Sera

Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria

Federazione Pagana: Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria:
"Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria

La pagina dei risultati della petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria è stata aggiornata con le firme del mese di gennaio (90 nuove firme questo mese! Grazie a tutti coloro che hanno diffuso l'annuncio di questa petizione e ci hanno permesso di raggiungere un risultato del genere!). Se non l'avete ancora fatto, potete firmare qui la nostra petizione. Ricordiamo che la firma è un atto simbolico di adesione agli scopi del progetto del Giorno Pagano Europeo della Memoria; sul sito c'è un'altra pagina in cui potete leggere i commenti fatti sulla petizione da parte di chi l'ha firmata. Ricordo poi a tutti che il 23 febbraio la Federazione Pagana terrà il rito di celebrazione del Giorno Pagano Europeo della Memoria nel Bosco Sacro. Per partecipare, contattate gli organizzatori.

Tuesday, February 05, 2008

Anche le scimmie pensano. La capacità cognitiva? Viene prima dell'uomo

Corriere della Sera 2.2.08
A colloquio con il professor Khrustov: i miei studi sulla comunicazione
Anche le scimmie pensano
La capacità cognitiva? Viene prima dell'uomo
di Armando Torno

Il risultato arriva da un test effettuato sugli scimpanzé, capaci di un'operazione perché in grado di compiere un'elaborazione mentale e non solo spinti dall'istinto
L'informazione della forma è già presente nel cervello del primate, quindi è dotato di capacità connettiva: una caratteristica presente in tutti i soggetti della specie

