Thursday, June 25, 2009

40mila anni fa l’uomo scoprì la melodia

La Repubblica 25.6.09
40mila anni fa l’uomo scoprì la melodia
Scoperto il flauto dell’uomo di Neanderthal
di Elena Dusi

Uno studio degli archeologi dell´università di Tubinga sui reperti trovati in una grotta nella Germania del Sud Lo strumento, il più antico finora disponibile, fu ricavato dall´osso di un´ala di grifone e era lungo 34 centimetri
Quando l´Europa fu colonizzata nel Paleolitico esisteva già una tradizione musicale

Quattro flauti, la statuina di una donna dalle forme generose, i resti di una cena sontuosa a base di carne. A Hohle Fels, nella Germania del sud, tra i 35 e i 40mila anni fa dev´essersi svolta una serata squisita. Una festa, o più probabilmente un rito legato alla fecondità. Ma sono stati soprattutto i flauti a impressionare gli archeologi dell´università di Tubinga, che la scorsa estate hanno scavato nella grotta 20 chilometri a ovest di Ulm ritrovando i resti di quella cena del paleolitico superiore.
Uno dei quattro flauti, ricavato dall´osso di un´ala di grifone, lungo 22 centimetri (ma prima di spezzarsi arrivava a 34) e con un diametro di 8 millimetri, capace di suonare 5 note (tanti sono i fori sul suo fusto) è lo strumento musicale più antico mai trovato finora. Un oggetto simile, scoperto nel 1995 sempre in Germania tra le montagne del Giura è infatti stato declassato a semplice osso intaccato dai denti di un animale selvatico. Il flauto di Hohle Fels invece è inconfondibile, con la sua imboccatura intagliata a "V" e le scanalature laddove le dita dovevano essere appoggiate.
«Il grifone, con un´apertura alare di due metri e mezzo, aveva ossa perfette» spiegano Nicholas Conard e Susanne Munzel, autori del ritrovamento. A poca distanza, per fugare ogni dubbio, sono stati trovati altri tre esemplari simili (ma ridotti in frammenti più piccoli) scavati nell´avorio delle zanne di mammuth con una procedura che presuppone una grande abilità manuale (bisognava sezionare la zanna in due, scavare un solco lungo le due metà e poi ricongiungerle) e fa presupporre l´esistenza di strumenti musicali ancora più antichi. A 70 centimetri dal flauto più grande nella grotta di Hohle Fels è riemersa anche una statuina di 35mila anni d´età, la più antica rappresentazione scultorea di un corpo femminile. Molti altri resti di flauto, datati intorno a 30mila anni fa, furono trovati in passato nei siti di Francia e Austria, ricavati dalle ossa delle ali di uccelli (fra cui i cigni) privati del midollo al loro interno.
La musica nel Paleolitico doveva essere un piacere diffuso, concludono gli archeologi che oggi raccontano la scoperta su Nature: «Esisteva già una tradizione musicale consolidata nel momento in cui i primi umani iniziavano a colonizzare l´Europa. E la scoperta è ancora più importante se pensiamo che a suono e canto non sono legati un aumento delle chance di sopravvivenza o della capacità riproduttiva. Almeno non in modo diretto».
Ma quali fossero i ritmi dei primi Homo sapiens, se al suono si accompagnasse una danza o particolari riti religiosi, rimane oggetto di speculazione. La mancanza di indizi non ha impedito l´anno scorso al jazzista britannico Simon Thorne di organizzare a Cardiff un concerto intitolato "La musica dei Neanderthal", una specie che ha convissuto per un periodo con i sapiens ma si è estinta intorno ai 30mila anni fa. Thorne si è basato sulla teoria che parte dalla forma delle vertebre del collo di questi primitivi per dedurre che la loro voce doveva essere acuta e ritmata, e i loro "discorsi" non troppo dissimili da una canzone rap.
Anche se la sua ricostruzione della musica della preistoria ha valore più che altro come curiosità, è chiaro che già 35-40mila anni fa in nostri antenati non si accontentavano di mangiare, dormire e riprodursi. I primi barlumi di arte e cultura si stavano affacciando all´orizzonte della specie umana (a quest´epoca risalgono anche i primi monili) e la musica, fra le varie arti, non era seconda a pittura e scultura.

