Sunday, December 30, 2007

Saffo: "Eroina moderna, ha inventato il vocabolario dell'amore"

da "Corriere della sera", 19 maggio 2003
Jong: "Eroina moderna, ha inventato il vocabolario dell'amore"
Intervisat alla scrittrice femminista. Che riscopre la poetessa di Lesbo

NEW YORK - Mentre l'America si prepara a festeggiare il trentesimo anniversario dall'uscita di Paura di volare , simbolo della liberazione sessuale della donna contemporanea, Erica Jong ha deciso di chiudere simbolicamente il cerchio. Con Il salto di Saffo (che in Italia sarà pubblicato da Bompiani), una biografia romanzata della poetessa di Lesbo, trasformata dalla sessantunenne scrittrice newyorchese in un'icona femminista. «Con Paura di volare ho iniziato a raccontare storie di donne sconosciute, dimenticate dai libri di storia - spiega al Corriere la Jong - in Il salto di Saffo intendo fare lo stesso: riscoprire una grande eroina misconosciuta».

Perché proprio Saffo?
«Perché ha inventato il vocabolario dell’amore giunto sino ai giorni nostri. Perché ogni poeta importante l'ha copiata, da Catullo a Ovidio alla cultura europea odierna. Se ascolti le canzoni d'amore di oggi, scopri che le metafore di Saffo furoreggiano. Saffo è una donna moderna: nei suoi sentimenti verso l'amore, la gelosia, il matrimonio, la maternità, nei problemi con il fratello. Se fosse viva oggi sarebbe italiana, europea, americana».
Il libro è anche un po' autobiografico?
«In un certo senso scrivi sempre della tua personale esperienza, che poi però modifichi. Saffo fu una grandissima cantautrice, l'incrocio tra una pop star e una poetessa: metà Madonna e metà Sylvia Plath. Come lei, anch'io so che cos'è catturare e sedurre gli ascoltatori attraverso le parole».
Che cosa ha scoperto di inedito rispetto al mito?
«Che la storia del suo suicidio è una menzogna per sminuire o annullare la sua importanza. Saffo era una donna eccezionale e molti uomini che non potevano competere con lei, così brillante, hanno inventato che si è gettata da un dirupo a causa del giovane Faone. Lei, la donna che ha cantato la passione verso i due sessi, che amava uomini e donne, alla fine viene ricordata come la povera, ormai vecchia ragazza che si è gettata nel burrone per un amore non corrisposto. Ma una donna fortissima come lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere».
Quali aspetti della sua vita ha trovato particolarmente controversi?
«La sua bisessualità totalmente aperta mi interessava perché i pagani non avevano nulla di questa nostra cristiana moralità: non era ancora stata inventata. Essi amavano persone del loro stesso sesso e del sesso opposto ma nessuno trovava ciò strano. Volevo tornare ai tempi pre-cristiani per vedere com'era il mondo prima che inventassimo il nostro moralistico Dio giudeo-cristiano che punisce. Ho una tremenda attrazione verso il paganesimo: anch'io, come Saffo, amo Afrodite».
Come verrà accolto il suo libro nell'era di George W. Bush?
«Bush e la destra fondamentalista cristiana lo odieranno. Pur parlando del passato, in esso mostro lo specchio dell'oggi. I tiranni greci che come il legislatore di Lesbo andarono al potere nel VII secolo a.C. usavano le guerre per far stare la gente dalla loro parte. Tutto quello che accadde nell'antica Grecia sta succedendo nell'America del 2003. La guerra diventa un grande schema per tenere buona la gente che supporta il tiranno. Mantenere costante la paura del terrorismo: ecco il modo in cui Bush la sta facendo franca».
Il suo libro ha anche un risvolto politico, insomma?
«Sì. Sono impaurita dalla situazione politica americana. Abbiamo un'amministrazione fondamentalista con un ampio conflitto di interessi, dove tutti i signori del petrolio si arricchiscono con l'Afghanistan e con i giacimenti e la ricostruzione dell'Iraq. Purtroppo gli americani non capiscono: è un brutto momento per il Paese, mi creda».
Ritiene che anche i diritti delle donne siano in pericolo?
«L'amministrazione Bush sta tentando di sbarazzarsi della libertà di procreare, dell’aborto e della contraccezione. Come ministro della Salute Bush ha scelto uno che non crede negli anticoncezionali. Stiamo perdendo la nostra credibilità nel mondo perché non onoriamo i trattati, abbiamo scaricato l'Onu, distruggiamo l'ambiente. La dottrina-Bush è sempre più aggressiva. L'America è su una cattiva strada: altri quattro anni di repubblicani e saremo davvero nei guai».
Pensa che alle prossime elezioni Bush vincerà ancora?
«Sembra proprio di sì perché la guerra che genera affari funziona. Così la gente sventola la bandiera e dice: "dobbiamo rieleggerlo, siamo in guerra". E' uno dei trucchi più vecchi del libro. La Bibbia intendo dire».
Il suo prossimo progetto?
«Un libro sul matrimonio di una donna di età avanzata nella New York contemporanea. Ho sempre desiderato scrivere una storia su una donna anziana, sexy e vitale in un mondo in cui si suppone che a 50 anni devi smettere di fare sesso. E' un argomento su cui ben pochi hanno scritto qualcosa».
E' vero che Hollywood vuole trasformare Paura di volare in film?
«Sì. Dopo il recente allestimento teatrale al Manhattan Theater Club spero proprio che anche il mio sogno di un film si avveri. Magari interpretato da Renée Zellweger o da Kate Hudson o Reese Witherspoon».
Paura di volare è considerata la sua opera più importante. Come lo spiega?
«Penso che abbia aperto una porta alle donne, permettendo loro di parlare delle emozioni del sesso senza inibizioni. Dopo averlo letto, molte si sono dette: "ma allora non sono pazza, non sono l'unica a sentire certe cose". Ciò ha avuto un grande impatto, perché erano abituate a vergognarsi se esprimevano le proprie fantasie. Trovarsele in un libro diede loro una tremenda sensazione di libertà, la voglia di rivendicare nuovi spazi. Per molte donne fu il punto di partenza di una rivoluzione».
Che cosa la ispirò a scrivere quel libro?
«Il Lamento di Portnoy ebbe su di me un'influenza straordinaria. Quando uscì mi domandai: "Perché non esiste un libro come questo per noi donne"? I motivi erano molti: una femmina che parlava di sesso era considerata una sgualdrina e in America non esisteva un linguaggio per la sessualità che non fosse "sporco". Philip Roth mi fece capire che anche io avrei potuto scrivere di certe cose dal punto di vista di una donna».
Oggi la situazione è molto diversa?
«Sì e no. Da una parte molte idee che si era abituati a considerare "femministe" sono state completamente assorbite nella nostra cultura e vengono considerate normali. Penso alle eroine promiscue di Sex and the City . Dall'altra niente è cambiato. Recentemente ho tenuto un corso alla Barnard University, dove mi sono laureata, rimanendo esterrefatta del fatto che per i miei studenti, maschi e femmine, una donna che si apre sulla propria sessualità oggi è considerata una sgualdrina. La nuova edizione per il trentesimo anniversario del libro è destinata proprio a questa nuova generazione che lo sta scoprendo e apprezzando, trovandone gli argomenti attuali e di rilievo».
Lei si considera una donna felice?
«Sono stordita dalla gioia per l'imminente matrimonio della mia unica figlia con Matthew Greenfield, docente di inglese e studioso di Shakespeare colto e intelligente che scrive splendide poesie: non ho mai visto Molly così felice. E sono soddisfatta per quello che sto facendo nel mio lavoro. Con ogni nuovo libro tento di inoltrarmi in territori nuovi, scrivendo di cose di cui un tempo avevo paura. Credo che sia dovere di ogni scrittore appropriarsi di spazi inediti, con ogni sforzo. Non voglio mai fermarmi. E non è facile».

Grytzko Mascioni, fra il viaggio e la fantasia

da "Corriere del Ticino", 17 settembre 2003
Grytzko Mascioni, fra il viaggio e la fantasia

di Sergio Roic
Il nome di Mascioni l’ho incontrato per la prima volta leggendo un suo libro sul dio greco Apollo. Un libro molto greco, come lo era d’altronde Mascioni stesso, sempre proteso alla ricerca della radice classica della nostra civiltà.
In un’altra occasione – ora avevo imparato a conoscerlo di persona – avevamo discusso di un libro che, per entrambi, aveva un significato particolare: Pensatori greci di Theodor Gomperz. Le valli della Grecia precristiana erano state l’ideale trampolino di lancio di una civiltà, diceva citando Gomperz. E quello sguardo greco, ad abbracciare il mare, l’avventura, teso a superare il limite, ogni limite, era al contempo sia uno sguardo greco che il susseguente modo di osservare (e pensare) occidentale, europeo; proteso sempre al di là di ogni limite. Lo sguardo di Ulisse.
Fu in quell’occasione, parlandone con Grytzko, che afferrai appieno il significato di «limite». Un limite- orizzonte da superare, sempre.
Mascioni, nato in una valle, adorava il mare. Su una nave che solcava l’Adriatico mi confessò di essersi sentito soffocare, nella sua valle. Che amava, profondamente. Eppure, mi disse, che già da adolescente aveva avvertito, profondo, il bisogno di quello spazio sconfinato, della rotta che in un attimo sembra aprire ogni possibilità al viaggio e alla fantasia. Mascioni aveva bisogno di viaggiare per sbrigliare la sua fantasia artistica. Il risultato sono le sue opere: Mascioni non è quello scrittore che ha scritto un solo romanzo, e poi lo ripete. Il suo percorso, come pure il percorso che hanno fatto, sull’arco di una vita, le sue idee, è una ricerca costante di nuovi modi di espressione. Poesie, prose, saggi, romanzi, Mascioni sembra essersi cimentato con tutti i generi letterari. Ma il Mascioni che conosco meglio è un vero e proprio mito letterario croato. Grytzko, infatti, durante la sua lunga permanenza a Zagabria (che è poi la mia città) come ambasciatore di cultura, ha scritto un romanzo, Puck, probabilmente autobiografico. Dico «probabilmente» perché ogni scrittore, quando scrive di sé, in realtà si nasconde.
Ma se, a Zagabria, parlate di Puck a qualsiasi uomo di cultura, vedrete che gli si illuminano gli occhi, gli si aprono i ricordi, ricordi di una stagione maledetta, quella della guerra, eppure ebbra di possibilità e di voglia di fare; quella voglia di fare culturale promossa dal magnifico Puck, il personaggio- persona che fu Grytzko per quella città.
Grytzko Mascioni, come ogni vero uomo di cultura, come ogni vera personalità, ha avuto un antagonista. Che non è altri se non il suo grande amico- competitore Predrag Matvejevic. Entrambi amavano di amore profondo il Mediterraneo. E competevano per descriverlo meglio dell’altro. Una volta, con Matvejevic, mi misi a parlare di Mascioni e Predrag mi confessò che per il suo rapporto con Grytzko, improntato alla grande amicizia, non poteva trovarsi formula migliore di quella dell’antagonismo creatore, quell’intenso rapporto mimetico- competitivo che ritroviamo, presentatoci come sul palmo di una mano, nei libri di René Girard. Chi mi è vicino, chi sento più profondamente mio, chi parla e scrive delle mie cose, è colui che io cercherò di superare. E’ così, concluse Matvejevic, che nascono le grandi opere.
Nel caso di cui vi narro, esse, le opere, i romanzi, i saggi, le poesie di Grytzko, nulla e nessuno le potrà cancellare, tanto meno la logica della nostra esistenza che è un passaggio; le opere di Mascioni, dicevo, vivono e vivranno con e nella nostra memoria, la memoria che Grytzko tanto amava, un mito platonico per cui un trasvolatore, per un attimo, dall’alto, ricordandola, è capace di afferrare l’essenza dell’idea; le opere di Grytzko Mascioni, mio amico letterario, dicevo, vivranno e rimarranno nella memoria di tutti coloro che vorranno provare a catturare la vera essenza dell’idea.