MOSCA — All'Università delle Relazioni Internazionali, dove un tempo si formavano i diplomatici sovietici e oggi quelli russi, incontriamo il professor Ghenrikh Fiodorovich Khrustov. Biologo, antropologo, soprattutto filosofo, è autore dell'opera, da poco uscita, La teoria del fatto (Edizioni Ministero Affari Esteri). Questo accademico è noto sin dal 1964 allorché uscì una sua indagine sul costituirsi e l'evolversi delle attività nel mondo degli antropoidi basata sugli strumenti di lavoro. Il libro fece un chiasso notevole nell'ex Urss, giacché si individuò in talune analisi un'accusa al nucleo dirigente del partito che si era sclerotizzato. Ma, come si suol dire, di acqua ne è passata sotto i ponti. Comunque, il professore ha continuato i suoi esperimenti con scimmie e gorilla, tra Berlino e Mosca. E ora sta tirando le conclusioni.
Khrustov è uno dei pochissimi che in Europa abbia dedicato decenni di ricerche per comprendere come funziona la comunicazione negli antropomorfi, per poi confrontarla con quella dei bambini di due anni (ha utilizzato allo scopo il figlio di un amico). Parla del rapporto tra le sue ricerche e quelle di Jane Goodall, l'etologa e antropologa britannica che ha lavorato per un quarantennio sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé, racconta le reciproche citazioni, gli scambi di informazioni e cose simili. Durante i suoi corsi, tra l'altro, il professore russo fa ascoltare arie di Leoncavallo e Puccini perché — sottolinea — «la loro musica aiuta e stimola le deduzioni». E quando gli chiediamo di offrirci una sintesi delle sue scoperte, Khrustov mette da parte accordi e melodie, afferra le fotografie dei suoi esperimenti con gli scimpanzé e le mostra, non prima di aver precisato: «Puccini ha a che fare indirettamente con la religiosità».
Poi, con naturalezza avvia il discorso: «Noi viviamo con le emozioni provate e attraverso di esse creiamo forti impatti su quanto consideriamo vero o falso. Ci plasmano. Contro di esse l'uomo non può vincere. Per questo motivo ho studiato il processo della nostra formazione, quel percorso che va dal primate all'homo sapiens». Entra nei particolari delle sue ricerche, e si sofferma con qualche smorfia per il costo sempre più alto che richiedono; quindi analizza i risultati delle osservazioni compiute, ricorda che «l'uomo è l'attività dell'uomo». Cita tra i moltissimi il suo maestro Jacov Roghinskij, ma i suoi paragoni chiamano in causa il filosofo greco Epicuro (parafrasandolo: «Le mie parole non valgono se non possono guarire qualche sofferenza»), Charles Darwin, soprattutto Immanuel Kant. Del sommo tedesco ricorda in particolare l'Antropologia pragmatica,
opera dove si parla delle cause dell'aumento e della diminuzione del grado delle sensazioni. Khrustov analizza i passi relativi alle catastrofi che sviluppano le capacità. Infine afferma: «Il pensiero nasce prima dell'uomo ». Per far seguire a tali parole delle argomentazioni scientifiche illustra i dati raccolti con gli scimpanzé, sintetizza quello che in base alle prove effettuate avverte la loro mente, ricorda che i gesti di queste scimmie sono spinti da qualcosa di più complesso di un certo bisogno o da un particolare impulso. Per passare all'esempio, diremo che il professore ha offerto al soggetto utilizzato un tubo al centro del quale si trovava qualcosa di ghiotto; ha poi manipolato un legno tondo, dal quale in un primo tempo era facile ricavare una piccola asta seguendo le venature e con la semplice pressione di due arti. Poi l'operazione diventava possibile soltanto attraverso una serie di accorgimenti e con un vero e proprio lavoro, per il quale non bastava l'istinto. Lo scimpanzé, organizzandosi progressivamente, è riuscito nell'impresa di staccare la sospirata asticella con i denti, non cadendo nei trabocchetti delle apparenze.
Da tutto ciò — e i passaggi scientificamente documentati si leggono nel libro ricordato sul fatto — Khrustov sostiene che l'informazione della forma è già presente nella mente dello scimpanzé, dotato di una capacità connettiva, anzi con essa riesce a realizzare e a perfezionare. Inoltre: concretizza ogni fase della connettività e tutti i soggetti della sua specie presentano tali caratteristiche. Lo scimpanzé, infine, è in grado di confrontarsi con la realtà (non la subisce ma entra in contatto con essa). Nell'evoluzione delle popolazioni umanoidi, a detta del professore, è bastato un cervello simile a questo, anche se non ha ancora un'importanza esistenziale. Il prossimo argomento: studiare l'eventuale scambio di dati che i diversi soggetti sono in grado di comunicare tra loro, dopo un'esperienza come quella ricordata.
Inevitabili a questo punto i discorsi sul progresso e sul regresso. Khrustov offre una sua opinione: se l'umanità dovesse difendersi dall'arrivo di un asteroiode (un Apofis con la traiettoria giusta, per intenderci) oggi non sarebbe in grado di farlo. Non per mancanza di tecnologia o di mezzi, ma perché ci sarebbe, anche in tal caso, disaccordo tra le varie nazioni gelose e preoccupate dei loro segreti tecnologici. Subirebbe insomma la catastrofe, non riuscendo a raggiungere quell'armonia necessaria per affrontare una simile emergenza anche in un momento cruciale.

Libri & Storie. Gli appunti di Darwin
«Io penso» c'è scritto al margine dello schizzo che rappresenta la teoria a cui Charles Darwin arriverà. È il seme di un pensiero composto da immagine e parola che a guardarlo emoziona, pensando a quello che ne è poi scaturito. A leggere i «Taccuini» di Charles Darwin (Laterza) curati da Telmo Pievani è come tuffarsi in un mondo informe ma ricco, dal quale possono nascere grandi cose. Scritti tra il 1836 e il 1844, le pagine cristallizzano gli interessi del giovanissimo scienziato impegnato a mettere ordine nei ricordi e nelle idee. Ci sono passione, scienza, tratti umani, disordine e razionalità, insomma una sorta di vaso delle meraviglie come può essere il cervello di un genio.
G.Cap.