Sunday, June 14, 2009

Scoperta in Germania la più antica (35 mila anni) figura di donna

Corriere della Sera 6.6.09
Scoperta in Germania la più antica (35 mila anni) figura di donna
La Venere degli antenati è una statuetta a luci rosse
Ha grandi forme. Prima l’arte preferiva l’animale
di Viviano Domenici

Una statuetta femminile d’avorio trovata dagli archeo­logi in una grotta della Ger­mania sud-occidentale s’è ag­giudicata in questi giorni un paio di primati assoluti: si tratta del più antico esempio di arte figurativa datato con certezza (circa 35.000 anni); è la prima donna della storia dell’arte a mostrarsi tutta nu­da. E infatti ha suscitato un certo scandalo. Le sue forme presentano caratteri sessuali molto accentuati e gli archeo­logi riconoscono che l’opera «è letteralmente carica di energia sessuale e le sue for­me focalizzano l’attenzione sulla sua sessualità esplicita, quasi aggressiva».

La stessa rivista Nature, che ha pubblicato l’annuncio della scoperta, ha azzardato l’espressione pin-up nella di­dascalia della foto del reper­to. Autori del ritrovamento sono gli archeologi dell’Uni­versità di Tubinga, diretti dal professor Nicholas Conard, che da anni scavano nella grotta di Hohle Fels, vicino a Ulm, località della Germania sud-occidentale, non lontano dalla frontiera francese.

La scultura è caratterizzata da seni così esagerati da sem­brare caricaturali, e da una vulva particolarmente volu­minosa e vistosamente esibi­ta. Le mani, incise con linee sottili, sono appoggiate sul ventre, mentre quasi tutta la superficie del corpo è solcata da linee geometriche che po­trebbero indicare una pittura corporale o un esteso tatuag­gio. Al posto della testa c’è una protuberanza forata attra­verso la quale doveva passare un laccio per appenderla, for­se come pendente di una col­lana.

La figura è stata ricompo­sta con sei frammenti ritrova­ti a circa venti metri dall’in­gresso della grotta, e a tre me­tri di profondità, all’interno di uno strato di terreno ricco di ceneri e carboni che indica il luogo di bivacco del grup­po di cacciatori paleolitici.

Alla piccola scultura man­cano parte della spalla e della gamba sinistra, che gli arche­ologi sperano di recuperare proseguendo le ricerche.

La Venere di Hohle Fels, che ben ventotto datazioni del radiocarbonio effettuate su campioni prelevati nello strato in cui era inglobata hanno datato nel periodo che va dai 31.000 ai 40.000 anni fa, precede di almeno 5000 anni le celebri statuette fem­minili conosciute come «Ve­neri paleolitiche» rinvenute dai Pirenei alla Russia.

Questa datazione e i cano­ni stilistici del reperto indica­no che fu realizzato da un cac­ciatore appartenente ai primi gruppi di Homo Sapiens che colonizzarono l’Europa, pro­venendo dall’Africa, quando nel nostro continente viveva ancora l’Uomo di Neandertal. Secondo lo scopritore, «questo oggetto cambia radi­calmente la nostra visione delle origini dell’arte paleoliti­ca che, finora, era incentrata su immagini di animali o di ibridi uomo-animale».

La scoperta di Hohle Fels ha anche un’altra valenza: raf­forza l’ipotesi che all’origine delle piccole Veneri preistori­che, oltre alle più sottili moti­vazioni simboliche collegabi­li all’idea della fecondità, vi si­ano inequivocabili pulsioni sessuali.

La tradizionale ritrosia de­gli archeologi a vedere in que­ste opere l’espressione dei più profondi istinti dell’uo­mo, è comunque destinata a capitolare, almeno di fronte ai reperti della grotta tedesca che, oltre alla Venere, a picco­li flauti fatti con ossa di uccel­li e un’elegante figuretta in avorio che rappresenta un uc­cello in volo, ha restituito an­che un pene di pietra di circa 19 centimetri.

L’oggetto è scolpito in ma­niera naturalistica e presenta una superficie perfettamente levigata e lucida che, secondo l’archeologo Nicholas Co­nard, fa ipotizzare uno specifi­co utilizzo in ambito sessua­le, forse correlato a rituali atti a stimolare la fecondità della natura.