Saturday, December 29, 2007

Miracolo al Partenone. Nasce la modernità

dal corriere.it
Miracolo al Partenone. Nasce la modernità

di EVA CANTARELLA

Nella Prefazione a Hellas, Byron scriveva: «Siamo tutti greci. Le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Se non fosse stato per la Grecia (…) saremmo ancora selvaggi o idolatri. Peggio ancora, potremmo essere rimasti a uno stato così miserabile ed estraneo alle istituzioni sociali come possono esserlo la Cina o il Giappone». Era il 1821, la Grecia era un mito indiscusso e incontrastato.

Nel secolo seguente non sarebbe rimasto tale. Nel 1900 cominciò a diffondersi un modo di guardare ai greci più critico, che giustamente rifiutava, per cominciare, l’idea del «miracolo greco»: la straordinaria fioritura delle arti, delle lettere e delle scienze, nella Atene del Vsecolo non era un fenomeno improvviso e inspiegabile; non era, appunto, una sorta di miracolo. Si spiegava nella storia, nel maturare di una cultura che aveva alle spalle un passato da capire, da interpretare, di cui individuare le componenti e le origini. Argomento, quest’ultimo, destinato, sul finire del secolo scorso, a scatenare una accesa polemica sul ruolo dei greci nella storia della cultura occidentale. Nel 1987, infatti, questo ruolo era stato messo in discussione da un libro significativamente intitolato Black Athena, The Afroasiatic Roots of Classical Civilization (Free Association Books, Londra, 1987).


Secondo Martin Bernal, l’autore del libro, quelle che erano sempre state considerate conquiste intellettuali dei greci, dalla filosofia alla teoria politica, dall’arte alla storiografia, erano nate in Asia e in Africa. I greci si erano limitati a recepirle, a cominciare dalla sfera della religione: Atena infatti era una dea africana, di nome Neith. Di pelle nera, dunque. Esattamente come Socrate, il filosofo dal naso camuso e i capelli ricci.

La nostra plurisecolare convinzione che le origini della civiltà occidentale siano greche (dunque indoeuropee) sono la conseguenza, diceva Bernal, di una falsificazione storiografica, iniziata alla fine del Settecento, quando l’Europa aveva voluto costruire un monumento a se stessa, facendo della Grecia il luogo della sua prodigiosa adolescenza, e cancellando dalla sua storia quelli che europei non erano. Senza dubbio, Bernal ricordava alcune verità: l’Occidente ha effettivamente costruito il mito delle sue origini greco- romane.

Ogni civiltà, del resto, ha un mito di fondazione che cementa la sua identità culturale (ma può anche creare nei componenti del gruppo l’idea di una loro superiorità). Gli ateniesi raccontavano il mito di Erictonio, i tebani quello di Cadmo, i romani quello delle loro origini troiane; l’Occidente, a distanza di molti secoli, costruì quello delle sue origini classiche. La denuncia della mitizzazione «ariana» era giusta: ma Black Athena non si limitava a proporre un'immagine più realistica della civiltà greca. Partendo dall’ipotesi delle sue origini afro-semitiche, arrivava a escludere che essa avesse avuto una qualsiasi rilevanza nel processo di formazione della civiltà occidentale.

Al momento della pubblicazione, il libro divise la comunità dei classicisti, con forti implicazioni politiche: quantomeno negli Stati Uniti, criticare Black Athena era politicamente scorretto. Ma nel giro di alcuni anni le acque si calmarono, e si cominciò a discutere affrontando il problema dal punto di vista scientifico. Negli anni Novanta, le tesi di Bernal, anche da chi non contestava in toto, furono fortemente ridimensionate.

Fondamentale, in materia, la presa di posizione di Arnaldo Momigliano, autore tra l’altro di Alien Wisdom, The Limits of Hellenization (Cambridge University Press, 1971), un libro che, mentre denuncia l’innegabile etnocentrismo dei greci, constata che il loro atteggiamento non riuscì, comunque, a impedire che in età ellenistica si verificasse quella fusione di elementi greci, ebraici e latini su cui la nostra civiltà è fondata.

Il contributo dei greci alla cultura occidentale, insomma, non può essere cancellato: difficile ad esempio dire che la storiografia non è nata in Grecia. Altro è registrare alcuni eventi su lapidi o materiale di altro genere, come si faceva in Oriente, altro è inventare un genere letterario, che si propone di raccontare gli eventi e individuare metodi e fonti di questo «scrivere la storia». La storiografia nacque in Grecia, perché lì— e non altrove—nacque l’atteggiamento critico verso la registrazione degli eventi, vale a dire lo sviluppo di metodi critici che consentono di distinguere tra fatti e fantasie.

Ma la denuncia degli estremismi di Bernal non ha impedito di riconoscere i suoi meriti. Black Athena ha indotto ad andare al di là del generico riconoscimento che la civiltà greca non è nata dal nulla, e a valutare nella giusta luce gli intensi rapporti commerciali e intellettuali esistenti tra Oriente e Occidente a partire dal III millennio; ha contribuito a far individuare i debiti specifici dei Greci nei confronti dei popoli con cui avevano avuto questi contatti.

La storiografia più recente, insomma, ha rivisitato i rapporti tra la Grecia e l’Oriente e li ha giustamente rivalutati, senza peraltro arrivare a negare che l’Occidente debba ai greci alcuni tratti salienti della sua storia intellettuale. Come negare che dobbiamoai greci concetti come cittadinanza, libertà di parola, uguaglianza, democrazia? Finalmente—sembra di poter dire — la storia greca viene letta con equilibrio, da un canto senza mitizzazioni, dall’altro senza operare indebiti collegamenti tra il piano della storia e quello della politica.

'Giuliano' di Gore Vidal

dal blog uglykidBLOG:

Giuliano" di Gore Vidal



ATTENZIONE : questo post contiene numerosi spoiler (anticipazioni) sulla trama dell'opera !

Nell'introduzione del suo breve saggio "L'imperatore Giuliano", lo storico Ignazio Tantillo spiega come la vita dell'imperatore noto per la sua apostasia possa costituire un intrigante soggetto per un kolossal hollywoodiano sulla scia de "Il gladiatore". In effetti la biografia di Flavio Claudio Giuliano ha tutte le carte in regola per emozionare il grande pubblico : Giuliano, introverso studente di retorica e filosofia ad Atene, viene proclamato imperatore a seguito di una successione di eventi quasi casuali e rivela delle insospettate doti di comandante militare durante la campagna contro Costanzo II (morto di febbre prima dello scontro diretto) e contro i parti, al termine della quale trovera' la morte all'eta' di 33 anni. In largo anticipo su Hollywood, lo scrittore Gore Vidal nel 1962 e' rimasto affascinato dalle vicende dell'Apostata e tale fascino e' sfociato nello straordinario romanzo storico "Giuliano". La lettura di "Giuliano" presuppone una almeno discreta conoscenza delle dispute dottrinali che laceravano la comunita' cristiana dell'eta' tardoantica : ignorare i fatti storici legati all'eresia ariana, al principato di Costantino e al concilio di Nicea riduce significativamente la godibilita' e la comprensione del libro. Gore Vidal ha infatti eseguito una meticolosa ricerca storiografica sulla quale si regge solidamente l'intero impianto narrativo dell'opera. La vicenda di Giuliano viene raccontata in un immaginario carteggio epistolare fra Libanio e Prisco, rispettivamente insegnante di retorica e amico dell'imperatore. Libanio, all'indomani dell'editto di Teodosio del 380 d.C. che designava il cristianesimo quale religione ufficiale dell'impero, decide infatti di pubblicare le memorie del giovane imperatore scomparso (scritte dallo stesso Giuliano, fatto non vero ma funzionale alla fluidita' della trama) onde riabilitarne la memoria e promuovere quella restaurazione del paganesimo alla quale Giuliano si era dedicato senza successo. Il quadro che emerge dalla narrazione di Vidal e' imponente e di un rigore storico straordinario : Giuliano, uomo di eccezionale cultura classica, viene sconfitto nella sua battaglia contro il cristianesimo perche' il sistema culturale di cui lui e' espressione e' oramai inadeguato a interpretare una realta' sociale in profonda trasformazione e della quale la nuova religione e' elemento caratterizzante ed inscindibile.

Come i greci fondarono l'Occidente

Fazi Editore - Libri:
"Come i greci fondarono l'Occidente"
Thomas Cahill
Come i greci fondarono l'Occidente


traduzione di Guido Lagomarsino



«Del passato ci restano solo pezzi: cocci, brandelli, palinsesti, codici fatiscenti con pagine mancanti, spezzoni di film-giornale, brani di canzoni, volti di idoli il cui corpo si è da tempo ridotto in polvere, che ci fanno gettare lo sguardo su qualcosa che non è mai stato la realtà del tutto intera. Il mio metodo è questo: metto insieme i pezzi che ci sono, li contrappongo e li confronto, cerco di frequentarli finché non comincio a vedere, a udire, ad amare quello che vedevano, udivano e amavano uomini e donne un tempo viventi, finché costoro cominciano a mostrarsi e riprendono vita spuntando da questi pezzi e da questi frammenti, poi mi sforzo di comunicare le mie sensazioni al lettore».

Grazie a questo modo di riportare in vita il passato, Thomas Cahill ci offre in queste pagine un viaggio sul mare dai magici colori del vino e della porpora, quello della civiltà greca, per rivisitarne i luoghi più celebri, i poemi omerici, la poesia lirica e la tragedia, le grandi opere della scultura, per incontrare i principali protagonisti ma anche la gente comune, per conoscere tutti gli aspetti della vita quotidiana, per riprendere coscienza del nostro debito nei confronti di quel popolo antico e geniale che ci ha lasciato in eredità alcuni elementi centrali della nostra identità di uomini occidentali: la filosofia e la logica, l'eros e la poesia, la democrazia e la politica.

recensione: Giuliano di Gore Vidal

recensione:
Gore Vidal, Giuliano, Fazi Editore,

Luca Scarlini

Quel tour anni ’60 nella favola pagana
di Luca Scarlini
da Alias, 27/09/2003

Per lo scrittore kennediano Età dell’oro è quasi sempre formula squisitamente polemica: ed Età dell’oro fu quella vagheggiata dall’Apostata, che qui Vidal resuscitava in tutta la sua tragedia di uomo contro il tempo.

Pubblicato originariamente nel 1964, Giuliano rimane uno dei libri di Gore Vidal più amati e letti in tutto il mondo e ora Fazi ("Le Strade", pp. 580, 18,50 euro) ne manda in libreria una nuova puntuale versione, a cura di Chiara Vatteroni, che sostituisce la precedente tradotta da Ida Omboni (edita da Rizzoli, 1696 e poi da Bompiani, 1990). Se è possibile trovare un genere di preferenza per l’opera del vulcanico scrittore americano, il romanzo storico rimane senz’altro il suo territorio per antonomasia, con due percorsi connessi come le facce della stessa medaglia. In primo luogo, infatti, nel basilare ciclo sull’Impero americano gli eroi si ritrovano adornati di ombre spesso decisamente funeste e mi basti citare, ne L’età dell’oro, la raffigurazione di un Franklin Delano Roosvelt non più senza macchia e senza paura, ma coinvolto in modo pesante nei fatti di Pearl Harbor. Per contrasto i villains professionali, fustigati dalla Storia ufficiale, hanno spesso nelle sue pagine una nuova chance, e valga in questo senso il memorabile Burr del 1973, da molti anni introvabile, in cui firma un grande ritratto decisamente controcorrente del "traditore" della saga a stelle e strisce: Aaron Burr, prima paladino della rivoluzione americana, poi "assassino" in duello del rivale alla presidenza Alexander Hamilton, infine accusato di voler diventare imperatore del Messico e poi assolto dopo un furibondo processo per alto tradimento. Il tutto sempre condito da lunghe ricerche d’archivio e da furibonde polemiche con gli storici ufficiali (è decisamente incantevole la parodia riservata ne L’età dell’oro al biografo di Jefferson, Dumas Malone, che andò in fibrillazione leggendo le pepate rivelazioni vidaliane sulla vita privata del presidente "immacolato").
Eppure con Giuliano il quadro muta sensibilmente, perché in tutte quelle storie in un certo senso lo scrittore esibisce le sue credenziali di protagonista della vita pubblica statunitense, imparentato con o amico di numerosi v.i.p. (non si condivide impunemente un patrigno con Jaqueline Onassis), e L’età dell’oro - che presenta brevemente lui stesso come personaggio (è un Vidal agli esordi, che scrive romanzi di guerra e che compare nella galleria di Peggy Guggenheim qualche tempo prima che scoppi lo scandalo di The City and the Pillar) – conclude un cerchio fatto di familiarità, se non ovviamente con i protagonisti delle trame, quanto meno con un ambiente e con una mentalità diffusi, di cui è cronista precisissimo. Non è certo Giuliano d’altra parte l’unico romanzo in cui lo scrittore ha affrontato l’antichità, basti citare il complesso (e per molti aspetti notevole) Creazione, che narrava una lunga esistenza a contatto con Socrate, Zoroastro, Buddha e Confucio, descrivendo allo stesso modo quattro civiltà e il loro sviluppo, così come Alla ricerca del re, in cui Vidal tornava ad antiche aure britanniche, cantando di Riccardo Cuor di Leone e di Blondel.
Qualche studioso ha voluto vedere nel Julian un carattere di "biografia come autobiografia", laddove a scrivere era il Vidal candidato a governatore (per chi non l’ha visto in questa veste, consigliamo il memorabile scontro televisivo contro l’ultraconservatore Buckley, reperibile in Internet), che trovava degli echi presenti nella storia cupa e luttuosa dell’ultimo imperatore pagano (aveva abiurato al cristianesimo "di Stato" di Costantino il Grande): in piena era kennedyana, solo apparentemente era di generale cambiamento, questa consonanza tra imperi resta da dimostrare, e ha valore più che altro come indicazione di una temperatura storica. Comunque lo si voglia interpretare, l’Apostata rimane un personaggio tragico che sta nella nostra tradizione sostanzialmente come figura bifronte, da un lato demonizzato dalla Chiesa che lo pone tra i “mostri” per eccellenza, come ben spiega il cinquecentesco quadro di Donato Piperno conservato al Museo Civico di Benevento, in cui egli viene raffigurato secondo le connotazioni iconografiche di un drago ucciso dal San Giorgio di turno; e dall’altro invece esaltato romanticamente come simbolo perfetto di inattualità, di netto rifiuto dell’irregimentazione, costi quel che costi. Il catalogo di opere che gli sono dedicate è per certi aspetti sbalorditivo: citando solo alcuni esempi tra Otto e Novecento, Ibsen dedicò al tema un dramma storico, Cesare e Galileo (1873), il simbolista russo Dmitrij Merezkvoskij spopolò con il magniloquente La morte degli Dei (1896), parte di un’ambiziosissima trilogia intitolata Cristo e Anticristo, non più frequentata oggi, ma che ebbe una certa fortuna anche in Italia. Più di recente, negli anni Cinquanta, un filosofo del calibro di Alexander Kojève definì l’imperatore un "Voltaire di prima classe" per la straordinaria modernità del suo pensiero politico e teologico. Eppure, malgrado tutti i tentativi di riabilitazione, la damnatio memoriae permane tutt’oggi, come hanno dimostrato le polemiche sorte intorno alla puntuale edizione di Sugli dei e il mondo di Salustio, collaboratore strettissimo dell’imperatore, curata da Riccardo di Giuseppe per Adelphi. Gore Vidal costruisce la storia di Giuliano attraverso le lettere di due suoi amici, intellettuali ormai anziani, Libanio e Prisco, che vogliono ristabilire la verità sul monarca calunniato, senza credere però ai loro affetti, e spiegare le motivazioni delle sue azioni, dall’impedimento ai cristiani di tenere scuola alla repressione violenta. Per far questo lo scrittore di Washington attinge a molte fonti (a partire da quella più celebre, Ammiano Marcellino, ma tenendone ben presenti altre, tra cui Gregorio Nazianzeno e appunto Libanio, oltrechè gli scritti stessi dell’imperatore), tessendo una finissima rete di dialoghi e discussioni; ma quello che più colpisce è proprio il ritratto di Giuliano, straordinaria occasione narrativa, come Eliogabalo, che sedusse Artaud e Arbasino, o come Caligola, di cui Vidal scrisse per l’infelice film omonimo di Tinto Brass. Giuliano è quindi in primo luogo una crux di ossimori, che si pone proprio contro il proprio tempo perché è troppo lucido, perché è affetto da una fatale presbiopia, per cui la sua visione diviene chiara solo quando è applicata alle favole pagane del passato. In lui è allo stesso tempo la curiosità di vedere e capire altre culture, come l’attaccamento superstizioso (e rappresentato talvolta con tratti decisamente infantili) ai riti e miti trascorsi, in una proliferazione di pellegrinaggi, talvolta commoventi, ai luoghi capitali del paganesimo, in un ultimo, straziato, Grand Tour nella Classicità prima che tutto cambi, alla ricerca di un’Età dell’Oro (termine che per Vidal è quasi sempre squisitamente polemico) che non è più concepibile se non come sogno: giustamente Henry de Montherlant, poeta della sconfitta nelle sue cupe variazioni sulla Guerra Civile, escogitò per il libro la bella definizione di aubade, canto nostalgico, certo, ma anche pungente, per a fine di un mondo. Vidal ci racconta quindi, da maestro del moderno romanzo storico, un’epoca di transizione e di cambiamento senza esclusione di colpi, dando voce alle diverse anime di esso e narrando, per parafrasare Salustio "la vita di quanti scelsero di vivere secondo virtù e ne furono capaci".

Friday, December 28, 2007

Indomite, crudeli, “snaturate” Amazzoni, terrore dell’uomo

Eva Cantarella
Indomite, crudeli, “snaturate” Amazzoni, terrore dell’uomo
Tratto da “Corriere della Sera”, 30 maggio 2007
“Un tempo esistevano le Amazzoni, figlie di Ares, e abitavano presso il fiume Termodonte” racconta Lisia, nella orazione funebre in onore dei caduti in guerra. “Sole fra i popoli vicini, esse indossavano armature di ferro. Furono le prime ad apprendere l’arte di cavalcare: sorprendevano a cavallo il nemico disorientato, raggiungendolo se fuggiva, sfuggendolo se le inseguiva. Donne quanto al sesso, erano considerate uomini per il coraggio. Padrone di molte genti, avevano asservito i popoli vicini, ma quando conobbero la fama di Atene, per desiderio di gloria avanzarono in armi contro di noi. Ma nonostante i loro costumi il loro animo era femminile, e furono sconfitte...”. Le Amazzoni: mitiche guerriere, che secondo Erodoto vivevano nelle steppe a nord-est del fiume Don. Nei racconti dei greci, si tagliavano un seno per maneggiare meglio l’arco (di qui il nome a-mazon, “senza un seno”, appunto) e combattevano al comando di una regina. Della più celebre di queste, Pentesilea, si raccontava che, avendo condotto il suo esercito a Troia per soccorrere i Troiani, era stata trafitta da una lancia di Achille, che dopo averla uccisa ne aveva oltraggiato il cadavere; ma si raccontava anche che incrociando lo sguardo della regina morente Achille se ne era perdutamente innamorato. Detestando gli uomini e rifiutando il matrimonio, le Amazzoni si riproducevano accoppiandosi con i loro prigionieri, che successivamente uccidevano, o, secondo un’altra versione del mito, li tenevano come schiavi, dopo averli mutilati perché non potessero usare le armi. Quanto ai figli, superfluo dire che se maschi venivano uccisi (o, in una versione più benevola del mito, solamente accecati). Questo raccontavano i greci delle Amazzoni. Un mito al servizio dell’ideologia, dunque. L’iconografia è chiara: dopo le guerre persiane, vestite in abiti orientali e fornite ad arco e frecce, le Amazzoni simbolizzano l’effeminatezza e la mancanza di autocontrollo del barbaro sconfitto. Nelle metope del Partenone, la battaglia tra loro e i Greci è collegata alla guerra dei Lapiti contro i Centauri, e non a caso. In modo diverso, Centauri e Amazzoni sono sfide all’ordine civilizzato: i Centauri sono espressione della mascolinità selvaggia, violenta, fuori controllo; le Amazzoni, popolo di sole donne snaturate e crudeli, simbolizzano l’opposizione a matrimonio e maternità. Il rifiuto di quel ruolo - insegnava il mito - è possibile solo in un mondo incivile, per i greci addirittura impensabile. Ma quello che era impensabile per i greci poteva essere una realtà in altre parti del mondo? Esistono tracce di un momento in cui le donne, prima di essere destinate allo spazio interno della casa, partecipavano ad attività esterne, come la caccia e forse anche la guerra? Durante gli scavi condotti dagli archeologi russi nei pressi di Millerovo, sulle rive del Don, all’interno di uno dei grandi tumuli che sorgono nella zona, è stato trovato uno scheletro femminile accanto al quale erano stati deposti da un lato una spada e un giavellotto, dall’altro un arco e una faretra piena di frecce, nonché uno specchietto di bronzo, un anello e una collana. Le Amazzoni esistevano, ha titolato la stampa di tutto il mondo. Qualche precisazione è indispensabile: una donna guerriera non è la prova dell’esistenza di un’organizzazione sociale composta di sole donne, o in cui le donne comandano. Il ritrovamento di Millerovo dimostra solo che nelle steppe in cui Erodoto collocava le Amazzoni è esistita una società in cui le donne potevano avere ruoli diversi da quello familiare. Nulla a che vedere, per intenderci, con un eventuale matriarcato, della cui storicità, nell’Ottocento, le Amazzoni sono state considerate una prova. Ma oggi sappiamo - questo sì - che Erodoto non raccontava solo leggende: durante i suoi viaggi, era venuto a contatto con società dai costumi molto diversi dai suoi, dove le donne che combattevano non erano solo un mito. I greci, cui simili donne facevano orrore, avevano costruito su questa realtà un mito a loro uso e consumo: che riflette, quasi a esorcizzarlo, alcuni aspetti di un mondo realmente esistito. In questo senso e con queste avvertenze, la storicità del mito delle Amazzoni va rivalutata.

Olimpia. Quel luogo sacro votato ai Giochi che metteva alla prova forza e virtù

Eva Cantarella
Olimpia. Quel luogo sacro votato ai Giochi che metteva alla prova forza e virtù
Tratto da “Corriere della Sera”, 27 agosto 2007
Olimpia era una città speciale per i greci: sede di uno dei grandi santuari comuni, era il luogo ove, a partire dal 776 avanti Cristo, venivano celebrati a intervalli di quattro anni i giochi panellenici noti come Olimpiadi, sui quali i greci computavano gli anni (questo accadde - dicevano - nel secondo anno della ottantaquattresima Olimpiade...). Ma le Olimpiadi erano molto di più di quello che è oggi un evento sportivo: erano un momento fondamentale nella vita dei greci. Nella competizione, infatti, essi esprimevano uno dei caratteri comuni più forti, la voglia di raccogliere la sfida e di dimostrare la capacità di vincere, superando in primo luogo se stessi. Gareggiare, per loro, significava confrontarsi sul piano di una comune antica etica competitiva, secondo la quale un uomo doveva mettere alla prova la sua virtù, fatta di ricerca della vittoria, dovuta all’unione della forza fisica e della volontà. Vincere era un dovere morale. Chi non vinceva, scrive Pindaro, provava tale vergogna da tornare a casa “per obliqui sentieri nascosti”. Erano un momento così importante, le Olimpiadi, che per garantire il loro pacifico svolgimento, nei mesi che precedevano l’inizio delle gare (che si svolgevano tra fine luglio e inizio settembre e duravano sei giorni), gli araldi percorrevano tutto il territorio greco, annunciando la data delle gare, invitando a parteciparvi e proclamando una tregua (ekékeiria), durante la quale era vietata qualunque operazione militare e che doveva durare fino a quando gli atleti non fossero rientrati nelle loro città. In quel momento ogni rivalità era cancellata, i greci erano una nazione. Si può ben capire oggi cosa significhi per i greci vedere Olimpia accerchiata dalle fiamme.

Scoiattoli al profumo di serpente

dal sito: http://www.blogalileo.com
Scoiattoli al profumo di serpente
Scritto da anecòico, Venerdì 28 Dicembre 2007
Una ricercatrice della UC Davis (California) ha recentemente osservato un curioso comportamento di due specie di scoiattolo, Spermophilus beecheyi e Spermophilus variegates, che utilizzano la pelle lasciata dei serpenti, nei periodi di muta, per mimetizzarsi dai predatori. Questi simpatici roditori masticano avidamente la pelle ormai rinsecchita dei serpenti leccandosi poi la pelliccia, così da trasferire l’odore dei rettili sul loro corpo per ingannare il fiuto dei molti predatori sulle loro tracce.

Le femmine, sia adulte che più giovani, attuano questo procedimento con una frequenza maggiore rispetto ai maschi, generalmente di corporatura e prestanza fisica maggiore e quindi meno soggetti alla predazione da parte dei serpenti. L’odore di serpente permette agli scoiattoli di mascherare il loro afrore, specialmente durante i momenti passati a riposare nelle tane. Sentendo l’odore dei loro simili, i serpenti non si addentrano nelle tane, immaginando siano già state visitate da qualche “collega” predatore.
Ma gli scoiattoli non utilizzano solamente la pelle di serpente per mascherare il loro odore. I risultati della ricerca dimostrano come spesso i roditori si cospargano di terra, ghiaia o altri materiali su cui sono passati i serpenti, così da trasferire sulla loro pelliccia l’odore di questi rettili.


I serpenti a sonagli sono i principali nemici per queste due specie di roditori, che nel corso del loro processo evolutivo hanno sviluppato una progressiva immunità al potente veleno dei loro nemici. Determinati a non diventare una preda così facile, gli scoiattoli sono anche in grado di scaldare a comando le loro code, mandando precisi segnali ai serpenti a sonagli, che sono in grado di vedere anche nello spettro dell’infrarosso. Si tratta di un vero e proprio messaggio di guerra, che comunica ai serpenti a sonagli un potenziale rischio.
L’interessante ricerca svolta alla UC Davis, e recentemente pubblicata sulla rivista scientifica Animal Behavior, dimostra ancora una volta come le piccole astuzie consentano agli animali maggiormente soggetti alla predazione di sopravvivere, riducendo considerevolmente i rischi per intere specie.

---
commento:
è anche dopo questa notizia ci sarà ancora qualcuno capace di dire che gli animali non hanno intelligenza.

Thursday, December 27, 2007

La Luna? E' giovane e nata senza scosse

CORRIERE DELLA SERA - La Luna? E' giovane e nata senza scosse.
Decisivo lo studio del Tungsteno-182.
Secondo ricercatori di Zurigo si è formata insieme alla Terra e non
per l'impatto di asteroide sul nostro pianeta


di Giovanni Caprara

Per l'origine della Luna è tutto da rifare, o quasi. Nuovi esami dei materiali lunari ridisegnano la nascita della pallida Selene offrendo un'immagine meno catastrofica e tutto sommato più naturale per certi aspetti. Mathieu Touboul, assieme al suo gruppo di ricercatori dell'Istituto federale di tecnologia di Zurigo, arrivando alle nuove conclusioni è netto nel giudizio: «Tutto quello che si è detto finora è troppo semplice, le cose stanno diversamente secondo le nostre analisi».

TUNGSTENO - Così Touboul boccia drasticamente la tesi della Luna nata da un impatto con la Terra da parte di un oggetto cosmico della taglia di Marte. Ciò avrebbe sollevato nello spazio una quantità di materiale poi coagulata nel globo lunare. «Abbiamo valutato un isotopo del tungsteno trovato nelle rocce, il tungsteno-182 prodotto dal decadimento di altri elementi, afnio-182 e tantalio-182», ha spiegato Touboul. «Il tungsteno-182 è prodotto dal bombardamento del suolo da parte dei raggi cosmici e questo aspetto nelle passate valutazioni non era stato preso in considerazione». Studiando il tutto (concentrazioni degli elementi, tempi di decadimento, ecc.) il gruppo svizzero è giunto alla conclusione che la Luna è parte del materiale originale da cui si è formata la Terra 4,567 miliardi di anni fa; materiale rimasto nel circondario e poi coagulato. Nessun impatto cosmico quindi ha favorito la sua origine a detta dell'astrofisico svizzero. Rifacendo quindi i conti si è visto anche che la Luna è più giovane di quanto si credesse di 30 milioni di anni.


ESPLORAZIONE - La teoria e le sue dimostrazioni sono interessanti anche se non conclusive definitivamente. Ed è pure per questo che è ripresa l'esplorazione lunare con le sonde automatiche (oggi ce ne sono due intorno al nostro satellite naturale e sono la cinese Chang'e e la giapponese Selene) e nella prospettiva del 2020 con l'arrivo degli astronauti capaci di insediare una base di ricerca permanente.

Nel cervello degli adolescenti, dicono i nuovi studi, avviene una sorta di potatura neuronale dovuta alla crescita

Repubblica 27.12.07
Un libro di Barbara Strauch e le ricerche di Jay Giedd
Nella testa di un ragazzo
di Massimo Ammaniti

Nel cervello degli adolescenti, dicono i nuovi studi, avviene una sorta di potatura neuronale dovuta alla crescita

Ma che ci avrai in quella testa?»: si tratta di una domanda che ogni genitore di un ragazzo o di una ragazza adolescente rivolge frequentemente al figlio di fronte ai suoi comportamenti incomprensibili. A questa domanda la psicoanalisi ha già cercato di rispondere, tuttavia si aprono nuove prospettive con la ricerca neurobiologica che ha iniziato a studiare il cervello degli adolescenti con le più moderne tecniche di visualizzazione cerebrale, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale.
L´interesse per le nuove scoperte sul cervello degli adolescenti è grande, come viene raccontato nel libro divulgativo The primal teen (pubblicato in Italia da Mondadori col titolo Capire un adolescente, pagg. 237, euro 8) scritto dalla giornalista del New York Times Barbara Strauch, che ha raccolto in modo sistematico le ricerche più significative, intervistando i protagonisti di questa vera rivoluzione scientifica. Infatti fino a qualche anno fa si riteneva fra i ricercatori nel campo dello sviluppo umano che la maturazione cerebrale avvenisse fondamentalmente nei primi tre anni di vita, quando ad esempio le connessioni cerebrali aumentano solo nel primo mese di circa 1000 miliardi in coincidenza delle forti stimolazioni ambientali. Come spesso succede in campo scientifico l´introduzione di nuove tecniche di studio apre nuovi mondi sconosciuti, come è avvenuto col cervello degli adolescenti.
Una delle scoperte più interessanti è stata fatta da Jay Giedd, direttore di uno dei laboratori più prestigiosi negli Stati Uniti . Con le sue ricerche Giedd ha scoperto che negli anni immediatamente prima dell´adolescenza si verifica un fenomeno imprevisto, ossia un ispessimento della sostanza grigia cerebrale provocato da una moltiplicazione delle ramificazioni dei neuroni, per cui la rete dei circuiti cerebrali diventa ancora più fitta.
Durante l´adolescenza questo fitto bosco cerebrale va incontro ad un processo di potatura: non sopravvivono tutti i circuiti ma solo quelli che veramente servono. Questa osservazione confermerebbe il concetto di darwinismo neurale sostenuto dal Premio Nobel Gerald Edelman, secondo cui si verifica a livello cerebrale la selezione competitiva dei gruppi neuronali che favorisce quelli maggiormente in grado di adattarsi alle condizioni ambientali. In altri termini Giedd spiega questo stesso fenomeno in adolescenza col principio «se non lo usi lo perdi» per cui solo i circuiti più utili nel corso dello sviluppo sopravvivono diventando più rapidi, efficienti e direzionati.
Anche altre importanti trasformazioni avvengono provocate dagli ormoni sessuali della pubertà che attivano fortemente il sistema limbico, che interviene nella regolazione delle emozioni. Non a caso gli adolescenti presentano alti e bassi di umore, in alcuni momenti sono pieni di entusiasmo e di allegria mentre in altri momenti sono depressi, annoiati o risentiti, una sorta di tempesta emotiva che è stata descritta da studiosi come Stanley Hall o come Anna Freud.
Ma altre aree cerebrali giocano un ruolo particolare, ossia quelle connesse alla dopamina, il magico neuromodulatore che ci dà un senso di benessere e di soddisfazione. Negli adolescenti l´accumulo di dopamina va incontro ad una rapido esaurimento, provocando un senso di vuoto e di malessere. Questo può contribuire a spiegare alcuni comportamenti tipici degli adolescenti, che sembrano ricercare forti stimolazioni nel proprio ambiente. Ad esempio correre dei rischi, come guidare il motorino in modo spericolato, fa sentire bene l´adolescente favorendo la secrezione di dopamina. Altri comportamenti tipici di questa età sono la ricerca di sensazioni come anche delle novità, che danno luogo a stimolazioni nuove ed eccitanti. Naturalmente questi meccanismi cerebrali si intrecciano con le dinamiche psicologiche che caratterizzano l´adolescenza, al punto che può essere difficile distinguere il mondo fisico da quello mentale.
Prendiamo ad esempio la ricerca di novità che, se da una parte attiva la produzione di dopamina, dall´altra contribuisce al processo di distacco dell´adolescente dalla famiglia spingendolo ad esplorare nuovi ambienti e a ricercare nuove relazioni. Questi sviluppi più recenti della ricerca ci fanno vedere che il dualismo fra corpo e mente, come d´altra parte quello fra genetica ed ambiente, è un retaggio del passato mentre possiamo riconoscere una continuità organizzativa fra il piano biologico e quello psichico.
Le implicazioni di queste ricerche sull´adolescenza sono molte.
Infatti la forte attivazione del cervello emozionale, in assenza di un´adeguata maturazione dei lobi frontali e prefrontali, che si verifica solo nella tarda adolescenza, spiega il perché gli adolescenti agiscano impulsivamente senza valutare adeguatamente le conseguenze delle proprie azioni. Tali capacità vengono acquisite solo con la maturazioni dei lobi prefrontali e frontali che diventano la vera bussola del comportamento. Credo che tutto questo debba essere considerato nel rapporto con gli adolescenti di modo che gli adulti siano in grado, se necessario, di frenarli, di indirizzarli ed eventualmente di mettere dei limiti definiti, naturalmente in un clima di comprensione.

Wednesday, December 26, 2007

Da dove nasce la passione occidentale per la concezione hindù della sessualità?

Corpo Divino
Da dove nasce la passione occidentale per la concezione hindù della sessualità?
di e. Ghiaia

Voi volete occuparvi di tutto quello che noi vogliamo distruggere", disse un irritatissimo Nehru ad Alain Danielou, quando seppe che a Parigi, nei 1960, era uscito il saggio L''erotismo divinizzato - Architettura e scultura dei tempio indù (Red Edizioni). Danielou, singolarissimo studioso, onorato e ricordato dalla Fondazione Cini di Venezia che gli dedica una sala, non si considerava uno scienziato, ma un testimone: convertitosi a 40 anni allo shivaismo, conosceva il sanscrito e l'hindi e studiava la musica indiana. Ed è principalmente grazie a lui che l'occidente ha conosciuto e continua a coltivare un interesse sempre maggiore per la straordinaria visione hindù della sessualità. "Era desolato per l'atteggiamento prude dell'India moderna nei confronti della sessualità, emerso a poco a poco dopo le dominazioni musulmane e inglesi. E con passione diffondeva le sue conoscenze sullo shivaismo, convinto che proprio la sua visione della sessualità e la sua filosofia ecologica fossero la risposta a tanti problemi delle società moderne" racconta Jacques Cloarec. Suo collaboratore per 32 anni e dopo la sua morte, che è avvenuta 6 anni fa, curatore delle sue opere. Il culto di Shiva, nato nel 6000 a.C., ha conosciuto una tradizione ininterrotta ed è oggi praticato da circa 600 milioni di persone, soprattutto nelle caste popolari del Sud dell'India, ma anche in alcune zone montane del Nord. "Gli aspetti fondamentali di questa religione sono il culto del fallo - fonte di vita - e dell'unione dei contrari nell'atto sessuale. Immagine del principio creatore e divinizzazione del godimento erotico quale riflesso di beatitudine divina" scrive Danielou. "Secondo le profezie shivaite, l'unica speranza di sopravvivenza dell'umanità risiede nell'attuale sforzo per liberare la sessualità. Soltanto la venerazione del principio vitale e del suo simbolo, il fallo, potrebbe attirare la benedizione divina sugli uomini, minacciati dai fulmini celesti a causa di una civiltà la cui morale non persegue la felicità, la gioia e il piacere bensì le guerre, la repressione sessuale, l'ipocrisia, la persecuzione dell'amore". Molti templi shivaiti furono distrutti dai musulmani, ma quelli in siti abbandonati o protetti dalle foreste sono in parte sopravvissuti: i più importanti sono Bhuvaneshvar e Konarak nell'Orissa e Khajuraho nell'india centrale. Sono ricoperti di sculture che raffigurano atti erotici, dai più semplici (come baci e mani che scivolano sotto i vestiti) ai più complessi. E coinvolgono uomini, donne, bambini, animali. Il principio, ricorda Danielou, è che la sessualità non va evitata, bensì rispettata e onorata sino ai giorno in cui non ne avremo più bisogno, e potremo quindi trascenderla. Info : www.cini.ii/fondazione/05.fondi/fondi/ danielou.htmi.

Da "D-la repubblica delle donne" del 14/03/2000.

«No alla guerra per un Dio invisibile»

http://ilmessaggero.caltanet.it/hermes/20021124/01_NAZIONALE/ESTERI/INTER.htm

«No alla guerra per un Dio invisibile»
Soyinka: la nostra cultura africana Yoruba insegna il rispetto reciproco
di PIETRO M. TRIVELLI

ROMA - Ci sono «fanciulle modeste di sguardo, bellissime d’occhi, dal seno ricolmo», nel Paradiso contemplato dal Corano (nella classica traduzione di Bausani), fra le delizie dei «Giardini alla cui ombra scorrono i fiumi». Ma neanche quelle, un po’ discinte, gradirebbero gli integralisti.
Meno male che la cultura africana, dall’Egitto in giù, ha ben altre radici. Più dei debiti dei paesi poveri, c’è chi sostiene che bisogna prima cancellare il debito culturale dell’Occidente verso le civiltà afro-asiatiche. Persino Minerva, anziché greco-latina, sarebbe di origine africana. Lo sostiene Jean-Pierre Vernant, del Collège de France, e la sua teoria è condivisa da Martin Bernal, antropologo a Cambridge, autore di un saggio intitolato Atena nera.
Che ne pensa Wole Soyinka, l’intellettuale nero più famoso, che nella sua Nigeria insanguinata ha lasciato il cuore?
«Alcune delle più grandi conquiste umane avvennero in un tempo in cui non solo non esistevano il cristianesimo e l’islamismo, ma non si conoscevano neanche i fondamenti del pensiero “occidentale"», risponde il nigeriano Soyinka, 68 anni, Nobel per la letteratura nel 1986, premiato quest’anno con medaglia d’oro del presidente della Repubblica alle giornate del Centro Pio Manzù (nell’annuale meeting con il meglio della cultura scientifica mondiale, “convocata" da Gerardo Filiberto Dasi, esperto di relazioni internazionali). Autore di La ferita aperta di un continente, incarcerato ed esiliato, Soyinka è fuggito dalla Nigeria nel 1994, a piedi, inseguito dai militari del dittatore Sani Abacha.
Che cosa rimpiange delle sue radici culturali, oggi oltraggiate dal fanatismo più cieco?
«I nostri antichi principii, che ritengo ancora validi. Pur se la migliore civiltà africana, portatrice di un’eredità di spiritualità, viene tanto disprezzata (e non solo nel mio paese). Credo che il mondo, dominato da più di duemila anni da religioni "ufficiali", abbia ancora bisogno di un sistema di credenze spirituali - troppo semplicemente liquidate come animistiche - per armonizzare l’umanità anziché dividerla. Seguendo aneliti che furono già portati in America dagli schiavi negri. Il problema più importante del XXI secolo è proprio quello delle religioni, come dimostrano le tragedie dei nostri giorni».
Che cosa può offrire, oggi, la cultura africana?
«Scoperte e sperimentazioni del “mondo nero" sono certo superate dalla ricerca tecnologica occidentale. Eppure, la tradizione africana può dare ancora il suo contributo nel campo dell’etica, della filosofia e delle scienze naturali. Quella che oggi è una moda in Occidente, per esempio, l’erboristeria, in Africa è tuttora una scienza forte. La nostra cultura Yoruba - dal nome di una popolazione originaria di Yerba - non è altro che studio di fenomeni naturali esteso a quelli sociali».
Quale contributo etico-filosofico?
«Quello principale è di non dimenticare che l’esistenza umana è un continuo e costante processo di ricerca della verità ultima. Ma neanche gli dèi posseggono una verità assoluta. Per questo, a differenza di altre religioni, cristiana o islamica, la nostra cultura Yoruba non prevede che si facciano guerre in nome di un dio invisibile, insegnando piuttosto i valori del rispetto reciproco».
La sua poetica "civile" rispecchia questi valori?
«Non scrivo solo poesie “impegnate". M’ispiro ancora alla mitologia, oltre che a stati d’animo e umori suscitati dalle relazioni umane. Ma, a differenza di altre forme di espressione, la poesia ha un effetto ritardato. Più lento. Come un seme, che dà fiori e frutti solo più tardi».
Sempre più necessari, fiori e frutti di saggezza. Non solo nella Nigeria di Soyinka, imbestialita contro la bellezza.

Lubicz, i templi da leggere con il cuore

dal "corriere della sera" 20 dicembre 2001
Lubicz, i templi da leggere con il cuore

Dodici anni di ricerche sul Nilo, per comprendere il linguaggio dei simboli In un' iscrizione della regina Hatscepsut il significato sacro dei misteriosi edifici
Medail Cesare

EGITTO Tradotta in italiano, dopo mezzo secolo, la colossale opera su Karnak del filosofo e alchimista alsaziano Lubicz, i templi da leggere con il cuore Dodici anni di ricerche sul Nilo, per comprendere il linguaggio dei simboli «O Egitto, Egitto, d ei tuoi culti non resteranno che favole e quelle stesse sembreranno incredibili ai tuoi posteri, e sole sopravviveranno le parole incise su pietra a narrare i tuoi atti di pietà». Così recita il Corpus Hermeticum, l' enigmatico testo attribuito nel R inascimento a Ermete Trismegisto, mitica fonte della conoscenza sacra degli antichi. La profezia si è avverata. Statue, dipinti, geroglifici generano spaesamento per l' assoluta alterità rispetto alla cultura di oggi; ma i più ne banalizzano il senso , fermandosi alle forme esteriori, alle traduzioni letterali, a ipotesi d' ingegneria. C' è stato chi, tuttavia, ha voluto misurarsi con quelle pietre, per cogliere il senso profondo delle «favole» che vi erano incise. René Schwaller de Lubicz (1887- 1961), pensatore alsaziano di ispirazione neoplatonica, profondo conoscitore di religioni e alchimia, trascorse dodici anni (1939-1951) a studiare i templi di Luxor e Karnak, coadiuvato dalla moglie Jeanne (nome mistico Isha, mentre quello di René er a Aor) e da un gruppo di archeologi. Il lavoro del filosofo - che si era formato nei circoli teosofici e alchemici francesi a cavallo della Grande Guerra - è facilmente attaccabile da una critica razionalista, come si rende conto chi ha letto Il Temp io dell' Uomo (Ed. Mediterranee, 2000), monumentale elaborazione delle sue ricerche. Usando criteri scientifici, calcoli matematici, rilievi geometrici nel sezionare sale, colonnati, ogni pietra dei templi, Lubicz ricavò teorie che di scientifico han no poco, ma aprirebbero le porte della percezione, le porte giuste perché fluisca in noi quel rutilante, incomprensibile universo, suscitando emozioni irreperibili in un trattato specialistico. Una citazione dalla seconda imponente opera di Lubicz (I templi di Karnak), che completa la prima ed esce ora dalle Mediterranee, racchiude alcune chiavi per comprendere Aor. È il racconto della costruzione dei suoi obelischi fatto incidere su di essi da Hatscepsut, l' unico faraone donna, vissuta nel Nuo vo Regno (1539- 1293): «Ho fatto questo con cuore innamorato per il padre Amon, essendo penetrata nel suo mistero per la prima volta... E' lui che mi ha dato il canone di proporzione. Io non mi sono sbagliata per ciò che mi aveva ordinato, perché il mio cuore era di fronte a mio padre... Ed ero penetrata dalle cose del suo cuore». Il racconto è privo di dettagli pratici: è la pura rappresentazione di un rapporto con il sacro, a conferma della tesi di Lubicz che i templi erano un compendio della conoscenza religiosa egizia. Erano progetti metafisici concepiti da architetti-sacerdoti e intesi a mettere l' uomo in connessione con l' invisibile, con Amon, unico dio creatore, e con il panteon dei Netér, gli dèi che ne sono le funzioni. La relazi one esplicita tra umano e divino risalta nel particolare del «tendere la corda» per definire l' orientamento dell' edificio. Recita un' iscrizione di Karnak: «Ho teso la corda sulla posizione dei muri: mentre la mia bocca recitava i grandi incantamen ti, Thot era là con i suoi libri»; un rito cerimoniale, dunque, prima che tecnico. Il reiterato riferimento al «cuore» da parte di Hatscepsut, inoltre, conduce al centro del pensiero di Lubicz: per evocare ciò che non si può definire (dal concetto di Assoluto al punto geometrico, fino al «momento presente tra passato e futuro, cerebralmente inafferrabile ma intuitivamente certo») ogni parola sarebbe ingannevole; soltanto i simboli possono tradurre il senso dell' inesprimibile e per coglierli occ orre l' intuizione, che Lubicz chiama «intelligenza del cuore», oggi perduta ma viva tra gli egizi. I due volumi su Karnak sono un monumento proprio all' «intelligenza del cuore». Se nel Tempio dell' Uomo, Aor espone le sue idee circa i monumenti rel igiosi come libri di pietra che esprimono l' indicibile tramite i simboli, in Karnak propone un pellegrinaggio fra statue, bassorilievi, pitture e geroglifici: nel secondo tomo, i templi rivivono in 450 fotografie, mentre il primo, dopo alcuni brevi saggi introduttivi, contiene le interpretazioni di ciascuna immagine. Come scrive nell' introduzione Paolo Lucarelli, appassionato curatore di questi libri, Lubicz si offre come «guida eccezionale nel tragitto templare da compiere in meditazione». In somma, se la prima era opera di conoscenza, la seconda è opera esperienziale. Lubicz lascia che i simboli parlino all' «intelligenza nel cuore» di ciascuno, dissepolta dalla forza evocatrice di pietre disposte in modo da mettere l' uomo a contatto de ll' invisibile. Cesare Medail Il libro: «I templi di Karnak», Edizioni Mediterranee, due volumi, pp. 240+460, lire 340.000, euro 175,60

Quando regnava la Madre Eterna

Corriere della sera, giovedi , 08 agosto 1996

LIBRI Ristampato lo studio che Pestalozza pubblico nel 1954, dedicato alle antiche civilta matriarcali mediterranee
Quando regnava la Madre Eterna
di ELEMIRE ZOLLA


Negli anni '30 e in due o tre decenni successivi vissero in Italia alcuni maestri di storia delle religioni; con il Pettazzoni, che aveva dato l'avvio alla materia, Macchioro e Pestalozza. Se ne coglie l'influsso al Convegno di storia delle religioni del dopoguerra a Roma, che verteva sulla regalità sacra. Quel gruppo di maestri era sorto a stretto contatto delle maggiori scuole europee ed era rimasto esente dai soprusi di un'ideologia, a differenza dei loro allievi, sommersi nel fango politico. Ciò che li distanzia da noi è il metodo, che ebbero in comune con la scuola di Vienna, sopratutto lo stile togato, pesantemente aulico, che ci fa sorridere. Oggi Neri Pozza ripresenta di Pestalozza l'opera che pubblicò nel 1954: L'eterno femmineo me diterraneo. La forma è dannunziana e pedante nello stesso tempo, ma vale la pena di affrontarne il fastidio. Pestalozza ci conduce al di là della storia mediterranea a noi nota, entro quello strato che si può soltanto ricostruire e intuire, precedent e alla documentazione, a suo parere un matriarcato. Bachofen aveva fatto scuola. Oggi le ricerche archeologiche dalla Gimbutas hanno fornito la prova dell'esistenza di una civiltà matriarcale precedente alle invasioni indoeuropee. Pestalozza se le im maginava dalle testimonianze sparse sopravvissute in periodi di sempre più aspra patriarcalità. Egli evoca il periodo matriarcale dominato dalla suprema Signora (pòtnia in greco) o dèa bianca (Leukothéa in greco). Era il cosmo come vagina, si manifes tava nelle caverne dei monti prossime alle acque sorgive (Pestalozza pare ignorare che anche Iside era dea della montagna), nei fiori, nei grembi delle fiere e delle donne e nel seno della terra scoperta e disseminata dall'aratore. Su questa potenza cosmica tutto era fondato, la si percepiva con intensità e stupore, esultanza e pena. Era il principio di ogni vita, quella d'un sasso come quella d'un bocciolo e soprattutto della danza d'una fanciulla attraente. L'ordine politico ne traeva s punto: la donna era venerata e temuta, teneva stretto il potere con la forza del fascino. Viveva abbandonata alla sua natura, protesa alle voci allucinatorie di dèi, di dèmoni, di morti, pronta al combattimento (ne testimonieranno le coorti di amazzo ni alle corti dei re africani). In questo ordinamento gli uomini non si sentono superiori alle bestie, alle piante, alle pietre, ai venti. In ogni realtà si mescolavano intimamente e certe fiere, piante e selci le adoravano. Ne testimoniano alcuni re litti preservati nelle civiltà successive: la quercia oracolare Dodona, attribuita a Zeus, era stata di Gaia, la Terra, e l'alloro di Apollo era stato in precedenza Artemide Daphnaia. Dice con enfasi Pestalozza: «E la dea delle millenarie foreste, de lle idai intatte, solenni, misteriose, taciturne verso i grandi cieli, di cui si ammantavano gli altipiani dell'Asia Minore e del Libano, i massicci montuosi di Creta e dell'Arcadia, con le gole impervie, con gli altri profondi, con la copia scroscia nte delle acque, con la densa fauna selvatica che di lei sperimenta volta a volta l'impeto crudele e la carezza materna». Infine la dea è donna, giumenta, serpe, delfina, colomba. Coincide con ogni albero o giardino, dei quali è lei a proporre i fa rmaci, largendo alle sue cultrici la potenza, commutandole in Circi. Ma appare soprattutto come ape regina o sacra prostituta e come tale sopravvisse a Erice in Sicilia, a Corinto in Grecia oltre che a Cipro, in Palestina, e perfino nell'India preari a. Dal contatto con le prostitute sacre si traeva l'essenza della dea. Ma essa è anche una vergine, in lei c'è tanto la madre che la libera figliola. Accogliendo l'amante essa formava l'Androgino, figura dovunque presente. I popoli mediterranei, per attingere questa esperienza sublime, non rifuggivano dall'incesto. Era il giovinetto suo figlio che diventava l'amante ideale della dea e, se lui moriva, lei ne pativa lo strazio come una donna privata del suo massimo tesoro. Zeus cretese fu un giova ne di tal genere, identico all'Adone siriaco. Si celebrava la dea con un rito particolare: lanciando verso l'alto, seduta sull'altalena appesa ad un albero sacro, la sacerdotessa, esaltandola. Il mito di Iside e Osiride trasporrà il congiungimento e la morte nei secoli storici, anche se Osiride è fratello e non figlio. Il congiungimento può anche finire in una castrazione, come nel caso di Kybele e Attis, donde i sacerdozi di Eunuchi. Di questo universo travolto dalle invasioni indoeuropee rimas e in Grecia la processione delle thesmophòriai, le donne che recano il thesmos o diritto sacro, ciò che i Latini chiameranno fas, distinto dal diritto civile o ius. UBERTO PESTALOZZA L'eterno femmineo mediterraneo Editore Neri Pozza Pagine 20 0, lire 28.000

Quando gli dei prendono le armi

da "la repubblica" - 6 novembre 2001
Quando gli dei prendono le armi

UMBERTO GALIMBERTI

Quando una guerra viene caricata di sacralità espande senza misura il suo potenziale distruttivo, perché il conflitto finisce col coinvolgere non solo gli «interessi» dei belligeranti, ma la loro «identità», la loro cultura, la loro fede, in una parola quelle figure irrinunciabili che, quando sono messe in gioco, non prevedono altra alternativa se non l'annientamento dell'avversario o la propria morte.
In questi casi l'umanità retrocede dall'uso della ragione (che può fare il suo lavoro, diplomatico o anche militare, finché il conflitto resta circoscritto al contrasto degli interessi) allo scatenamento dei simboli, di fronte ai quali la ragione è impotente, perché il suo operare prende avvio solo dopo che si è usciti dall'area del sacro, e si è stati in grado di mettere tra parentesi la differenza delle rispettive visioni del mondo o, se si preferisce, dei rispettivi sfondi simbolici, in cui si radicano tutte quelle dimensioni prerazionali che costituiscono lo zoccolo duro dell'identità di un individuo, di un popolo, di una cultura, di una razza, di una fede.

Da sempre e ovunque gli uomini hanno trascinato nei loro conflitti Dio e gli dèi perché, identificandosi con le potenze ritenute superiori, gli uomini avevano l'impressione di aumentare la loro potenza e di legittimare la loro violenza. Combattere infatti per un interesse terreno che divide non scatena mai tanta forza e tanta violenza quanta ne sprigiona la lotta per la propria identità di popolo che il dio suggella e con la sua protezione garantisce.
Nelle religioni politeiste, dove gli dèi sono molti e quindi, proprio per questo, sono limitati nella loro potenza, ricorrere agli dèi significa solo proiettare nel cielo il conflitto tra gli uomini. Ma la divisione degli dèi, come ci racconta Omero nell'Iliade, non consente a nessuno dei belligeranti intorno alle mura di Troia di godere del favore dell'«onnipotenza di Dio». Di questo favore ritengono invece di godere quanti credono in un solo Dio e perciò nella guerra portano fino alle estreme conseguenze il principio dell'intolleranza che è il tratto tipico di ogni religione monoteista.
Se infatti c'è un unico Dio e io sono figlio di Dio, se il mio popolo è eletto, perché la sua fede è l'unica che indica la via della verità e della salvezza, chi sono mai gli altri? Gente da convertire o da combattere. Non ci sono alternative quando in gioco è l'unica via alla verità e alla salvezza. La tolleranza di alcune religioni monoteiste, come ad esempio quella cristiana, è una tolleranza «di fatto» non «di principio», perché chi crede nell'unico dio non può ritenere la propria condizione di fede equivalente alla condizione di chi non la condivide, perché in questo caso dovrebbe ad un tempo credere e non credere.
Per questo le guerre, dove i contendenti si sentono assistiti dall'unico dio onnipotente sono tutte «guerre sante» sono tutte «jihad», mentre non si può dire la stessa cosa ad esempio per la guerra di Troia o per le guerre a cui l'Impero Romano affidava la sua espansione perché, a differenza del monoteismo, il politeismo assicurava ospitalità nell'Olimpo anche agli dèi dei popoli sconfitti, garantendo così la valenza simbolica che è alla base di ogni identità culturale. Le guerre grecoromane, pur prevedendo l'attiva partecipazione degli dèi, erano in fondo guerre che oggi potremmo definire «laiche», perché in primo piano e in bella vista c'erano gli «interessi», non la «fede» .
Dopo 1500 anni di guerre sante combattute in Occidente contro i «barbari», gli arabi e gli indiani d'America, nel 1700, con l'Illuminismo e la rivoluzione francese, si torna a desacralizzare la guerra, non attraverso il politeismo come nel mondo antico, ma attraverso una progressiva laicizzazione del mondo, che comporta quel benefico assentarsi di Dio dalle vicende umane, che a questo punto possono essere affrontate e risolte con gli strumenti che gli uomini hanno a disposizione: la ragione e la forza, che fanno piazza pulita di quel minaccioso potenziale simbolico a sfondo religioso che ottunde la ragione e acceca la forza.
Guerre desacralizzate, guerre «laiche» potremmo dire per intenderci, sono stati i conflitti che in Occidente hanno caratterizzato i secoli XIX e XX, con una sola variante simbolicosacrale che ha fatto la sua comparsa nella seconda guerra mondiale con l'ideologia della superiorità razziale e con il conseguente sterminio degli ebrei. Qui il sacro, con il corredo dei suoi simboli devastanti, ha fatto la sua riapparizione e, a tragedia consumata, l'Occidente si è fatto carico della memoria, non per esorcizzare un'altra possibile guerra, ma quel tipo di guerra dove gli «interessi», che scatenano gli eserciti quando la politica fallisce, sono stati nascosti e occultati dalla potenza nefasta dei simboli. Oggi questa memoria sembra abbia ceduto. E il conflitto, non più arginato dalla logica «ragionevole» degli interessi, si è rivestito di simboli. Tali sono: l'Occidente contro il mondo arabo, il Corano contro la Bibbia, il dio cristiano contro il dio di Maometto, per non parlare di quelle espressioni e di quelle metafore tratte dal più arcaico linguaggio religioso da cui non rifuggono neanche i media nei loro servizi e taluni politici nei loro discorsi. Che altro significato ha questo richiamo a Dio, che così di frequente ricorre nei discorsi di Bush e nei messaggi di Bin Laden, se non quello di eccitare gli animi dei rispettivi popoli col fuoco pericolosissimo che la sacralità scatena, quando con la sua simbolica evoca «identità», «appartenenze», «radici culturali», «fedi»? Di questo sovrappiù simbolico non potremmo farne a meno? Non potremmo ricondurre il conflitto a quel contrasto d'interessi che pure esiste tra queste due aree che siamo soliti chiamare mondo occidentale e mondo islamico, e che hanno per nome: mercato del petrolio, controllo delle aree d'influenza, distribuzione della ricchezza, tutti temi umanamente trattabili con la politica e al limite anche con la guerra, senza far scendere in terra, anzi nel conflitto, Iddio, perché quando Dio scende in terra è subito apocalisse.
Già Platone, in quel dialogo che ha per titolo Il Politico, parla del «Grande capovolgimento (megiste metabole) che avvenne quando Dio abbandonò il timone del mondo e gli uomini dovettero darsi da fare con le tecniche e soprattutto con quella tecnica regia (basilike techne) che tutte le coordina e che ha per nome politica, per poter giungere al governo di sé». La lezione di Platone con mille difficoltà è stata almeno in parte assimilata dall'Occidente che ha desacralizzato gli interessi umani e i conflitti che essi inevitabilmente generano, chiamandoli con il loro nome.
Continuiamo a chiamare con il loro nome questi interessi e non confondiamoli con il nome di Dio, innanzitutto per non mettere Dio in contraddizione con se stesso, dal momento che sia gli islamici sia i cristiani si rifanno allo stesso Dio, che è poi il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e in secondo luogo perché una guerra desacralizzata e quindi limitata ai veri interessi, sia pure contrastanti, dei contendenti, ha più possibilità di comporsi e di concludersi di quanto non ne abbia una guerra santa, dove in gioco sono identità di popoli, appartenenze, culture, razze, fedi.

WALTER FRIEDRICH OTTO

http://www.abcschio.it/imago/trasversale/mito/otto.htm

WALTER FRIEDRICH OTTO

Walter F. Otto nasce nel 1874 e muore nel 1958.E'un insigne filologo classico e storico delle religioni.Docente nelle Università di Konigsberg e di Tubinga,divenne molto noto in Germania negli anni 20 e 30 grazie ai suoi studi su "Gli dei della Grecia"e su"Dioniso".Amico di Martin Heidegger,al quale fu legato dalla comune passione per Holderlin e maestrodi kenényi,dopo la seconda guerra mondiale approfondì la sua riflessione sull'essenza del mito in numerose conferenze e interventi pubblici.Esso è quindi uno storico della religione e contro il positivismo rivaluta il valore religioso della mitologia antica e la struttura organica della religione greca.
(Nel 1929 compone"Gli dei della Grecia").



W.F.Otto conduce una ricerca sul significato originario del mito e l'ambito di questa indagine e' il rapporto tra l'uomo e il mito stesso;Il filosofo rifiuta di considerare il mito ricorrendo a categorie apparentemente moderne e concretizza questo rifiuto contro le posizioni "neo-illuministe"alla Cassirer o di Lévy-Bruhl:respinge la pretesa evoluzionistica secondo la quale esistono due tipi di logica.Quella primitiva e perciò non ancora in grado di "organizzare"correttamente il mondo,ma solo di offrirne una visione mitica,e quella razionale che rifiuta la soggettività e i miti come espressione di una presunta interiorità e con finalità specifiche.Ne"Il mito e la parola" Otto sostiene che le epoche che ritennero "poesia"il mito genuino non gli hanno reso ragione,ma almeno hanno posseduto una sensibilità piu' viva dei moderni teorici che hanno creduto di conprendere il fenomeno correttamente facendolo rientrare fra le categorie della logica inventandosi una logica primitiva.L'interpretazione del mito come poesia è più esatta perchè la poesia può metterci sulla strada giusta,ma va respinta l'opinione che il mito sia una mentalità.Nella grande poesia è come se il poeta,nell'attimo dell'ispirazione,fosse più vicino degli altri uomini all'essere delle altre cose:quindi la sua parola può afferrare in profondità.E' come se non fosse egli a pronunciare quella parola,ma l'essere stesso delle cose.In particolare gli antichi Greci consideravano la ben nota invocazione alle Muse molto seriamente:l'uomo è solo un mediatore,è la divinità a cantare.Il canto era per i Greci una creazione della forza,divina stessa.
"Mito" per Otto é la parola vera proveniente da un'autorità,non suscettibile di essere messa in discussione.L'autorità che si manifesta è il divino del quale il mito è2forma" del suo manifestarsi.Per Otto il mito non è dell'uomo ma degli dei e il divino è una presenza,non il contenuto di una interiorità umana.Otto infatti é legato al mito greco,tanto da definirsi"politeista"e critica il cristianesimo.
Nel 1962 furono pubblicati due volumi di scritti di Otto e fu deciso di raccogliere in un volume gli scritti"scientifici"(riguardavano in senso stretto la storia delle religioni e la filologia) e nel secondo quelli "non scientifici"
(volontà di Otto di fondare una filosofia generale del mito).Il"mito e la parola"(1952-53)é il saggio conclusivo del primo volume in cui Otto rivolge il pensiero all'ESSENZA del mito prima di poter compiere qualsiasi "indagine scientifica".Otto si chiede cosa il mito in effetti sia.Le attuali ricerche danno a "mitico" un significato di antiquato,sorpassato,inattuale e quindi superato e contraddetto dalla scienza moderna.Vengono cosi' chiamate "mitiche" esperienze che hanno dimostrato di essere erronee(ad es.il sole che ruota attorno alla terra).Il mito sarebbe dunque un modo per esprimere ciò che non è degno di fede e che noi dovremmo smascherare ed eliminare).
Le interpretazioni moderne del problema mito sono affette dal medesimo pregiudizio:il mito sarebbe una "mentalità" superabile e sostituibile da una piu' adeguata,oppure dovrebbe vedere riconosciuti i propri diritti,anche se possiede svantaggi rispetto alla nostra mentalità.La concezione più diffusa vede la mentalità dell'umanità preistorica alla ricerca della verità,opposta a noi che godiamo di una mentalità più adeguata rispetto alla quale la verità mitica é un errore.Ritenere il mito una "mentalità" dimostra solo quanto ci siamo allontanati dal mito.
MITOS E LOGOS
Sono parole greche.Nella lingua greca più tarda "mito" significa una narrazione meravigliosa,che può essere molto profonda,ma non può pretendere di essere considerata vera alla lettera(ad esempio le "favole"di Esopo fanno molto riflettere ma non sono vere).Originariamente però "mitos"significa"parola".Anche"logos"significa "parola",ma in un'accezione diversa:"mitos"sviluppa il significato di favoloso,inventato,non vero,mentre "logos"
designa la chiarezza e la profondità della conoscenza.
In Omero"logos"assume un concetto di "scelta",quindi "ponderare,aver riguardo.In seguito serve a indicare ciò che é razionale,sensato,,consequenziale."Mitos"invece ha un significato oggettivo:è il reale,l'effettivo,è la "storia" nel senso dell'accaduto,la parola che dà notizie oggettive.Dunque il greco antico ha a disposizione una serie di denominazioni per "parola":
-EPOS=VOX:é la "parola"come sonorità vocale.
-LOGOS="parola"nel senso di ciò che è pensato,ragionevole.
-MITOS="parola come testimonianza di ciò che fu,è e sarà.E' la parola nel senso di ciò che è dato come un fatto,si è rivelato,è consacrato.
Il mito vero e proprio è l'esperienza originaria rivelatasi,grazie alla quale è possibile anche il pensare razionale.Per questo il mito non è svanito completamente neppure in noi,resta inconscio,non emerge rivelandosi e lo abbiamo respinto nell'inconscio con il pensiero razionale.Perchè l'uomo della civilizzazione,nel corso del suo sviluppo,perde sempre più il mito?La dottrina universale sostiene cheil motivo vada ricercato in un progresso spirituale che da inesperienza,mancanza di chiarezza iniziale,conduce infine ad un sapere certo,alla chiarezza.Ma il mito non è divenuto estraneo all'uomo perchè questi,per qualche motivo oscuro,ha cominciato a pensare e osservare più acutamente,sviluppando sempte più le proprie capacità di pensiero e di osservazione.
iò è accaduto perchè l'uomo non incontra più l'essere delle cose,la realtà nel vero senso della parola,quella che si annuncia solo nella natura originaria.'intera civilizzazione è un rifiuto della natura originaria.L'uomo in tutto ciò di cui fa esperienza e che compie vuole ancora e sempre incontrare se stesso,la propria razionalità, inventività(vedi tecnica,scienza...)E' dunque insensato voler in qualche modo avvicinare il mito al nostro modo di pensare e vivere,ogni moderno tentativo di "interpretarlo"è un equivoco.
RAPPORTO FRA MITO E CULTO
Ovunque il culto fa riferimento ad un mito,gli è inseparabilmente connesso.Il culto è specifico comportamentop fisico e spirituale con cui l'uomo risponde immediatamente al mito e va dal semplice congiungere le mani alla rappresentazione drammatica dell'evento originario.La verità del mito si rivela attraverso 3 livelli:
PRIMO LIVELLO:si imprime plasticamente nell'uomo stesso,nella sua corporeità(levare le mani al cielo mentre si è rivolti verso l'alto,inginocchiarsi,intrecciare e congiungere devotamente le mani)Anche nelle danze l'uomo rivela la forma del divino essere universale.
SECONDO LIVELLO:il mito diventa creativo grazie all'agire dell'uomo che erige una colonna,un tempio rite nuti sacri perchè la presenza del divino è divenuta forma in essi.
TERZO LIVELLO:il mito si fa parola,ma non attraverso il linguaggio perchè le parole non sarebbero altro che un velo,una falsificazione. Il linguaggio è esso stesso la verità del mito,è il mito("mitos":il vero in forma di parola). L'essere si autorivela attraverso i suoni,la musica ad esempio con le preghiere,gli inni,le narrazioni etc.
Il mito non può esistere senza il culto ed è dinamico,deve cioè rivelarsi nel comportamento,nell'azione e nella parola.Come avviene che la verità del mito si riveli nella forma del comportamento dell'azione e della parola?
La"rivelazione"è un'apertura che proviene dall'alto,che va dal sovraumano all'umano e che l'uomo deve accettare dall'autorità che la impartisce.Il mito non è il prodotto di una riflessione perchè la verità che esso contiene non è resa accessibile da un ragionamento,la verità può rivelarsi soltanto da sè.
I Greci infatti erano convinti che l'uomo,nel suo canto e nel suo dire,non è in realtà l'attore, ma é una divinità,la musa,a cantare,mentre egli si limita a ripeterne il canto.Le muse sono quel miracolo divino per cui l'essere pronuncia se stesso.La musica è il suono,l'armonia,il ritmo che soltanto la perfezione delle muse ha prodotto nel mondo.

Il mito dei greci sbarca in Laguna

L'Unità, Giovedì 21 Marzo 1996

Il mito dei greci sbarca in Laguna

VALERIO MAGRELLI
L MONDO ANTICO, ha scritto Peter Brown, può essere paragonato a un lungo e caldo pomeriggio estivo, la cui frusciante brezza fu interrotta per sempre dalla "terribile bellezza" di una nuova fede. Difficile rendere in maniera più vivida il passaggio del paganesimo al cristianesimo. La facilità e la felicità di tale immagine non devono, tuttavia, trarre in inganno: infatti, secondo Brown, non si sottolinerà mai abbastanza quanto arduo sia tentare oggi di rappresentarci quell'universo classico irreversibilmente cancellato.
Le considerazioni dello storico si trovano in una recensione dedicata allo studio di Robin Lane Fox Pagani e cristiani, che uscì qualche tempo fa presso Laterza. La loro portata, però, può dirsi assai più vasta, come si vede dal fervido finale. Qui l'autore si affida a un'ulteriore similitudine. È come se, propone, la nostra cultura avesse perso l'emulsione chimica sensibile alla luce emessa dall'universo classico, con il suo particolare fulgore: "I nostri testi cristiani equivalgono alle forti macchie di luce che, in una fotografia dello spazio profondo, rappresentano le violente emissioni azzurre delle stelle nane, le quali eclissano la luce rossa e opaca della pur potente Orione".
Potremmo forse partire da questo passo, da questa specie di alterazione visiva e insieme da quello struggente paesaggio scomparso, per domandarci chi furono i Greci, e soprattutto per chiederci che cosa potremmo mai sperare di afferrare di un cultura tanto familiare e al contempo estranea. La prima risposta, certo un po' perentoria ma efficace, proviene da un saggio di Paul Valéry recentemente tradotto dal Mulino nel volume La crisi del pensiero. I Greci, afferma lo scrittore francese con formula brillante, sono gli argonauti del pensiero. Ai suoi occhi, il loro massimo merito consiste nell'aver condotto in porto un'impresa "insensata" per definizione come la fondazione della geometria.
Laddove Egizi, Cinesi, Caldei e Indiani erano falliti, essi riuscirono, conquistando un tesoro mille volte più prezioso e poetico del Vello d'Oro. Nulla poté turbare questi piloti nel loro periglioso viaggio matematico, né la fragilità delle premesse che li sostenevano, né la sottigliezza o l'infinità di interferenze che esploravano. Armonizzando operazioni motrici e visuali singolarmente complesse, e regolandole su determinate proprietà linguistiche e grammaticali, essi giunsero a realizzare la conciliazione, così delicata e improbabile, fra linguaggio comune e ragionamento esatto. In breve, conclude Valéry, i Greci lasciarono che la parola li conducesse nello spazio, come fossero dei ciechi chiaroveggenti: "E questo spazio diventava, secolo dopo secolo, una creazione sempre più sorprendente, a mano a mano che il pensiero aveva sempre più controllo su se stesso, e acquisiva sempre più fiducia nella meravigliosa ragione e nella sottigliezza iniziale che l'avevano dotato di strumenti incomparabili".
Per l'autore della Giovane Parca, come per molti altri, la cultura greca rappresenta insomma il trionfo dell'intelletto, ossia la massima celebrazione del pensiero puro. Valéry non ignorava certo la lezione di Nietzsche, e conosceva bene la tensione tra apollineo e dionisiaco che attraversava quel mondo. Eppure, volle indicare appunto nella sua luce gnoseologica (qui intesa in forma strettamente matematica) il trionfo sulle tenebre primordiali. Qualcosa di analogo ha sostenuto un filologo come Bruno Snell, commentando la nascita della scienza moderna presso i Greci con l'affermazione: "Gli dèi olimpici ci hanno reso europei". Ma oltre ad essere il popolo dei numeri, questo fu anche il popolo delle storie e della Storia. Accanto a Pitagora stanno cioè Omero da un lato, Tucidide dall'altro, l'uno padrone del racconto mitico, l'altro signore del resoconto documentario.
Davanti a una simile biforcazione del sapere, che può essere legittimamente considerata come un lascito di questa civiltà, non è forse azzardato parlare di una vera e propria "invenzione del passato", in quanto frutto di una tecnologia del tempo e insieme della parola. Eppure, ancora una volta, ecco stagliarsi accanto alla luce la presenza del buio. Abbiamo appena parlato del passato (o meglio della sua riorganizzazione nella forma di narrazione mitica o ricostruzione storiografica), che già ci viene incontro l'ombra del futuro. Perché i Greci, oltre che contemplare il tempo trascorso, si sporsero temerariamente verso quello a venire. Appartengono a loro i grandi ciechi che chiudono gli occhi per guardare più in là del presente.
È noto come, per i presocratici, pensare e vedere costituissero due attività pressoché indiscernibili tra loro, come mostra ad esempio l'etimo della parola "mistica". Con il vocabolo "mystes" veniva designato l'adepto dei misteri, colui che stringe gli occhi per scrutare lontano. Secondo questa accezione, i termini di "mistica", "miopia" e "mistero" deriverebbero appunto da un'unica radice. Ebbene, Tiresia e Edipo ci rammentano che il progetto di un'invenzione del passato andò di pari passo con il tentativo di manipolazione del futuro. Mito e storia, cioè, non esclusero affatto una profonda fiducia nell'arte della divinazione.
Dall'apoteosi dello sguardo come principio fondatore della geometria, da cui siamo partiti con Valéry, eccoci giunti alla sua condanna, con il tragico tema dell'accecamento iniziatico. In apparenza il discorso si è rovesciato, ma in verità il suo svolgimento ci ha condotti ad una conclusione ben precisa. Alla fine di queste brevi osservazioni, i greci ci appaiono infatti come il popolo della polarizzazione e degli opposti, del Due, della dialettica e del dialogo. E che cos'altro sono la filosofia e la democrazia, inestimabili doni di Atene all'umanità, se non le forme più fragili e preziose di questa civiltà strutturalmente antagonistica? Né forse è un caso che Sparta, la città muta per definizione, oltre a lasciarci l'aggettivo "laconico", per indicare chi è privo di parola, abbia coniato il sostantivo "problema".
I Greci fanno problema, e la loro ricchezza sta appunto nell'apertura che quel problema continua a mantenere, intatta, anche dopo millenni. Per afferrarne la portata, non resta che sfogliare La montagna incantata di Thomas Mann, soffermandosi sul capitolo del sogno. L'eroe cammina in un paesaggio fatato, tra uomini e donne incantevoli per grazia e intelligenza. Un caldo sole riscalda la natura. "È delizioso", esclama. Ma di colpo il suo sorriso si gela nel guardare un tempio massiccio, grigio, minaccioso, nudo. Attraversandone le colonne, Hans Castorp penetra nel cuore dell'edificio: "Giunto in fondo vide davanti a sé, aperta, la ferrea porta, e le ginocchia quasi gli si piegarono per lo spavento. Due femmine grigie, mezze nude, dai capelli arruffati, coi seni pendenti, straziavano, fra recipienti di fiamma, il corpo di un bambino, lo squarciavano con le mani in un silenzio selvaggio (Castorp vide tenui fili biondi e sangue) e ne inghiottivano i pezzi, così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca, dalle cui labbra orrende gocciava sangue".
Questa è la Grecia: un orrore domato. Ecco perché, ammirando oggi le Eumenidi, dovremmo sempre ricordare le Furie che regnavano prima al posto loro.