La Repubblica 3.7.09
La saggezza e la politica. Quella frattura tra l’antico e il moderno
di Pierre Hodot
Massime che dovevano spiegare agli uomini la distanza che li separa dagli dei
L´uomo inserito perfettamente nella vita quotidiana e tuttavia anche immerso nel cosmo
Il nostro presente visto alla luce della tradizione della polis greca dove l´azione pubblica era importante quanto la riflessione
Viviamo in una civiltà in cui l´ordine della scienza è del tutto autonomo, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è proprio questo il problema, se non il dramma della nostra epoca. Come potrà il mondo moderno ritrovare una saggezza, e cioè una forma di sapere, di coscienza, che non verta solo sugli oggetti del conoscere, ma sulla vita stessa intesa nel suo vissuto quotidiano, sul modo di vivere e di esistere?
Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nell´antichità greco-latina. I termini sophos e sophia, che traduciamo rispettivamente con "saggio" e "saggezza", quando fanno la loro precoce comparsa nella letteratura poetica o filosofica della Grecia antica, designano tanto l´abilità tecnica quanto l´eccellenza nell´arte musicale o poetica, e alludono a una competenza che è, al tempo stesso, il risultato dell´educazione impartita da un maestro, il frutto di una lunga esperienza, e il dono ricevuto grazie a un´ispirazione divina. È ai consigli di Atena che il carpentiere deve la sua sophia, l´abilità e il sapere nell´arte del costruire (Iliade XV, v. 411), ed è grazie alle Muse che il poeta sa cosa e come deve cantare (Esiodo, Teogonia, vv. 35-115). Troviamo qui quello che sarà un tratto costante della dottrina antica della saggezza: essa è anzitutto appannaggio degli dèi, il segno stesso della distanza che separa gli dèi dagli uomini.
I termini sophos e sophia si applicano anche alla competenza politica. Così è, in particolare, quando gli antichi parlano dei Sette Sapienti, figure storiche del VII e VI secolo a. C. divenute presto leggendarie, che possiedono a un tempo la competenza tecnica e quella politica. Sono legislatori ed educatori, come Solone. Le massime attribuite alla loro saggezza erano incise vicino al tempio di Delfi su una stele fatta incidere, con ogni probabilità nel III secolo, dal discepolo di Aristotele Clearco. Tra queste massime figurano formule celebri: «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Riconosci il momento favorevole», «La misura è la cosa migliore», «L´esercizio è tutto».
Le massime delfiche erano destinate, tra l´altro, a rendere gli uomini consapevoli della distanza che li separa dagli dèi e dell´inferiorità del loro sapere, dunque della loro saggezza. La massima saggezza dell´uomo consiste nel riconoscimento dei propri limiti. O, più precisamente, come dirà Socrate citando proprio un oracolo di Delfi: «Il più sapiente tra voi (sophotatos) è colui che, come Socrate, si sia reso conto che, in quanto a sapienza (sophia) non val nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 23b).
Con il IV secolo, per l´esattezza con Socrate e Platone, e con la riflessione sull´uso del termine philosophia (amore per la saggezza), si manifesta una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio. Si diventa infatti consapevoli del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l´uomo non può che riconoscere di essere separato da una distanza immensa. Allo stesso tempo, la saggezza si identifica sempre più con l´episteme, ossia con un sapere certo e rigoroso, che non è mai concepito, del resto, come il nostro sapere scientifico moderno, perché coincide sempre con un saper fare, un saper vivere, insomma un certo modo di vivere. Dopo Platone, infatti, i Greci diventano profondamente consapevoli del fatto che non esiste vero sapere che non sia un sapere di tutta l´anima, che trasformi dunque la totalità dell´essere di colui che lo esercita. (...)
Contrariamente a un´opinione assai diffusa e tenace, il saggio antico non rinuncia all´azione politica. In nessuna scuola filosofica dell´antichità, infatti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un´azione sugli altri uomini. E se la portata che egli vuol conferire alla propria azione varia a seconda delle scuole, il fine è sempre lo stesso: convertire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro si sforza di farlo creando delle piccole comunità ferventi, in cui regna una serena amicizia. Platonici, aristotelici e stoici, da parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle costituzioni o sul re. Inoltre, diciamolo di sfuggita, in tutte le scuole si trovano descrizioni del re ideale più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, essi cercano di agire attraverso l´esempio impressionante del loro genere di vita.
Sarebbe comunque un errore pensare che la figura del saggio, descritta e imitata dal filosofo, autorizzi la fuga e l´evasione lontano dalla realtà quotidiana e dalle lotte della vita sociale e politica. Innanzitutto, la figura del saggio invita il filosofo all´azione, non solo interiore ma esteriore: agire secondo giustizia al servizio della comunità umana, dice Marco Aurelio. Ma soprattutto, la figura del saggio sembra in un certo senso ineluttabile. Essa è l´espressione necessaria della tensione, della polarità, della dualità inerente alla condizione umana. Da un lato, infatti, per sopportare la propria condizione, l´uomo ha bisogno di inserirsi nel tessuto dell´organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e comodo del quotidiano. Questa sfera del quotidiano, però, non lo protegge interamente: egli si confronta inevitabilmente con ciò che si potrebbe chiamare l´indicibile, l´enigma terrificante del suo esserci, qui e ora, condannato a morte, nell´immensità del cosmo: diventare cosciente di sé e dell´esistenza del mondo è una rivelazione che rompe la sicurezza dell´abitudine e della quotidianità. L´uomo quotidiano cerca di eludere quest´esperienza dell´indicibile, che gli sembra vuota, assurda o terrificante. Certi uomini osano affrontarla: per loro, al contrario, è la vita quotidiana a sembrare vuota e anormale. La figura del saggio risponde dunque a un bisogno indispensabile: quello di unificare la vita interiore dell´uomo. Il saggio sarebbe così l´uomo capace di vivere su entrambi i piani: perfettamente inserito nella vita quotidiana, come Pirrone, e tuttavia immerso nel cosmo; votato al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella vita interiore; consapevole eppure sereno; sempre memore di ciò che è essenziale; e, infine e soprattutto, fedele fino all´eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. Questo è quanto il filosofo deve cercare di realizzare.
(Traduzione di Barbara Carnevali)
La saggezza e la politica. Quella frattura tra l’antico e il moderno
di Pierre Hodot
Massime che dovevano spiegare agli uomini la distanza che li separa dagli dei
L´uomo inserito perfettamente nella vita quotidiana e tuttavia anche immerso nel cosmo
Il nostro presente visto alla luce della tradizione della polis greca dove l´azione pubblica era importante quanto la riflessione
Viviamo in una civiltà in cui l´ordine della scienza è del tutto autonomo, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è proprio questo il problema, se non il dramma della nostra epoca. Come potrà il mondo moderno ritrovare una saggezza, e cioè una forma di sapere, di coscienza, che non verta solo sugli oggetti del conoscere, ma sulla vita stessa intesa nel suo vissuto quotidiano, sul modo di vivere e di esistere?
Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nell´antichità greco-latina. I termini sophos e sophia, che traduciamo rispettivamente con "saggio" e "saggezza", quando fanno la loro precoce comparsa nella letteratura poetica o filosofica della Grecia antica, designano tanto l´abilità tecnica quanto l´eccellenza nell´arte musicale o poetica, e alludono a una competenza che è, al tempo stesso, il risultato dell´educazione impartita da un maestro, il frutto di una lunga esperienza, e il dono ricevuto grazie a un´ispirazione divina. È ai consigli di Atena che il carpentiere deve la sua sophia, l´abilità e il sapere nell´arte del costruire (Iliade XV, v. 411), ed è grazie alle Muse che il poeta sa cosa e come deve cantare (Esiodo, Teogonia, vv. 35-115). Troviamo qui quello che sarà un tratto costante della dottrina antica della saggezza: essa è anzitutto appannaggio degli dèi, il segno stesso della distanza che separa gli dèi dagli uomini.
I termini sophos e sophia si applicano anche alla competenza politica. Così è, in particolare, quando gli antichi parlano dei Sette Sapienti, figure storiche del VII e VI secolo a. C. divenute presto leggendarie, che possiedono a un tempo la competenza tecnica e quella politica. Sono legislatori ed educatori, come Solone. Le massime attribuite alla loro saggezza erano incise vicino al tempio di Delfi su una stele fatta incidere, con ogni probabilità nel III secolo, dal discepolo di Aristotele Clearco. Tra queste massime figurano formule celebri: «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Riconosci il momento favorevole», «La misura è la cosa migliore», «L´esercizio è tutto».
Le massime delfiche erano destinate, tra l´altro, a rendere gli uomini consapevoli della distanza che li separa dagli dèi e dell´inferiorità del loro sapere, dunque della loro saggezza. La massima saggezza dell´uomo consiste nel riconoscimento dei propri limiti. O, più precisamente, come dirà Socrate citando proprio un oracolo di Delfi: «Il più sapiente tra voi (sophotatos) è colui che, come Socrate, si sia reso conto che, in quanto a sapienza (sophia) non val nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 23b).
Con il IV secolo, per l´esattezza con Socrate e Platone, e con la riflessione sull´uso del termine philosophia (amore per la saggezza), si manifesta una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio. Si diventa infatti consapevoli del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l´uomo non può che riconoscere di essere separato da una distanza immensa. Allo stesso tempo, la saggezza si identifica sempre più con l´episteme, ossia con un sapere certo e rigoroso, che non è mai concepito, del resto, come il nostro sapere scientifico moderno, perché coincide sempre con un saper fare, un saper vivere, insomma un certo modo di vivere. Dopo Platone, infatti, i Greci diventano profondamente consapevoli del fatto che non esiste vero sapere che non sia un sapere di tutta l´anima, che trasformi dunque la totalità dell´essere di colui che lo esercita. (...)
Contrariamente a un´opinione assai diffusa e tenace, il saggio antico non rinuncia all´azione politica. In nessuna scuola filosofica dell´antichità, infatti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un´azione sugli altri uomini. E se la portata che egli vuol conferire alla propria azione varia a seconda delle scuole, il fine è sempre lo stesso: convertire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro si sforza di farlo creando delle piccole comunità ferventi, in cui regna una serena amicizia. Platonici, aristotelici e stoici, da parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle costituzioni o sul re. Inoltre, diciamolo di sfuggita, in tutte le scuole si trovano descrizioni del re ideale più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, essi cercano di agire attraverso l´esempio impressionante del loro genere di vita.
Sarebbe comunque un errore pensare che la figura del saggio, descritta e imitata dal filosofo, autorizzi la fuga e l´evasione lontano dalla realtà quotidiana e dalle lotte della vita sociale e politica. Innanzitutto, la figura del saggio invita il filosofo all´azione, non solo interiore ma esteriore: agire secondo giustizia al servizio della comunità umana, dice Marco Aurelio. Ma soprattutto, la figura del saggio sembra in un certo senso ineluttabile. Essa è l´espressione necessaria della tensione, della polarità, della dualità inerente alla condizione umana. Da un lato, infatti, per sopportare la propria condizione, l´uomo ha bisogno di inserirsi nel tessuto dell´organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e comodo del quotidiano. Questa sfera del quotidiano, però, non lo protegge interamente: egli si confronta inevitabilmente con ciò che si potrebbe chiamare l´indicibile, l´enigma terrificante del suo esserci, qui e ora, condannato a morte, nell´immensità del cosmo: diventare cosciente di sé e dell´esistenza del mondo è una rivelazione che rompe la sicurezza dell´abitudine e della quotidianità. L´uomo quotidiano cerca di eludere quest´esperienza dell´indicibile, che gli sembra vuota, assurda o terrificante. Certi uomini osano affrontarla: per loro, al contrario, è la vita quotidiana a sembrare vuota e anormale. La figura del saggio risponde dunque a un bisogno indispensabile: quello di unificare la vita interiore dell´uomo. Il saggio sarebbe così l´uomo capace di vivere su entrambi i piani: perfettamente inserito nella vita quotidiana, come Pirrone, e tuttavia immerso nel cosmo; votato al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella vita interiore; consapevole eppure sereno; sempre memore di ciò che è essenziale; e, infine e soprattutto, fedele fino all´eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. Questo è quanto il filosofo deve cercare di realizzare.
(Traduzione di Barbara Carnevali)