Al posto della testa c'è una protuberanza forata: forse veniva usata come pendente di una collana In avorio di mammut

E’ stata scolpita in avorio di mammut, è alta solo 6 centimetri e presenta caratteri femminili molto sviluppati: il ritrovamento nella caverna di Hohle Fels. L’opera precede di almeno 5000 anni le celebri statuette di donna conosciute come le «Veneri paleolitiche», rinvenute dai Pirenei alla Russia

Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni

Corriere della Sera 13.6.09
ParmaPoesia Festival
Ci sono autori considerati lontani dalla nostra vita. Ma un verso del passato è un miracolo della fortuna
Il cuore delle parole
Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni
di Nicola Gardini

Nicola Gardini è nato a Petacciato (Campobasso) nel 1965. Si laurea a Milano in Lettere Classiche, nel 1990 si trasferisce a New York, dove consegue il Dottorato in Letteratura Comparata. Dal 2007 vive in Inghilterra e insegna Letteratura Italiana all’Università di Oxford.

Questo testo è un ampio stralcio della lectio magistralis che Nicola Gardini terrà martedì 23 giugno alle 16.30 nell’Aula dei Filosofi dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito di ParmaPoesia Festival.

Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle paro­le mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o sco­lastica e non sembrano di primo acchi­to dire niente di straordinario e ri­schiano di confondersi subito tra i di­scorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per se­coli prima di arrivare a noi e hanno af­frontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l’aspet­to originario. Ma l’importante è che si­ano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo sem­plicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggen­do Virgilio o Orazio, compiamo il ge­sto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo di­mentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di ricever­lo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreg­giare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro, conti­nua ad agire tra noi e nullificherà an­che molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simboli­camente resistenza a qualunque so­pruso.
I beni che provengono dal dare ospi­talità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dun­que, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contat­to con un mondo che non conosceva­mo. E la scoperta di una realtà diver­sa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce — diceva Lucrezio — non ha paura.
Gli antichi ci insegnano ad ascolta­re, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che han­no attraversato ci obbliga a fare silen­zio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Or­mai è raro che riusciamo a godere del­le cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò che la nostra ci­viltà tecnologica propone come nuo­vo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnolo­gica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbia­mo bisogno di novità ma alla fine, at­traverso i prodotti della cultura con­temporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sem­pre variato di soddisfare la nostra sem­pre uguale esigenza di intrattenimen­to. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire.
La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completa­mente donata. Non soddisfa un biso­gno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sa­peva l’esistenza. Allora, mentre leggia­mo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, per­ché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra men­te ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una pri­ma lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lin­gue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è eserci­zio etico; impegno a vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazio­ne sentimentale ed emotiva. Attraver­so la poesia l’individuo impara a defi­nire i suoi sentimenti e a comprender­li in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettivi­tà, che questa si esprima in un com­portamento o in una reazione psicolo­gica. Dalla poesia sono fissati o alme­no riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli ec­cessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tie­ne a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli indivi­dui sono continuamente tentati da im­magini di sé che non possono adattar­si alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fasci­no della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle paro­le. Gli antichi conoscono perfino la pa­rola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che com­muoveva le stesse pietre con la bellez­za del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di ri­portare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza del­la parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla lu­ce, per accertarsi che la moglie lo se­guisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissi­mo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infran­gere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squarta­to proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuo­le anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, co­me nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra men­te su chi siamo stati, pensiamo all’in­fanzia, a quel che non c’è più. Gli anti­chi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla no­stra: perché non si abbandona ai ricor­di personali, nemmeno quando espri­me il massimo della soggettività, co­me vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di glo­ria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attra­verso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ri­cordi, se da una parte può essere al­l’origine di molta della nostra indiffe­renza alla poesia antica, dall’altra do­vrebbe insegnarci a sviluppare qualco­sa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contem­poraneo dei suoi discendenti. Il suo la­voro letterario è tutto un modo di me­ritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventa­re degno, di essere un modello. Que­sto apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabili­tà di farsi padre. Solo così ritiene di po­tersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio.