Thursday, November 29, 2007

Monoteismi Jan Assmann, le origini dell'intolleranza

Corriere della Sera 29.11.07
Monoteismi Jan Assmann, le origini dell'intolleranza
Quando la religione diventa un'arma nelle mani del potere
di Mario Andrea Rigoni

Non c'è, in apparenza, fenomeno più mostruoso della violenza praticata in nome della religione, del terrore scatenato in nome di Dio. Eppure esso è piuttosto una norma che un'eccezione storica, tragicamente confermata dal nostro tempo, anche se con modalità — come quelle dello stragismo suicida di origine islamica — che la fantasia più sinistra difficilmente avrebbe potuto concepire. A un tentativo di critica della violenza religiosa, compito dei più urgenti, si dedica nel volume Non avrai altro Dio (Il Mulino) l'egittologo tedesco Jan Assmann, un originale e notevole studioso che aveva già trattato i termini del problema con Mosè l'egizio (Adelphi) e che ha inaugurato un tipo di indagine, la «semantica culturale », attenta al rilievo che i fatti assumono, piuttosto che nella storia, nella rappresentazione della memoria (La memoria culturale, Einaudi). In conformità con questa metodologia, Assmann si chiede perché i testi sacri del monoteismo ebraico-cristiano- islamico siano caratterizzati da un linguaggio della violenza che interrompe la tradizione di «reciproco riconoscimento e traducibilità» propria delle precedenti religioni politeistiche.
La risposta è semplice: il monoteismo, con la sua concezione di un Dio unico, instaura un concetto di verità esclusiva, collegato a una rivelazione che riduce le verità di tutte le altre religioni al rango di aberrazioni e di menzogne da perseguitare, cosicché agli «idolatri» e agli «infedeli » non viene offerta altra alternativa che la conversione o l'eliminazione.
Mentre nell'antichità egiziana, babilonese, indiana, greca e romana tutti gli dei rappresentano infine un unico Dio e risultano dunque reciprocamente compatibili e traducibili l'uno nell'altro, nelle nuove religioni monoteistiche (precedute dalla breve ma significativa esperienza di Akhenaton nell'Egitto della XVIII dinastia) nessun dio può essere ammesso all'infuori dell'unico vero Dio.
Assmann non sostiene, ovviamente, che l'antico mondo politeistico fosse il regno della pace e della tranquillità, ma solo che la violenza che vi aveva luogo era motivata da ragioni di potere e di sovranità, ossia da ragioni politiche, anziché da questioni di verità, ossia di adesione o meno a un'ortodossia divina. Tuttavia lo studioso ritiene che la violenza sia appannaggio della politica e non della religione e che essa non costituisca dunque una conseguenza inevitabile del monoteismo. Le cose sarebbero potute andare diversamente se la religione non fosse stata usata dalla politica: esiste dunque anche per il presente o per il futuro la speranza che, sottratte all'ipoteca o al ricatto del potere, le religioni monoteistiche divengano tolleranti. Esse dovrebbero essere, conclude Assmann, «radicalmente depoliticizzate ». Come non condividere un tale auspicio? Ma di un auspicio appunto si tratta, di una considerazione che appartiene più all'ambito del «dover essere» che a quello dell'«essere», nel quale dobbiamo riflettere e operare. Un'obiezione che si può muovere all'analisi di Assmann è che egli trascura il nesso intrinseco e originario che unisce il sacro alla violenza indipendentemente dalla distinzione tra paganesimo e monoteismo. La terrorizzante crudeltà persecutoria connessa con il culto di Dioniso, quale appare dalle Baccanti di Euripide, non appartiene forse a un ambito puramente religioso? Ma è soltanto uno degli esempi adducibili. Né si possono dimenticare la diversa natura e la diversa evoluzione che hanno avuto i tre monoteismi.
Il cristianesimo, come l'ebraismo, è diventato più tollerante attraverso un processo di secolarizzazione contestuale con lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale. A tale processo l'Islam è rimasto estraneo, arrestandosi a una fase arcaica, per ragioni che non sembrano solo di carattere storico, economico e culturale, ma anche religioso. Il cristianesimo ha distinto sempre di più la sfera civile e politica da quella religiosa, lo Stato dalla Chiesa. Non si è trattato unicamente di una strategia o di un accomodamento: Cristo stesso aveva prescritto di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Niente di simile è invece accaduto nell'Islam, infeudato a un integralismo religioso che investe tutti gli aspetti della vita e dell'esperienza: in tale caso sarebbe difficile pensare che la politica si sia arbitrariamente sovrapposta alla religione, poiché le due cose fanno tutt'uno non solo di fatto, ma anche di diritto. Ne consegue che ogni discorso sui rapporti dell'Islam con l'Occidente, con la laicità, con la democrazia, con la non violenza, rischia di avere poco senso fino a che non sarà rimosso — per vie che adesso si possono solo ipotizzare — questo enorme ostacolo.

Sunday, November 25, 2007

L'annunciazione


"Vi si può scoprire che la storia narrata nel Vangelo era già stata "scritta prima", dall'inizio alla fine. La storia della divina Annunciazione, dell'Immacolata Concezione (o Incarnazione), della Natività e dell'Adorazione del Messia bambino, erano già state scolpite in geroglifici e raffigurate in quattro scene consecutive sui muri interni del Tempio di Luxor, fatto costruire da Amenhept III, faraone della diciottesima dinastia (1700-1600 a.C.). Nell'immagine, la regina Mut-Em-Ua, madre di Amenhept, suo futuro figlio, impersona la vergine madre che ebbe gravidanza priva di congiunzione carnale, la madre come barca del sole, la madre dell'Uno e Solo... Nella prima scena sulla sinistra si vede il dio Taht (Thoth), il Mercurio lunare, la divina Parola o Logos, nell'atto di salutare la vergine regina, annunciandole che darà alla luce un figlio. Nella scena successiva, il dio Kneph (unitamente a Hathor) infonde la vita dentro di lei. E' lo Spirito Santo che provoca la concezione; Kneph, in questo caso. La gravidanza e la concezione sono rese evidenti dalle forme più rotonde del ventre della vergine. Si vede poi la madre seduta sulla sedia della levatrice e il bambino sollevato dalle mani di una delle ancelle. La quarta scena è quella dell'Adorazione. Qui il bambino è seduto sul trono e riceve omaggi dagli dèi e doni dagli uomini. Dietro il dio Kneph, a destra, ci sono tre uomini inginocchiati, che offrono doni con la mano destra e la vita con la sinistra. Il bambino così annunciato, incarnato, nato e adorato è la rappresentazione faraonica di Aten il Sole, Adon in Siria, Adonai in ebraico, il Cristo-bambino (Krst) del culto di Aten, la miracolosa concezione della vergine madre personificata da Mut-Em-Ua.
da: Gerald Massey, The Historical Jesus and the Mythical Christ

Friday, November 23, 2007

Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento

Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento
Con Susanna Mati sulle tracce delle ninfe
Il fascino delle ninfe, bellezze in fuga: corteggiate da uomini e dei per la loro bellezza irresistibile, avevano il potere di fare impazzire e quello di ammaliare, la loro acqua era fonte di sublime ispirazione ma anche di morte. Al tema, già caro a studiosi di diversa formazione disciplinare, è dedicato il saggio Ninfa in un labirinto. Epifanie di una divinità in fuga (Moretti & Vitali) che l´autrice, Susanna Mati, docente di estetica filosofica a Venezia, presenta oggi alla Biblioteca delle Oblate (v. dell´Oriuolo 26, ore 17.30) nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». Introduce Franco Rella.
Dal saggio ho scelto le righe che vedono la ricomparsa della ninfa, tornata alla ribalta dopo secoli di oblio, e diventata fiorentina. (pp. 97-98).
«Di ritorno dall´esilio medievale, le ninfe classiche irrompono nella cultura visiva fiorentina, in misura tale che nel Quattrocento s´indicano genericamente come nimphae alcuni tipi ricorrenti, analogamente a quanto accade in letteratura e nella parlata comune. Avvolte in drappi, le nimphae lasciano ondeggiare le chiome al vento; sono aurae in costume caratteristico, "soluta ac perlucida veste", con abito e capigliatura agitate, magari cacciatrici, sovente inseguite, legate come prede renitenti; oppure sono portatrici di frutta come Pomona, o spargono fiori come Flora, fanno corteo a Venere e le porgono il manto; corrono o danzano, incedono nei dipinti, nelle composizioni poetiche, sui carri delle feste; spuntano incongrue in scene bibliche, in ambienti domestici familiari, in contenute cerimonie cattoliche si insinuano fanciulle dal passo rapido, sotto forma di Ore vestite di sottilissimi veli. Icona privilegiata dell´influsso dell´antichità sulle immagini del moderno, la ninfa asseconda l´inclinazione "a rifarsi alle opere d´arte dell´antichità non appena si trattasse di cogliere in ciò che vive l´istante di un moto esterno". La ninfa dalle vesti in movimento, spesso portata da una brise imaginaire, è messa a sua volta in figura dalle accortezze di Botticelli, pittore ed erudito filologo neoplatonico, nonché "sofistica persona" (così il Vasari nelle Vite). La ninfa è figura di un´elementare volontà di vita, dice Warburg, fiore elegante strappato al cupo rigore dei fanatici domenicani; essa infatti, movimento fattosi donna, personifica anche il risorto paganesimo rinascimentale; enigmatico simbolo di gioia e sensualità pagana, di risorgente passione, è insieme la liberazione della bellezza in volo neoplatonico, ascendente a libere altezze. La farfalla classica è sgusciata fuori dal bozzolo borghese-borgognone, la farfalla fiorentina, la Nynfa, e la veste le ondeggia vittoriosa, sul capo porta un´acconciatura alata, le ali si spiegano al vento Zefiro».

Thursday, November 22, 2007

Se il mondo classico spiega la democrazia e la Guerra Fredda

Storia Robin Lane Fox e l'attualità del pensiero greco e latino
Se il mondo classico spiega la democrazia e la Guerra Fredda
di Eva Cantarella
Non è facile leggere un saggio di storia con il piacere con cui si legge un bel romanzo: anzi, è molto difficile. Ma è quel che capita a chi inizia a leggere il nuovo libro di Robin Lane Fox, docente di storia antica a Oxford e già noto al pubblico italiano per il saggio su Alessandro Magno, pubblicato da Einaudi, su cui si basa il film del 2004 di Oliver Stone. Il titolo del libro è Il mondo classico. Storia epica di Grecia e di Roma. Nella prefazione, Fox ricorda che, per i romani, i classici erano i cittadini iscritti nella prima classe del censo: e ancora oggi, commenta, l'arte e la letteratura, il pensiero, la filosofia e la vita politica dei greci e dei romani sono «di prima classe». Vien da pensare, leggendolo, che la miglior definizione di classico la diede Tucidide, quando definì la sua opera ktéma es aéi, una ricchezza, un bene destinato a durare per sempre.Il mondo classico è quello al quale continuiamo a rivolgerci perché, ponendo domande sul presente, aiuta a leggerlo (anche se ovviamente in prospettiva diversa a seconda dei punti di vista dell'interprete). Un esempio, forse il migliore: la guerra del Peloponneso. Durante la Guerra Fredda, la contrapposizione Atene-Sparta era la lente abituale per esaminare la situazione politica. Di recente, è stata usata per giustificare la guerra preventiva e discutere la possibilità di esportare la democrazia. Ma torniamo a Fox: una storia del mondo classico non è impresa da poco, e spesso è di lettura non facilmente digeribile.La storia di Fox invece appassiona: a scriverla è un grande narratore, e a rendere la sua lettura un vero romanzo (senza nulla togliere alla scientificità della ricerca) contribuisce la scelta del metodo. Dopo aver individuato tre temi cari agli antichi — libertà, giustizia e lusso — Fox segue la loro evoluzione da Omero in avanti, concentrando l'attenzione su Atene del V e IV secolo a.C. e Roma al tempo di Giulio Cesare e Augusto. A legare il tutto, il rapporto tra il mondo classico e l'imperatore più classicheggiante, Adriano.La libertà, dunque: cominciamo da questa. In Omero significava non essere vinti e asserviti dai nemici; nelle costituzioni cittadine diventa, all'interno della comunità, lo status privilegiato di alcuni, per questo diversi dagli schiavi. Ma cosa voleva dire essere liberi? Avere libertà di parola, o di religione, o di vivere come si voleva? In questo caso, entro quali limiti? Ai tempi di Adriano si discuteva questo tema, controverso non meno di quello della giustizia. Cosa fosse «giusto» fu tema ampiamente dibattuto dai filosofi, così come il sistema che poteva farsene garante: la democrazia ateniese, che la affidava a giurie di cittadini scelti a sorte, o un governante, magari imperatore, come Adriano? E il lusso?Nonostante le leggi che cercarono di limitarlo, il lusso crebbe nel corso dei secoli: con l'aiuto dell'archeologia, dice Fox, a partire dal lusso si potrebbe scrivere un'intera storia dei cambiamenti culturali. E a proposito di lusso si diverte chiedendosi cosa sarebbe successo se invece del pio, morigerato (e noiosissimo) Augusto, avesse vinto Marcantonio: Orazio non sarebbe stato costretto a scrivere le sue poesie moraleggianti, Ovidio non sarebbe morto in esilio… Fox può permettersi anche di divertirsi con la storia fatta con i «se». Ma attenzione, non scrive solo di lusso e delleélite. I mondi presi in esame sono analizzati da molti punti di vista. Del mondo arcaico, ad esempio, non illustra solo pratiche aristocratiche come il simposio o la pederastia.Descrive la nascita delle colonie greche, soffermandosi sulla cultura e la mentalità di chi le abitava, sui loro culti. Parla dei tiranni e delle prime leggi.Ultima osservazione: a differenza dalle storie che, in misura diversa, presentano il mondo classico in una sorta di vuoto, che cancella i molti debiti verso le altre civiltà, quella di Fox inizia ricordando che «i greci e i romani presero molte cose in prestito da altre culture, l'iraniana, la fenicia, l'egizia e l'ebraica, per citarne alcune». Piace particolarmente, una simile posizione, in un momento in cui una parte sia pur minoritaria della storiografia sul mondo antico è passata dal rifiuto (finalmente!) di ammettere i debiti verso l'Oriente, all'eccesso opposto di diminuire (nei casi estremi negare) la grandezza delle conquiste intellettuali della Grecia e di Roma.

Saturday, November 17, 2007

I processi della caccia alle streghe

La Stampa 23.11.05
I processi della caccia alle streghe
Chi è André-Philibert de Pléod? E’ un conte del ducato di Aosta che nel 1723 fu accusato di aver fatto ricorso a malefici allo scopo di provocare la morte della moglie Anne-Dauphine, ma soprattutto, a detta degli storici, è il protagonista dell’ultimo processo istruito in Valle d’Aosta su accuse di stregoneria. Fu condannato alla pena capitale per impiccagione, dopo sbalzi repentini nelle confessioni, deposizioni contraddittorie, alternarsi di ammissioni e ritrattazioni che l’avvocato della difesa imputò all’applicazione di non specificati tormenti. Il contesto di questa storia e delle altre sette contenute nel libro «Accusa: stregoneria. Otto casi per l’inquisitore. I processi che raccontano la caccia alle streghe» (editori Newton & Compton), è rigorosamente documentato, come lo sono gli interrogatori delle streghe, allucinanti documenti di follia collettiva. E’ in questa atmosfera che Tersilla Gatto Chanu, studiosa di storia e tradizioni popolari, autrice di saggi, romanzi, sceneggiati radiofonici, poesie e racconti per l’infanzia, ha calato le vicende delle vittime che, dal Trentino alla Toscana, da Napoli a Milano e alla Valle d’Aosta, in un’unica voce, denunciano l’assurda e spietata persecuzione. I personaggi del libro, in maggioranza donne, possiedono una spiccata individualità e il clima della «caccia» si rivela violentemente antifemminista perché la donna, come sottolinea l’autrice, «erede di Eva, fonte di corruzione, peccato e perdizione, è bersaglio privilegiato di violenze, stupri, sfruttamenti», allora come oggi.

Wednesday, November 14, 2007

Gli specchi nel cervello

Gli specchi nel cervello
dai gesti alla simpatia, i meccanismi attraverso cui riusciamo a identificarci in ciò che è altro rispetto a noi e a costruire un ambiente sociale condiviso
di Federico Vercellone
Giacomo Rizzolatti Corrado Sinigaglia, So quel che fai Il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina, pp. 216, e21, SAGGIO
Vi ricordate del mito della caverna? Quando Platone afferma che le cose che sono quaggiù sono ombre di quelle idee che sostano immobili nei più lontani recessi celesti? A prima vista il mito sembra molto astruso ma poi, a guardare bene le cose, esso spiega in termini piuttosto plausibili ciò che istintivamente facciamo tutti i giorni. Quando, per esempio, diciamo: «quello è un cane!» possiamo pronunciare la parola «cane» senza timore di sbagliarci sia dinanzi a un barboncino sia dinanzi a un alano. Così pure possiamo dire: «È un animale» sia dinanzi a un grillo sia dinanzi a un elefante. Quando ci si esprime in questi termini lo si fa in modo immediato e irriflesso. Platone vuole spiegare tutto questo dicendoci che rappresentazioni diverse sono intuitivamente ricondotte ogni giorno a rappresentazioni superiori, «generaliste» che ci rendono riconoscibili le prime. Come si può ricavare da queste brevissime considerazioni, si ha qui da fare con una spiegazione notevolmente persuasiva che rende ragione del nostro quotidiano orientarci nel mondo attraverso il linguaggio. Se leggiamo So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio di Giacomo Rizzolatti e di Corrado Sinigaglia, troviamo invece molte buone ragioni per dubitare di Platone e del suo pur autorevolissimo punto di vista. In realtà la nostra conoscenza non è, quantomeno tendenzialmente, una conoscenza teoretica o rappresentativa. Attraverso analisi condotte dapprima sulle scimmie e poi anche sugli uomini i due Autori possono affermare che il vedere non individua elementi o segmenti del mondo, cioè rappresentazioni ma «ipotesi d'azione». Il vedere non guida la mano secondo la scansione di prima e dopo, capo e sottoposto (o teoria e prassi) ma, innanzitutto, si vede con la mano. Mentre il meccanismo della rappresentazione distingue tra un momento teoretico e uno pratico, tra un momento nel quale osserviamo il mondo e un secondo momento nel quale interveniamo su di esso, abbiamo qui a che fare con un osservare che è già sempre un agire e con un agire che non è mai cieco, ma deriva da un osservare in vista di.... In altri termini non osservo la mela e poi decido di mangiarla ma la osservo per mangiarla. Non apprendiamo mai sezioni segmentate del mondo ma porzioni compiute di questo che stanno nel contesto indissolubile della proposizione: «osservo la mela, allungo la mano e la mangio». In altri termini non c'è attimo nel quale non siamo immersi nel mondo. Sin qui potremmo trovarci nell'ambito di una qualsiasi teoria filosofica evoluta (dal pragmatismo a Heidegger) secondo la quale il soggetto è già da sempre immerso in un contesto. Ma il passo oltre che viene compiuto facendo nostra la scoperta dei neuroni specchio è che questo mondo diviene il nostro mondo attraverso l'imitazione del comportamento altrui. Il comportamento imitativo già riscontrabile negli esperimenti con le scimmie che ripetono certi gesti fatti dall'uomo (per esempio prendere fra le dita un pezzo di pane) dimostra che - grazie ai neuroni specchio - siamo già sempre immersi in un ambiente socialmente condiviso. La cultura da questo punto di vista è inserita nelle strutture biologiche che prevedono uno scambio imitativo: questo inizia con temi come il cibo per evolvere verso ambiti più complessi come lo scambio linguistico e quello emotivo. Da questo punto di vista il linguaggio non fa che ripetere, su di una scala dell'evoluzione più alta, quanto già si annunciava nell'imitazione semplice della gestualità altrui. Si riproducono, sul piano linguistico, comportamenti complessi che non sono riducibili alle loro componenti. Anche dal punto di vista linguistico - come del resto è intuitivo - non si congiungono strutture originariamente isolate le une dalle altre: soggetto, verbo e predicato. Si ha piuttosto sempre a che fare con strutture che realizzano una totalità, che identificano in questo modo un gesto, un'attitudine, un comportamento. Ma, come è noto a tutti, la comprensione non concerne soltanto o esclusivamente la sfera del linguaggio verbale; anzi una vera comprensione non può darsi che in presenza di una profonda corrente simpatetica che ci metta a contatto con gli altri condividendone i sentimenti. Anche a questo proposito i neuroni specchio hanno da dire la loro: sono proprio loro infatti i responsabili del fatto che dinanzi a qualcuno che prova disgusto anche noi lo proviamo senza essere a contatto diretto con la causa di questo stato. L'aspetto nauseato del nostro amico Mario che ha ingerito un cibo andato a male induce in noi un'analoga reazione di disgusto - suscitata dai neuroni specchio - senza che tuttavia si sia ingerito quel medesimo cibo. I neuroni specchio divengono da questo punto di vista un elemento cardine per cogliere la continuità evolutiva di bios e di ethos, di natura e cultura. Ci consentono di cogliere anche sul piano biologico le motivazioni profonde di risposte culturali antichissime ma persistenti. Per esempio: perché proviamo piacere in quanto spettatori di eventi luttuosi? Quando - a seguire Aristotele - siamo spettatori di una tragedia, ma potrebbe dirsi lo stesso per un film horror? Probabilmente ciò avviene non per ultimo perché sperimentiamo in queste situazioni la capacità di uscire da noi per identificarci in qualcosa di diverso, sia pure doloroso. Facciamo cioè esperienza di quella misteriosa plasticità del nostro essere che genera la cultura della quale i neuroni specchio sono, nel bene e nel male, corresponsabili.

Animali umani dentro la rete globale dei segni

Animali umani dentro la rete globale dei segni
A cura di Paolo Fabbri è uscito per Meltemi «Morfologia del semiotico» di René Thom, una raccolta di saggi in cui il teorico delle catastrofi analizza l'origine dei linguaggiCosimo CaputoSecondo la teoria delle catastrofi elaborata dal matematico francese René Thom ogni esistenza è l'espressione di un conflitto tra l'effetto erosivo della durata e un principio astratto di permanenza che ne garantisce la stabilità. Fluenza e conservazione caratterizzano dunque i processi della vita: ogni forma è un terzo fra due poli opposti e in quanto tale è un segno. Ecco allora che nel continuo del divenire emergono elementi di discontinuità, piegature. E appunto alla Morfologia del semiotico si richiama il titolo di una raccolta di saggi di Thom uscita di recente a cura di Paolo Fabbri, perMeltemi (pp. 168, euro 16), che rappresenta una occasione preziosa per indagare l'evolversi della teoria delmatematico francese sull'origine biologica dei linguaggi e dei comportamenti significativi degli uomini e degli animali che proprio da questa nozione dinamica di forma prende origine. Autore fra l'altro di un saggio pubblicato nel 1973 (e presente nella raccolta diMeltemi), Dall'icona al simbolo, che è considerato come un classico del pensiero semiotico, Thom definisce come «salienze» quelle discontinuità che si delineano su uno sfondo indifferenziato in seguito a stimoli sensoriali inattesi e improvvisi (come il tintinnio di una campanella o un raggio di luce) ma che hanno scarsi effetti a lungo termine sul comportamento neurofisiologico del soggetto. Al contrario, altri stimoli (per esempio le forme delle prede, dei predatori, dei partner sessuali) generano reazioni immediate che si traducono in trasformazioni profonde dell'organismo e in un comportamento specifico (attrazione o repulsione). Si tratta in questo caso - per usare il termine utilizzato dal matematico francese - di discontinuità «pregnanti», o «pregnanze». Ora, se nell'animale non umano vi sono poche pregnanze, provviste però di una notevole capacità di propagazione e diffusione, nell'animale umano viceversa assistiamo a una proliferazione quasi illimitata delle pregnanze, ma con una capacità di propagazione estremamente limitata. «Naturalmente - afferma Thom - le grandi pregnanze regolatrici della biologia (alimentazione, sessualità) non scompaiono dallo psichismo umanoma vi simanifestano soltanto in un ambiente ormonale favorevole e attraverso l'attrezzatura simbolica del linguaggio». È insomma il linguaggio - in quanto capacità astrattiva che distacca dal contatto diretto e usurante con ilmondo - a fare la differenza tra il mondo della vita umana e il mondo della vita non umana. Il progetto scientifico di Thom disegna così una semiofisica, vale a dire una teoria chemette in evidenza l'esistenza di una semiosi naturale in cui ha le sue radici la semiosi umana. Nella rete globale dei segni si intrecciano allora la natura e la cultura, il vivente umano e il vivente non umano, l'organico e l'inorganico. In questo modo la posizione di Thom rompe con un certo strutturalismo incline al formalismo per proporre invece un pensiero strutturale che alla logica dell'esclusione contrappone la logica della partecipazione, dell'ibridazione e dell'intreccio.

Le Muse parlano sempre al plurale

Le Muse parlano sempre al plurale
Marco Vozza
I filosofi sono un po' come i bambini che, talvolta in modo petulante, domandano sempre il perché delle cose, dei nomi e di ciò che accade. Il compito del filosofo sembra essere quello di protrarre in età adulta lo stupore infantile. Nel libro Le Muse, presentato nella bella collana diretta da Claudio Parmiggiani, un eminente filosofo contemporaneo come Jean-Luc Nancy pone questa domanda: «Perché ci sono più arti e non una sola?». Per rispondere a tale domanda è inevitabile il confronto con Hegel, per il quale l'arte è una rappresentazione inadeguata - perché limitata all'esperienza sensibile - dell'Idea, e con Heidegger, per il quale l'arte è la messa in opera della verità. L'arte, per l'appunto, non le arti. L'evidenza empirica che esistono più arti contiene rilevanti implicazioni teoriche che Nancy riesce sapientemente a dipanare. Nancy muove dunque dall'affermazione che non vi è una sola Musa o una sola Arte ma molte Muse e dunque molte arti: la questione estetica concerne quindi il singolare plurale dell'arte e, per estensione, la pluralità dei mondi come principio della realtà. La pluralità artistica non permette di considerare l'arte come l'espressione simbolica di un'unica realtà, idea, sostanza o soggetto; pertanto essa è sempre in eccesso o in difetto rispetto al proprio concetto filosofico che vorrebbe sussumerne la pluralità incoercibile. In realtà, le arti si intrecciano senza risolversi mai nell'interiorità, disposte in una estensione totalmente esteriore, partes extra partes. La legge e il problema delle arti è il singolare plurale, inteso come il senso dei sensi nel loro differenziarsi sensibile. La sensualità dell'arte, sentita e senziente, come momento dell'esteriorità sensibile, evidenzia il primato del toccare; determinando la prossimità della distanza, il toccare fa corpo, è il corpus dei sensi. Le arti mostrano l'essere del mondo, l'esteriorità e l'esposizione di un essere al mondo: l'a priori e il trascendentale dell'arte è che il mondo sia dislocato in mondi plurali, in pluralità irriducibili all'unità-mondo, attuando una distribuzione differenziale dei sensi che non sopravviene ad una unità organica ma che costituisce l'unità stessa del mondo nella sua originaria differenza singolare-plurale, che apre alla molteplicità di zone del toccare, alla proliferazione delle differenze di tocco. L'evidenza dell'essere è l'esistenza come infinita molteplicità del mondo, qualificato come eterogeneità di mondi in cui consiste l'unità del mondo. La filosofia ha invece ricondotto la pluralità delle arti all'unità di una pura produzione del senso e alla dislocazione sensibile del senso, rendendo intelligibile la sua recettività singolare-plurale, attribuendo all'arte il compito della presentazione sensibile dell'Idea, una visibilità sensibile di una invisibilità intelligibile. La sussunzione sistematica delle arti sotto la poesia è l'effetto dell'interpretazione filosofica dell'arte, come una «riunione senza esteriorità dell'intelligibile e del sensibile» (così per Hegel come per Heidegger). Ma la creazione è l'apertura del singolare plurale dell'arte, la sua eterogeneità: come scrive Pessoa, «le cose non hanno significato, hanno un'esistenza. Le cose sono l'unico senso occulto delle cose». La semplice «patenza» del mondo è manifestata e non fondata dalla pluralità delle arti, dalla presentazione plurale del singolare plurale, delle occorrenze d'esistenza. Le opere d'arte espongono, e non rappresentano, questa «transimmanenza» esistente del mondo. La tecnicità dell'arte la sottrae ad ogni assicurazione poetica che costituisce la tentazione ricorrente del Romanticismo, anche del suo epigono Heidegger: svelare la physis nella sua verità. La concezione dell'Arte come techné dell'esistenza, come sua ostensione, rende inoperosa questa fondazione filosofica della natura. Anche l'epoca del nichilismo compiuto mantiene l'arte nella sua subordinazione all'idea filosofica, mutandola però di segno rispetto all'idealismo: l'arte si presenta nel concetto vuoto di Nulla che è il risvolto dell'Idea. Invece, qualora si manifesti soltanto nel dominio sensibile, l'Idea si ritira in quanto Idea, cancellando la propria idealità. Questo ritiro o ritrarsi del senso - secondo Nancy - è il compito residuale dell'arte: presentare il visibile in quanto tale, non come idealità invisibile da visualizzare, immagine visibile dell'invisibile. Il visibile diventa «vestigia», orma, altrimenti che immagine, il visibile o il sensibile stesso in molteplici schegge, vedute senza visione.
Jean-Luc NancyLe Muse
trad. di Chiara Tartarini a cura di Alessandro Serra Diabasis, pp.180, e16,50SAGGIO

Déjà-vu, quando il tempo si ferma

Déjà-vu, quando il tempo si ferma
Federico Vercellone
E’ ancora vera l'affermazione secondo la quale la filosofia è una scienza che si sofferma con rigore sulle cose ultime? Indubbiamente l'essere, la sostanza e l'eterno campeggiarono nelle menti dei nostri antenati come una sorta di refrain che veniva loro inflitto, durante l'anno scolastico, tre volte alla settimana per circa quaranta settimane all'anno. Difficile dirimere con precisione perché si trattasse di una tortura. Forse perché gli uomini non erano o non sono interessati all'eterno? Al contrario: lo erano e lo sono eccome; a poche cose infatti sono più legati che all'idea dell'esistenza post mortem che difendono o attaccano con pari accanimento. Non si tratta di questo, ma del fatto che, oggi ancor più di ieri, si ha forse bisogno di un'altra dimensione dell'eterno meno perentoria e più familiare, qualcosa che conosciamo già da sempre e che non abbiamo bisogno di immaginare con sforzi che ci conducono in territori troppo impervi, che sono preclusi alla nostra immaginazione o che, al contrario, possono addirittura suscitare effetti orrifici. Allora c'è sicuramente necessità di parlare dell'eterno ma «in un certo modo». La filosofia continua a essere un' indagine rigorosa sul senso ma più domestica come ci dimostra anche l'ultimo affascinante libro di Remo Bodei, Piramidi di tempo che si sofferma sul tema del déjà-vu. A tutti noi è accaduto di vivere una situazione e di aver l'impressione di averla già vissuta. Anche con il déjà-vu abbiamo così a che fare con una ripetizione del tempo, con un arrestarsi del suo scorrere inesorabile verso la fine, con un'esibizione dell'irrefrenabile caducità dell'essere che per un attimo tuttavia si sofferma sul crinale del presente e lo ravviva di un'eco surreale. L'impressione di rivivere qualcosa che si è già vissuto accompagna talora in modo lievemente distonico lo svolgersi della nostra esistenza, ma stabilisce al tempo stesso una relazione di continuità con il passato meno drammatica e imponente di quella che è costituita dal rapporto con l'archetipo eterno. Proprio qui - ci ricorda Bodei - sta l'attualità filosofica di un tema come quello del déjà-vu che avrebbe altrimenti esclusivamente in psicologia la sua naturale collocazione. L'accelerazione moderna del tempo ha provocato un sempre maggiore divario tra passato e presente ma anche - aggiungerei - tra la morte e la vita. Il passato non costituisce più da questo punto di vista un orientamento per il presente, un'auctoritas; la storia non è cioè più magistra vitae. Per altro verso il presente non trova nel passato modelli che gli consentano di stabilire con quest'ultimo una relazione di continuità, un sicuro tessuto di senso che accompagni gli individui nel fare quotidiano. Questo diviene così un rarefatto terreno di occasioni: ci si inoltra al suo interno con l'intento di non farsi sfuggire le rare possibilità di benessere o felicità offerteci per esempio dall'amicizia e dall'amore.Il fenomeno del déjà-vu entro il quale Bodei ci accompagna attraverso un lungo e variegato percorso teorico e storico che contempla poeti e artisti da Shakespeare a Dante Gabriele Rossetti (e la moglie Elizabeth Eleanor Siddal) a Verlaine e a Ungaretti, per venire a filosofi come Nietzsche, Bergson, Benjamin e Ernst Bloch, a scienziati e psicologi, ci obbliga a fare i conti con questo tutto sommato felice disturbo della personalità. Che si tratti infatti di un disturbo della personalità non v'è infatti dubbio. Al contrario dell'esperienza onirica che ci fa prendere il sogno per realtà il déjà-vu produce un'allucinazione di segno opposto: esso ci fa prendere la realtà per sogno. E' come se Dio o un demone si riaffacciassero sulla superficie appannata del presente allontanandolo da noi, ne smentissero la pretesa di essere l'unico assoluto dotandolo di una surreale provenienza, schiudendo un'altra volta quella faglia nell'oggi che amiamo chiamare senso.
Remo Bodei
Piramidi di tempo Storie e teoria del déjà-vuil Mulino, pp.152, e12

Parole sensate? Dipende da chi le dice

Da uno studio della University of Amsterdam
Parole sensate? Dipende da chi le dice
Comprendere una frase non è questione di contenuto: fatichiamo a capire chi dice cose che non si addicono al proprio ruolo o figura
di Serena Patierno
La comprensione di un discorso non è un processo così scontato come potrebbe apparire: qualcuno pronuncia una frase, l'ascoltatore la riceve, traduce il messaggio vocale in una serie di significati, ed ecco che si raggiunge il senso compiuto, a patto che esista una certa coerenza e che non ci siano troppi errori grammaticali.
NON SOLO GRAMMATICA - Ma uno studio condotto dall'Università di Amsterdam rivela che l'identità di chi parla è fondamentale per il nostro cervello ai fini della comprensione di un discorso. Se ci sono forti incoerenze, questa fallisce. Non solo l'associazione tra significato e significante – l'immagine acustica di una parola – non è così immediata e banale, ma anche il significato attribuibile a una frase non può essere separato dal contesto sociale che avvolge e coinvolge il momento in cui questa è emessa.
IL TEST - Il dottor Jos van Berkum, che ha condotto la ricerca olandese, attraverso l'elettroencefalogramma ha misurato l'intensità dell'attività elettrica del cervello durante l'elaborazione di una locuzione. L'esperimento prevedeva frasi farcite di alcune parole fuori posto, e altre, invece, dotate di un senso grammaticale perfettamente compiuto, ma incongruenti rispetto all'individuo da cui venivano fuori. Insomma, un uomo che pronuncia una frase del tipo: «voglio somigliare a Britney Spears» provoca un'incertezza nei processi mentali, una sorta di rallentamento. Come dimostra la registrazione dell'attività elettrica del cervello di chi ascolta, la reazione è del tutto simile a quella che si verifica quando nel mezzo di una frase si individua una parola che non c'entra nulla: c'è lo stesso picco nell'attività elettrica cerebrale.
FORMA E CONTENUTO - Il significato, quindi, non si costruisce solamente a partire dalla coerenza grammaticale e dalla conversione delle parole in idee. Il contesto sociale, e l'identità del parlante, costituiscono indizi altrettanto importanti che possono togliere coerenza e significato a un discorso proprio come gli errori grammaticali. Il processo, inoltre, è assolutamente veloce: fra i 200 e i 300 millisecondi sono sufficienti perché il cervello reagisca alla sorpresa che lo depista. È chiaro che il significato non è il risultato della somma dei singoli significati. I processi che lo regolano sono molto più complessi: «Il linguaggio – dichiara van Berkum – evolve in modo strettamente correlato alla società, ai suoi bisogni comunicativi». In un attimo afferriamo il messaggio verbale, lo analizziamo grammaticalmente e lo inseriamo in un contesto complesso, fatto di informazioni che riguardano l'individuo parlante, l'ambiente e molti altri aspetti per nulla contenutistici, bensì «formali».

Scoperta Usa. Il cervello a tempo di musica balla e «pensa» al sesso

Scoperta Usa. Il cervello a tempo di musica balla e «pensa» al sesso
di Andrea Frova
Daniel Levitin, professore di psicologia e musica alla McGill University di Montreal, racconta sul New York Times in un articolo dal titolo «Dancing in the Seats», i risultati di una ricerca effettuata su cervelli sottoposti ad ascolti musicali. La tecnica usata è la fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging), capace di individuare le zone attivate del cervello su scala del millimetro cubo (l'attivazione si riconosce per un incremento del flusso sanguigno).CONTROPROVA — Sono state esaminate 13 persone durante l'ascolto di brani musicali e, come controprova, di loro versioni strutturalmente scompaginate. Si è trovato che, anche in condizioni di immobilità, l'ascolto di musica eccita zone che coordinano le attività motorie. Se il corpo non può danzare, lo fa il cervello, confermando l'indissolubilità del legame tra musica e movimento.Celebri sono le frasi di Hausegger: «Le espressioni sonore non sono altro che movimenti muscolari fattisi udibili, gesti che si sentono», o del musicologo francese Roland-Manuel (inizio Novecento): «La musica commuove in quanto muove».L'attribuire poco peso al metro e al ritmo, come si è fatto in talune forme musicali dell'ultimo secolo, quali la serialità e la dodecafonia, ha un effetto negativo giacché tali elementi, appellandosi all'aspetto motorio del discorso musicale, sono essenziali nel conferirgli forma e vitalità. Per Stravinskij «il ritmo e il movimento, e non l'espressione delle emozioni, costituiscono i fondamenti dell'arte musicale». Un altro risultato delle immagini cerebrali — dovuto a A.J. Blood e R.J. Zatorre — è che musiche che provocano un'intensa commozione interessano pure le aree dell'orgasmo sessuale e di altre soddisfazioni corporali, come la degustazione del buon cibo, ossia ataviche funzioni biologiche inerenti alla sopravvivenza o coinvolte negli stati di allucinazione da droga. Gli stessi autori osservano anche che accordi consonanti e dissonanti attivano aree diverse.DISSONANZE — Inoltre, i treni di «spari neurali» (segnali elettrici che l'orecchio invia al cervello) associati alle consonanze risultano assai più facilmente elaborabili dal cervello rispetto a quelli di altri insiemi di note, in particolare dissonanti. Il che spiega perché le prime giungono ben accette anche a un cervello naïf, laddove il ruolo della dissonanza viene valorizzato solo dopo una certa frequentazione della musica. Sono prove evidenti della straordinaria immediatezza fisica del piacere musicale, per quanto concerne non solo lo stimolo motorio, ma anche melodia e armonia tradizionali.

Sunday, November 11, 2007

Così impariamo a prevedere le mosse degli altri

Una ricerca italiana ha scoperto la funzione dei «neuroni specchio».
E che la loro attività è alterata nelle persone che soffrono di autismo
Così impariamo a prevedere le mosse degli altri
di Cesare Peccarisi
Nei fuoriclasse del calcio, come Kaká , la capacità di creare «copie mentali» delle azioni che un avversario sta compiendo può essere più «allenata»Come fanno Kaka e Ibrahimovic a capire in anticipo in che modo si muoveranno gli avversari, per poterli scartare o rubargli la palla prima che se ne rendano conto? La risposta è nella scoperta fatta dai ricercatori del Dipartimento di neuroscienze dell'Università di Parma, diretti da Giacomo Rizzolatti, con uno studio pubblicato sulla rivista Pnas. I due campioni "vedono" l'intera sequenza motoria degli avversari, già dai loro primissimi movimenti, grazie a catene di «neuroni specchio dedicati ad un'azione specifica», che si trovano nella corteccia parietale e premotoria del cervello.«Le nostre azioni sono codificate da catene di neuroni, ognuna selettiva per un particolare atto motorio elementare — spiega Rizzolatti —. Nel compiere un'azione, scegliamo automaticamente una specifica catena di neuroni, che fanno sviluppare l'azione in maniera armonica, senza dover riorganizzare ogni volta quello schema motorio. Quando, invece, osserviamo un'azione, i neuroni specchio "dedicati" attivano una sequenza motoria virtuale, che ci permette di creare una rappresentazione mentale dell'intera azione, facendocene capire le finalità». Tutti usiamo questi neuroni: quando, ad esempio, incrociamo altre persone salendo sul metrò, nel cervello si attiva istantaneamente una copia dell'intero schema motorio dei loro movimenti e così evitiamo di scontrarci. I fuoriclasse utilizzano benissimo questi neuroni, forse perché campioni si nasce, ma un po' anche perché lo si diventa con l'allenamento, che rende più pronti a visualizzare mentalmente i movimenti. Ma c'è anche qualcuno che si trova in una situazione opposta. Oltre ad aver dimostrato la presenza di queste catene di neuroni dedicati nei soggetti con sviluppo normale, lo studio ha, infatti, dimostrato che sono malfunzionanti in chi soffre di autismo: i bambini autistici non riescono a correlarsi con gli altri perché non sanno organizzare mentalmente sequenza e finalità dei movimenti, né traggono giovamento dall'esperienza. Per scoprire tutto questo i ricercatori di Parma, con i colleghi del centro di Neuropsichiatria di Empoli, hanno valutato (registrando l'attività elettrica delle fibre nervose) il comportamento dei muscoli di apertura della bocca in 15 bambini (8 normali e 7 autistici) mentre osservavano uno sperimentatore che, inizialmente, prendeva del cibo e lo portava alla bocca, poi prendeva un pezzo di carta e lo metteva in un contenitore.Nei bambini con sviluppo normale i muscoli della bocca si attivavano non appena lo sperimentatore muoveva il braccio verso il cibo: il sistema dei neuroni specchio dedicati permetteva a quei bambini di capire le intenzioni del ricercatore. E la catena non si attivava quando lo sperimentatore muoveva il braccio verso il pezzettino di carta. Niente di tutto questo accadeva, invece, nei bambini autistici, perché non sviluppavano alcuna copia motoria di ciò che osservavano.In una seconda fase dello studio i bambini hanno eseguito da soli l'esperimento: anche in questo caso in quelli normali l'attivazione dei muscoli della bocca si verificava già quando stavano per afferrare il cibo, mentre negli autistici la pre-attivazione arrivava solo quando era ormai portato alla bocca.«Anche gli autistici riescono a comprendere l'intenzione che sta dietro ad azioni semplici come queste; — dice Rizzolatti — la loro comprensione, però, non avviene su base "esperenziale", ma attraverso strategie di tipo cognitivo. Più precisamente: i bambini normali sviluppano un'organizzazione dell'azione motoria in catene neuronali, con cui comprendono, per esperienza, l'intenzione dell'azione osservata, che poi organizzano in maniera armonica. Nei soggetti autistici questa organizzazione non è armonica e impedisce di attivare catene di neuroni dedicati su cui basare una comprensione esperenziale delle azioni osservate. Ora, sarà possibile sviluppare nuovi interventi riabilitativi, per "risvegliare" i meccanismi motori che sembrano non funzionare in questi soggetti».

Friday, November 09, 2007

Dall'antica Babilonia alla Grecia di Aristotele: come il cielo era studiato

Dall'antica Babilonia alla Grecia di Aristotele: come il cielo era studiato
Quei nomi di dèi che parlano di astri
di Enrico Bellone
Relazioni. Quale rapporto razionale può esistere tra i racconti mitologici e forme di scienza rigorosa come la matematica e l'astronomiaMappe. Occorre capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come se fossero degli esseri viventi
Una grande scrofa attende il passaggio sul fiume della barca che trasporta la dea Yaahu Auhu. Al quindicesimo giorno d´ogni mese la bestia attacca la divinità lucente, che muore e poi rinasce. A volte, invece, la scrofa ingoia tutta la vittima: così osserviamo, sulla Terra, una eclisse di Luna. La Luna è, infatti, un corpo vivente e mitico. Appunto, la dea Yaahu Auhu. Un'altra barca naviga sul medesimo fiume. A bordo, il dio Ra. Ovvero, il Sole. Anche qui, la divinità, che nasce ogni mattina, può diventare preda di un grande animale. Un serpente gigantesco, la cui lotta con Ra sta alla radice di spiegazioni sull´eclisse parziale o totale di Sole. Altre divinità prediligono la navigazione sul fiume. Sono i cinque pianeti visibili ad occhio nudo. Uno di essi è Venere, che è però doppia: la prima lampada che a sera si accende in cielo, e anche la prima luce mattutina, annunciatrice dell´arrivo di Ra.Di che cosa stiamo parlando? Certamente di un fiume. Un immenso fluire di acque che circonda la Terra. Uno dei suoi rami è il Nilo, e infatti le descrizioni appena riportate sul muoversi dei pianeti, del Sole e della Luna risalgono ad antichi documenti egizi. Questi ultimi ci possono oggi apparire come miscele sconcertanti di opinioni insostenibili. Eppure, essi erano forme vere e proprie di sapere astronomico e cosmologico. Alle loro spalle stavano le conoscenze sul cielo che dopo il 2.600 avanti Cristo erano fiorite a Babilonia o nella mitica città di Ninive. Una fioritura che aveva comunque radici ancora più lontane, poiché aveva debiti con la scienza di quel popolo d´incerta origine che furono i Sumeri, i cui argomenti matematici risalgono al 3.500 a.C. e che, dopo un millennio, furono travolti da coloro che per l´appunto scelsero Babilonia come capitale.Ho parlato di miscele sconcertanti. Che rapporto razionale può infatti esistere tra racconti di scrofe o serpenti ghiotti di divinità lunari o solari e forme di scienza rigorosa come la matematica o l´astronomia? Esistono forse vie culturali per passare dai calcoli sui moti dei pianeti e dalle osservazioni accurate del cielo stellato o dei moti solari alla mitologia e all´astrologia?Esistono, e come. L´idea centrale, per fare una prima mappa dove siano segnate quelle vie, sta nel capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come esseri viventi, ed abbiano sistematicamente accoppiato tali vitalità a esseri divini. Come distinguere in modo netto tra il moto di un essere dotato di vita e il moto di Venere o Marte? Per noi, la distinzione sembra ovvia: impariamo nelle scuole che Saturno non ha l´anima e non è dotato di intelligenza. Per chi invece studiava l´universo alcuni millenni or sono, la faccenda era molto più intricata. Chi volesse dedicare un poco di attenzione al comportamento di un pianeta come Marte si accorgerebbe che esso percorre, in mezzo alle stelle, orbite piuttosto strane e con velocità variabili. Periodicamente, per esempio, il suo cammino è retrogrado: torna "indietro" per un poco, e poi riprende a camminare in "avanti". Per usare un linguaggio antico, è un "errante". Perché?Domanda non ingenua: ha assillato gli scienziati sin dai tempi dei Sumeri. Una soluzione ammissibile, ed effettivamente accettata da molte civiltà antiche, consiste nell´immaginare che tutti i corpi – celesti, animali o vegetali – facciano parte di una comunità universale, e tra loro continuamente interagiscano. Così le grandi costellazioni, o la più comune Luna, hanno poteri, e li esercitano sugli altri enti del cosmo. Ebbene, perché stupirci delle credenze che erano popolari a Ninive, Babilonia o Tebe, visto che l´odierno uomo tecnologico presta non poca attenzione agli oroscopi? I poteri dei pianeti e delle stelle sul nostro vivere sono reali per milioni di individui che consultano l´oroscopo con una attenzione non diversa da quella con cui ascoltano le previsioni metereologiche.Fatta questa precisazioni sui poteri intrinseci ai pianeti precopernicani, va subito chiarito che la scienza precopernicana era una grande scienza. La matematica e la geometria furono trionfanti, nello studio del cielo, per millenni. Un trionfo garantito dalla stupefacente capacità di previsione dei comportamenti osservabili del Sole, della Luna e dei cinque pianeti visibili senza telescopi. L´associazione narrativa dei pianeti con divinità e l´attribuzione di poteri al Sole o a Saturno erano strettamente connesse con l´impiego di strutture razionali centrate su teoremi geometrici e proposizioni matematiche.E quei trionfi ebbero il loro peso quando, a partire grosso modo dal 600 a.C., sorse la cultura dei Greci. La vetta dell´astronomia greca ha indubbiamente il nome dello scienziato Eudosso. Il quale, però, era nato in Asia Minore ed aveva studiato astronomia ad Eliopoli in Egitto, per poi approfondire le proprie conoscenze in matematica, in medicina, metafisica e musica sotto l´influenza dei pitagorici e di Platone.Anche per Eudosso i pianeti sono entità da trattare con estrema raffinatezza, facendo leva sulla geometria. Nella cui cornice razionale il cerchio è una figura di perfezione assoluta: tutte le stelle cosiddette fisse, infatti, si comportano come se fossero incastonate in una sfera che ruota uniformemente attorno ad un asse, così che noi, ancorati sulla Terra, non possiamo fare a meno di vedere ciò che si vede, e cioè il regolare spostarsi delle costellazioni. I moti strani dei pianeti, del Sole e della Luna con Eudosso, cessano d´essere strani: con una raffinata composizione di moti circolari uniformi le stravaganze planetarie sono ricondotte all´ordine e all´armonia. In tutto bastava aggiungere, alla sfera delle stelle fisse, altre 26 sfere.Le divinità non erano più indispensabili. Bastavano i teoremi. Le nostre conoscenze su ciò che davvero sosteneva Eudosso non sono del tutto esaurienti. Ci restano, più che altro, testimonianze indirette. Ma sicuramente sappiamo che nei millenni intercorsi tra la grande bestia che divora la Luna e le sfere di Eudosso il fondamento della conoscenza sui pianeti è la razionalità matematica, accoppiata alla tenace osservazione dei moti celesti. Anche le più mitiche storie cosmogoniche ci parlano, tutto sommato, di una evoluzione culturale nelle cui trame il mondo dovrebbe essere armonioso e rifuggire dal caos. Molti secoli trascorrono dalle 27 sfere di Eudosso al primo abbozzo che Copernico tracciò, in un manoscritto, del proprio sistema. Vale allora la pena di rileggere le ultime parole di quel manoscritto: «In tal modo, dunque, bastano 34 circoli per spiegare l´intera struttura dell´universo, così come la danza dei pianeti». D´antica data è la modernità.

Orfeo rinasce su un fragile rotolo

il manifesto 5.10.06
Orfeo rinasce su un fragile rotolo
A oltre quarant'anni dalla scoperta, viene pubblicata l'edizione ufficiale del papiro di Derveni, il più antico libro scritto in greco. Un testo poetico e religioso destinato a gettare luce sui riti mistici e iniziatici dell'orfismodi Franco MontanariOra io indosso bianchissime vesti e fuggo il parto dei mortali, né mi accosto alle tombe e mi guardo dal cibarmi di esseri animati (Euripide)Sarà forse banale, ma la storia del papiro di Derveni potrebbe fornire lo spunto per uno di quei romanzi di contenuto storico-archeologico che ogni tanto conoscono una vampata di moda: al centro della vicenda, un testo poetico-religioso dell'antica Grecia la cui scoperta, del tutto casuale, è stata seguita da un intreccio di gelosie accademiche, rivalità internazionali e colpi bassi, trascrizioni pirata e una pubblicazione differita per decenni e attesa con ansia crescente. La storia però non solo è vera, ma ha una notevole rilevanza scientifica, e per fortuna ha conosciuto proprio nei giorni scorsi il lieto fine tanto atteso.Il 15 gennaio 1962, due chilometri e mezzo circa a sud della località di Derveni (un passo di montagna sulla strada che da Salonicco conduce verso la Macedonia orientale e la Tracia), nel corso di alcuni lavori una macchina scavatrice portò alla luce una tomba ancora intatta. L'eforo - cioè il soprintendente - alle antichità di Salonicco, Charalambros Makaronas, fece eseguire scavi nell'area sotto la supervisione dell'archeologo Petros Themelis (che nel 1997, insieme a I.P. Touratsoglou, avrebbe portato a termine la pubblicazione completa dell'intero sito archeologico) e furono così scoperte altre sei tombe, solo due delle quali violate di recente, le altre piene di tesori. Venne alla luce una grande quantità di reperti, sepolti come offerte funerarie: vasi (tra cui un cratere stupendamente decorato), gioielli e oggetti di vario genere, tutti ora esposti nel Museo Archeologico di Salonicco.Nella tomba dell'iniziatoIl centro abitato della zona, a nord del passo, era l'antica Lete. Un santuario di Demetra e Kore ha restituito sculture databili a partire dalla metà del IV secolo a.C. e allo stesso periodo appartiene un'iscrizione riguardante attività di cittadini della città presso altre comunità: testimonianze di un considerevole sviluppo sul piano urbano, economico e politico. La necropoli della città si trovava a nord del passo e ha restituito tombe databili dal VI al IV secolo a.C., il che vuol dire che l'area era abitata fino dall'età arcaica. Le «tombe di Derveni» invece erano collocate fuori da questo cimitero, a una distanza dal passo di oltre due chilometri: chi erano le persone sepolte così lontano e qual era il motivo di questa collocazione? Importanti cittadini di Lete, nobili e ricchi? Personaggi di alto rango militare, come indicherebbero le armi e i resti di cavalli bruciati sulle pire? Alcune iscrizioni lascerebbero supporre che si tratti di notabili di Lete di origine tessala, presenti nella zona a causa delle - peraltro mutevoli - relazioni del re Filippo II di Macedonia (il padre di Alessandro Magno) con le famiglie dinastiche della Tessaglia intorno alla metà del IV secolo.Sta di fatto comunque che le tombe sono databili fra la seconda metà del IV e gli inizi del III secolo a.C e che in quella che è stata individuata come tomba A, venne trovato, fra i resti bruciati di un rito funerario, un rotolo carbonizzato diventato poi celebre in tutto il mondo come il papiro di Derveni. In base alla ricostruzione più probabile, il morto venne cremato su una pira presso la tomba, poi i resti suoi e di altre cose combuste furono posti in un cratere di bronzo, cui si diede sepoltura. Il fatto che anche il rotolo di papiro venne bruciato ha probabilmente una relazione con il suo testo di contenuto religioso, legato alle credenze orfiche, mentre la vicinanza al santuario di Demetra e Kore indica che il defunto era probabilmente un iniziato, seguace dei connessi riti misterici. In ogni caso, non sfuggì ai primi scopritori l'eccezionalità del ritrovamento del rotolo di papiro. Come è noto, il materiale scrittorio fatto di papiro non si è conservato in Grecia per ragioni climatiche, a differenza di quanto è accaduto in Egitto o anche a Ercolano dove i papiri carbonizzati furono preservati sotto il materiale eruttivo del Vesuvio. Quello di Derveni era dunque il primo papiro ritrovato sul suolo della Grecia, e la datazione alla fine del IV secolo ne faceva inoltre probabilmente il più antico libro scritto in greco, coevo al massimo di un altro paio di provenienza egiziana, anche se il confronto delle scritture può essere problematico data la diversità geografica. (Esiste per la verità anche un piccolo frustulo trovato nel 1982 in una tomba di Atene e datato al V secolo: ma per quanto riguarda il testo, nulla di paragonabile né per quantità né per valore).Il rotolo era ovviamente di una estrema fragilità: bastava sfiorarlo per ridurlo in polvere. Trasferito al museo archeologico di Salonicco, si ruppe in pezzi e rivelò che l'interno era scritto: Makaronas chiese allora al filologo Stylianos G. Kapsomenos di occuparsene, conferendogli i diritti della pubblicazione del testo. Fu subito chiamato Anton Fackelmann, celebre conservatore dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Vienna, che aveva sperimentato un metodo di restauro di papiri carbonizzati, basato sull'applicazione di succo fresco di papiro e gomma arabica e sulla separazione dei diversi strati grazie a un effetto termico ed elettrostatico. Compiuto il lavoro nel luglio 1962, oltre 260 frammenti furono distesi, posti fra due strati di vetro e resi leggibili. Da allora, i vetri non furono più aperti: ulteriori restauri non sono infatti possibili, neppure per distendere piccole ripiegature, pena un danno assai superiore al vantaggio. Le fotografie prese allora restano dunque la documentazione migliore del testo, dato che allo stato attuale, anche le più avanzate tecnologie di lettura di manoscritti non possono portare più avanti.Fu dunque Kapsomenos ad annunciare per primo il ritrovamento nel 1963 e a pubblicare l'anno dopo una descrizione generale con la trascrizione di alcuni brani del testo. Il mondo scientifico fu messo a rumore e la pressione morale e psicologica sui responsabili fu pesante e crescente. Tutti volevano conoscere il testo e vedere le fotografie: il papiro di Derveni divenne una ossessione, l'oggetto di una insostenibile curiosità per papirologi, studiosi di storia della letteratura greca antica, della storia della filosofia e delle religioni, della lingua, del libro e della scrittura. Più la pubblicazione ritardava, più le richieste aumentavano e sottolineavano il valore del ritrovamento, ma una sorta di paralisi psicologica si impadroniva dei responsabili. Il papiro di Derveni restava inedito e diventava per i più una chimera: a disposizione, infatti, c'erano solo le anticipazioni di Kapsomenos e la piccola foto di una sola colonna, e con il tempo la situazione editoriale si complicò ancora con modalità tipiche del mondo accademico e della ricerca.La rottura di un tabùAlla morte di Kapsomenos, il diritto e la responsabilità dell'edizione passarono a Kyriakos Tsantsanoglou e Georgios M. Parássoglou, docenti dell'università di Salonicco. Ma nel 1982 una edizione pirata comparve in fondo a un fascicolo di una rivista tedesca, in pagine non numerate nel corpo della rivista, senza firma né assunzione di responsabilità e senza dichiarazione di origine. Il testo, incontrollabile per assenza di riproduzioni e di possibilità di autopsia, non autorizzato da chi ne aveva i diritti, fu dichiarato pubblicamente incompleto, provvisorio e in parte errato: probabilmente era stato sottratto con astuzia da qualcuno che aveva avuto in mano una trascrizione di lavoro. Un tabù però si era rotto e ne seguì una lunga storia di riprese del testo dervenico, inclusione di sue parti in raccolte particolari (quali ad esempio edizioni dei frammenti di poesia orfica), traduzioni (in inglese e in francese), progressi in singoli punti compiuti grazie a informazioni elargite con generosità dai responsabili greci, sottoposti sempre più a una sorta di accerchiamento.Gli studi si susseguivano, del papiro di Derveni si conosceva molto e molto più si ipotizzava, ma per gli studiosi era impossibile verificare la correttezza delle loro ipotesi testuali ed esegetiche. Mancava quello che tutti aspettavano da quasi mezzo secolo: l'edizione ufficiale e autorizzata, completa e condotta di prima mano, corredata di una valida riproduzione di tutti i frammenti, che fissasse lo stato reale del testo in ogni suo punto e mettesse chiunque in condizione di controllare l'attendibilità delle proprie ipotesi di integrazione e costituzione del testo, vale a dire della base irrinunciabile per l'interpretazione. E finalmente in questi giorni, grazie all'aiuto decisivo di Theokritos Kouremenos, un giovane e attivo studioso dell'università di Salonicco, l'attesa edizione affidata a Kyriakos Tsantsanoglou e George M. Parássoglou è uscita a distanza di oltre quarant'anni dalla scoperta.Fra poesia e dottrinaMa cosa contiene questo straordinario reperto, cosa c'è scritto nel papiro di Derveni? Il rotolo doveva essere lungo in tutto oltre tre metri e alto forse 16-17 centimetri: ne sopravvivono circa due metri e mezzo, in tutto ventisei colonne frammentarie in condizioni assai diverse di conservazione: di alcune infatti non rimangono che poche lettere. Forse i numerosi piccoli frustuli non collocati potranno permettere in seguito di ricostruire altre parti (nel libro sono tutti accuratamente riprodotti e gli esperti avranno da esercitare la loro acribìa).Appare acquisito che il testo sia stato scritto tra la fine del V e gli inizi del IV secolo, più o meno intorno al 400 a.C.: dunque, quando fu copiato nel rotolo di Derveni (scritto alla fine del IV secolo) era già vecchio forse poco meno di un secolo. L'autore cita brani di poesia orfica (qualcuno dei versi era già noto da altre fonti) e svolge su di essi un commento dottrinale: il tema dei versi e della trattazione riguarda la cosmogonia, negli aspetti peculiari che essa assumeva per le credenze orfiche (il nome di Orfeo è conservato alla colonna 18). Al centro del discorso è Zeus, ma sono menzionate anche diverse altre figure divine, alle quali si applica una interpretazione allegorica. La genealogia cosmogonica mostra la peculiarità di provenire dalla coppia Etere-Notte, che gioca un ruolo particolarmente importante, ma ogni singolo elemento deve essere considerato alla luce del confronto con le altre fonti su un insieme di dottrine e interpretazioni altamente problematiche.Un libro della religione, dunque, che contiene sia il testo di riferimento del fondatore Orfeo che la trattazione esegetica. Nelle fonti antiche, del resto, si fa spesso riferimento ai «libri» orfici, a sottolineare l'importanza che l'orfismo attribuiva al libro scritto, alla parola autorevole dell'interprete sacerdote iniziato, accanto alla ritualità delle purificazioni e delle cerimonie cultuali. L'uomo sepolto a Derveni, così, portò con sé nell'oltretomba, bruciato con lui, il rotolo prezioso che l'avrebbe seguito in quella vicenda post mortem alla quale aveva attribuito tanta importanza durante la sua «vita orfica».Testi integraliQuei frammenti riprodotti per interoIl volume «The Derveni Papyrus» (a cura di Theokritos Kouremenos, George M. Parassoglou, Kyriakos Tsantsanoglou, Leo S. Olschki Editore, pp. XIV + 308 + 30 tavole), con l'attesa edizione e la riproduzione completa dei frammenti del rotolo di Derveni, vede la luce nel quadro di un progetto scientifico italiano di grande prestigio internazionale, il «Corpus dei Papiri Filosofici Greci e Latini», guidato da un comitato scientifico di nove studiosi (otto italiani di diverse università e uno inglese di Cambridge), sotto gli auspici dell'Accademia «La Colombaria» di Firenze, dell'Unione Accademica Nazionale e dell'Union Académique Internationale, in collaborazione con il fiorentino Istituto Papirologico «G. Vitelli».

Considerazioni su Orfeo

il manifesto 5.10.06
Vita ascetica dell'antica Grecia
Sfumano nella leggenda i contorni della figura di Orfeo,
mitico musico della Tracia e fondatore di quel movimento iniziatico, l'orfismo appunto, assai diffuso in Grecia a partire dall'età arcaica.
La fortuna del personaggio - noto per la partecipazione alla spedizione degli Argonauti a caccia del vello d'oro, ma più ancora per la sua discesa agli inferi per riportare in vita la sposa Euridice - fu enorme nelle arti antiche e moderne. Quanto all'orfismo, è uno dei temi più complessi della storia della filosofia e della religione antica. Già nel VI e V secolo a.C. circolava un cospicuo numero di scritti orfici, poemi in esametri dattilici attribuiti a Orfeo (e a Museo, cantore altrettanto leggendario). I riferimenti sono numerosi in vari autori dell'età classica, che trattano l'orfismo con venerazione oppure lo bollano di ciarlataneria, rispecchiando contrastanti atteggiamenti diffusi nella società. In mancanza di buone fonti antiche, il papiro di Derveni assume un'importanza enorme: i testi di poesia orfica che ci sono pervenuti sono più tardi di vari secoli e identificare le credenze e le pratiche proprie del più antico ascetismo orfico è un problema inestricabile. La ricerca tende oggi a privilegiare gli aspetti comportamentali della cosiddetta «vita orfica», accanto all'insieme di dottrine proprie dell'orfismo. A quanto pare, alla base stava l'idea che l'uomo ha un'anima immortale, temporaneamente imprigionata in un corpo mortale. Per assicurare la salvezza dell'anima bisognava perseguire la purezza con regole di vita pratica (essenziale l'astensione dal mangiare carne), con atti rituali periodici di purificazione e con cerimonie di consacrazione iniziatica. I risvolti potevano essere molteplici: per esempio, le usanze alimentari orfiche impedivano di partecipare ai sacrifici cruenti agli dèi della religione ufficiale, con possibili ripercussioni di carattere socio-politico. Il fatto è che l'iniziato orfico non si accontenta del rapporto con il divino garantito dalla religione e dal culto comune e pubblico, ma aspira a una relazione mistica privilegiata. Una parte importante delle credenze orfiche era poi rappresentata dalla cosmogonia. All'inizio di tutto era Chronos, il tempo, da cui nacquero Etere, Chaos e Erebo, entità che rappresenta il regno dei morti; da Etere e Chaos fu formato un uovo primordiale da cui nacque Phanes, dio ermafrodito della generazione; da Phanes e da Notte provennero le stirpi divine fino a Zeus. A seguito di una violenza incestuosa, Zeus con la figlia Persefone (nata da lui e da Demetra) genera Dioniso: i Titani lo fanno a pezzi e ne mangiano le membra, ma Zeus li distrugge col fulmine e dalle ceneri nascono gli uomini, partecipi di una natura malvagia e titanica e di una natura divina e dionisiaca. E appunto la figura di Dioniso, che rinasce dai suoi resti ricomposti per divenire il dio della futura regalità, gioca un ruolo centrale nell'orfismo, in quanto dottrina misterica in contrasto con la religione olimpica, fondamento della concezione dell'anima, di una ritualità mistica e iniziatica.

Ebla, continuano le scoperte

Corriere della Sera 9.10.06
Dagli scavi dell'archeologo Paolo Matthiae un'interpretazione rivoluzionaria
Il padre di tutti gli dei: ultimo mistero risolto tra le rovine di Ebla
di Lorenzo Cremonesi
EBLA — Dal testo scritto allo scavo tra terra e pietre. Leggere le tavolette cuneiformi come fossero mappe in codice per individuare i templi religiosi di 4400 anni fa. E il fatto clamoroso è che la cosa funziona. Paolo Matthiae ha elaborato un nuovo modo per esplorare le rovine di Ebla: il grande amore che da 43 anni segna la sua esistenza di archeologo appassionato. Adesso dedica una gran parte del suo tempo alla rilettura delle famose tavolette con la scrittura cuneiforme da lui scoperte nel 1975. Quindi, sulla base delle rivelazioni in esse contenute, si concentra a scavare in alcune zone specifiche dei quasi 60 ettari sulla collinetta di terra rossastra che emerge per un paio di decine di metri dalla piana presso l'autostrada tra Hama e Aleppo.«Mi sono convinto che in una elaborata società della parola scritta, quali erano i circa 20 mila abitanti di Ebla al tempo delle prime tavolette nel 2400 avanti Cristo, non potevano mancare anche gli archivi religiosi. Noi nel palazzo reale abbiamo individuato, raccolto e decifrato quelli civili, oltre 17 mila testimonianze uniche nella storia dell'umanità. Adesso si tratta di completare l'opera e trovare l'archivio del tempio centrale, anche perché centinaia di tavolette già in nostro possesso si riferiscono senza ombra di dubbio ai templi della città e alla sua religione», sostiene seduto nel piccolo studio-laboratorio ricavato in una fattoria con i muri di fango dove regolarmente trascorre tra i 3 e 4 mesi estivi all'anno per le campagne di scavo.Matthiae cerca con attenzione tra gli indici dei volumi da lui curati con la traduzione delle tavolette. Vi ritrova il lungo filo rosso che lo guida dal 1964, quando iniziò a dedicarsi a Ebla per la Missione Archeologica Italiana organizzata dall'Università La Sapienza di Roma.«Ecco. Prendiamo per esempio il cosiddetto Testo del Rituale della Sacralità, che nei nostri codici è stato catalogato con il numero 1823. Vi si spiegano tutti i passaggi molto elaborati che oltre quattro millenni fa legittimavano il re e la regina a governare su Ebla», racconta con un entusiasmo che per nulla tradisce i suoi 66 anni d'età. Quindi legge il testo a suo parere «rivelatore»: «Finché la regina non entra nel tempio di Kura, non entra nelle mura». Da un'altra tavoletta si deduce che c'erano allora due templi maggiori. Il minore, vicino a una delle porte di accesso alla città, non lontano dalle mura perimetrali di difesa.E il principale, forse contiguo al palazzo reale. Aggiunge l'archeologo: «Il primo lo abbiamo già trovato. È la scoperta dell'ultimo anno. Ma la novità di questa estate è stata scoprire che su questo primo tempio principale ne erano stati costruiti in successione altri quattro sino al 1600 avanti Cristo, quando Ebla fu definitivamente rasa al suolo dagli Hittiti».Arrivati con lui in gippone nel cuore dell'anfiteatro di Ebla stupisce osservare quanto poco sia stato esplorato. Il perimetro delle mura è ancora quasi tutto coperto dalla sabbia, cocci di argilla sono sparsi ovunque. Gli strati di quattro e forse cinque templi sovrapposti sono stati portati alla luce da giugno ad oggi. Quello più antico è anche il più imponente: largo 22 metri e lungo 30, aveva muri portanti spessi 6 metri e poteva essere alto sino a una ventina. «Abbiamo scavato solo il 10 per cento dell'intero sito. E il grosso del lavoro resta ancora da fare. L'archeologia procede sempre molto lentamente. Ma sono stato fortunato. A 35 anni quasi casualmente mi imbattei nella sala degli archivi. E da allora la mia vita è cambiata totalmente.Come affermò nello stesso 1975 un celebre archeologo americano, Ignace Gelb, dell'Oriental Institute di Chicago: gli italiani a Ebla hanno scoperto una nuova lingua, una nuova storia, una nuova cultura. I riconoscimenti dall'estero arrivarono immediatamente. In Italia ci volle più tempo», dice senza nascondere un'ombra di risentimento verso i media e gli ambienti accademici italiani.Sempre basandosi sulle tavolette in suo possesso, la missione sta per avviare nuovi scavi sulla parte alta della collina, poco lontano dalle zone esplorate nel 1975. Qui Matthiae cerca la conferma di un'altra sua ipotesi: «Sino ad ora si era pensato che la divinità principale di Ebla fosse Hadad, noto come il Dio della pioggia o della tempesta. Ma le tavolette più antiche si riferiscono continuamente ad un'altra figura, citata come Kura. Una sorta di Zeus primordiale, che come il Dio Baal dei famosi miti ugaritici è il padre ordinatore di tutte le cose in costante lotta con il serpente, l'entità della siccità e del caos. Se così fosse, potremmo dimostrare che la cultura sorta nel terzo e secondo millennio avanti Cristo nelle zone che corrispondono alla Siria attuale, specie nella regione di Aleppo, era molto più autoctona, originale e indipendente dalle contemporanee civiltà egiziana e assiro-babilonese di quanto non si fosse pensato sino ad oggi».

Riappare un capitolo del "Ramo d´Oro" che James Frazer non pubblicò per prudenza

Repubblica 9.11.07
Riappare un capitolo del "Ramo d´Oro" che James Frazer non pubblicò per prudenza
Le maschere del potere
Quando si crocifigge un re
di Antonio Gnoli
Nei Saturnali della Roma antica si metteva a morte un finto sovrano giovane e belloLe analogie tra i riti antichi e la storia di Cristo avevano colpito la fantasia dell´autoreTra quelle infime derive che la storia a volte crea, può accadere di imbattersi in una figura bizzarra. È un curioso personaggio che si ammanta delle insegne regali e che è fatto oggetto di scherno e venerazione. È un re. O almeno così appare, o dice di essere. Di solito la sua sovranità lambisce la decadenza di un´epoca, ne ravviva le ombre. E sembra, allora, che giochi, come un bimbo, con il declino che tutto e tutti avvolge. La figura ridanciana si fa carico di un potere eccessivo, mostra il suo lato meno cupo, ma non per questo meno insidioso. Ogni qualvolta ci sentiamo attratti da questa recita trasgressiva, scorgiamo la stessa stravaganza che Svetonio nella Vita dei Cesari ritrovava in Nerone, in Caligola, in Eliogabalo. Ed è come se improvvisamente la sovranità porga il proprio orecchio all´altezza della voce di un popolo, ne ascolti (deliziata o irritata) i motteggi, gli insulti, la derisione, ma anche l´adulazione più sfacciata. Quel costrutto, minaccioso e ilare, non rinuncia tuttavia al suo mandato teologico, alla sua discendenza divina.Come è possibile dunque che un potere, intangibile e remoto, legato alle ritualità del sacro, si nutra di una sostanza così greve? C´è un saggio di James George Frazer dedicato ai Saturnali e alla crocifissione del Cristo - che ora appare per la prima volta in italiano (La crocifissione del Cristo, pagg. 254, euro 16, curato ottimamente da Andrea Damascelli, edizioni Quodlibet) - nel quale si abbozza una risposta, in larga parte involontaria.Nel 1890 - in uno di quei momenti in cui la storia si immagina felicemente in marcia - uscì Il ramo d´oro di James Georges Frazer. Era un´opera di intensa ingegneria spirituale nella quale agivano le forze razionali il cui compito era di spiegare su quale base il mondo umano aveva costruito le proprie civiltà. Frazer - figlio di un farmacista e del positivismo ottocentesco - andò a stanare il rapporto che l´umanità aveva da sempre avuto con la credenza, le superstizioni e naturalmente le religioni.Tra quelle migliaia di pagine, che esordivano accostando un quadro di Turner a un bosco sacro dell´Italia arcaica, Frazer aveva inserito un capitolo dai tratti culturali esplosivi. Egli amava spesso divagare. Con la frenesia dell´accumulatore compilava lunghe annotazioni. Ma rispetto alle vaste comparazioni fin lì condotte quel capitolo, dedicato alla crocifissione di Cristo, sembrava una deviazione troppo netta. Una stranezza. Un´escrescenza. La provocazione che un ateo (almeno tale era stato considerato) lanciava contro il cristianesimo e le sue origini. La tesi, ancorché fragile nello sviluppo, era affascinante. Frazer - come in un gioco di scatole cinesi - immaginò che la passione e poi la crocifissione del Cristo per larghi tratti si potevano ricondurre al Purim, una festa ebraica che mostrava degli evidenti legami con le Sacee babilonesi e i Saturnali romani.Frazer - colpito dal fatto che durante i saturnali c´era l´usanza di mettere a morte un finto re - descrive il modo in cui i soldati romani celebravano ogni anno quel rito cruento e pagano: «Trenta giorni prima della festa sceglievano tra loro, sorteggiandolo, un uomo giovane e bello, che veniva vestito con abiti regali perché assomigliasse a Saturno. Così ornato e scortato da uno stuolo di soldati, questi andava in giro in pubblico, autorizzato a dare libero sfogo a tutte le passioni e a gustare ogni piacere, per quanto vile e ignominioso». Allo scadere dei trenta giorni - durante i quali il falso re si permetteva qualunque licenza - l´impostore si dava o trovava la morte tagliandosi la gola. Era, il suo, un regno breve, gioioso ed efferato; burlesco, come saranno in seguito certi Carnevali italiani, ma anche sommamente tragico come dimostra l´anonima cronaca del martirio di San Dasio. Soldato romano, convertito al cristianesimo, e di stanza sul Danubio, Dasio viene prescelto per svolgere la parte del finto re. Il suo rifiuto lo condurrà al martirio e alla morte.Ma cosa c´entra tutto questo con la festa di Purim? Nel Libro di Ester si narra della festa che venne istituita per commemorare la liberazione degli ebrei dal pericolo di cadere sotto il giogo persiano durante il regno di Serse. I contenuti di quel rituale liberatorio e gioioso richiamano, secondo Frazer, i tratti fondamentali delle Sacee babilonesi che sfociavano come è noto in un frenetico baccanale. In quell´occasione c´era l´usanza di mascherare uno schiavo da re. Quel sovrano provvisorio alla fine del suo "mandato" moriva sulla forca o, a volte, sulla croce. Anche nel Libro di Ester c´è un finale cruento e lieto. Fra intrighi di corte e complotti contro il re Assuero, si svolge la vicenda di Aman, visir del regno di Assuero e di Mardocheo, un ebreo influente e giusto che si rifiuta di onorare la carica di Aman e per questo è accusato dallo stesso Aman di congiurare contro il re. La pena richiesta prevede lo sterminio degli ebrei e l´impiccagione (o crocifissione) di Mardocheo. Ester, sposa di Assuero, implora il re di risparmiare il suo popolo, e svela che a capo della congiura c´è Aman che a quel punto il re fa giustiziare. Quanto a Mardocheo, che aveva fatto fallire il complotto, viene portato in trionfo. Aman, nella tradizione festosa del Purim, subirà, dice Frazer, una trasformazione parodica, diventando egli stesso un finto re, oggetto di scherno.Molti studiosi hanno rilevato le forzature, l´approssimazione con cui l´antropologo accostava vicende storiche e letterarie molto diverse. In soccorso, almeno parziale, alle sue tesi, venne Edgard Wind, studioso d´arte legato alla scuola di Warburg che nel 1938 rianalizzò la morte di Aman riconducendola a un affresco di Michelangelo, e ad alcuni versi di Dante. In quell´affresco, un dettaglio della Cappella Sistina, l´esecuzione del Visir raffigura un uomo crocifisso. Aman come il Cristo? L´idea che la morte di Gesù fosse accostabile a quella di Aman, quantunque suggestiva aprirebbe una questione delicatissima.Può il cristianesimo fondarsi su una parodia? Frazer si tenne alla larga da una simile conclusione (tanto è vero che espunse il capitolo sulla crocifissione da Il ramo d´oro e lo stesso Wind, ove avesse accolto pienamente una simile lettura, avrebbe visto sfigurarsi il volto stesso della storia. Sia Frazer che Wind non furono del tutto indenni alla suggestione che la passione del Cristo, pur nella sua tragedia, ricalcasse il paradigma del finto re: la corona di spine, lo scherno dei soldati, le grida della folla tumultuante erano indizi a carico di quella versione. Che il Cristo fosse una variante di quel modello parodico è stata in seguito respinta e smontata da gran parte degli studiosi.Resta una questione che Frazer e Wind lasciano sullo sfondo: chi è il re? Vi è un potere che aspira alla regalità, all´unto, alla non contraddizione. Esso si serve di quel retroterra sovrannaturale, grazie al quale cerca di infondere ai propri gesti una natura divina. Al tempo stesso quel potere si può mostrare buffonesco, logorroico, impertinente. Esso ci appare come un mero scherzo, una maschera comica, segnata da una corona sbilenca e instabile sempre sul punto di rovinare miseramente al suolo. Di norma, quei re finti, scherzosi, gaudenti, che venivano eletti nel corso di una baldoria, avevano vita breve. Duravano il tempo della festa. Sufficiente tuttavia per mostrare il lato nascosto della sovranità.Nella folle Ninive, racconta Frazer, si poteva incontrare un antico Ercole persiano dalle accentuate movenze femminee. Incedeva tra la folla come un re. A volte era un re, irriconoscibile: la biacca sul viso pallido, le ciglia annerite dal bistro, carico di anelli, catene e orecchini, con l´ascia in una mano e la coppa di vino nell´altra.Chi vedesse in queste insegne ridicole il puro aspetto licenzioso e stravagante, perderebbe di vista quel bisogno che il potere a volte ha di mostrare il suo volto indegno. Il potere grottesco - che con il potere criminale condivide l´arbitrio assoluto - non è semplice rappresentazione teatrale, e non si esaurisce nell´acclamazione in vista di un riconoscimento. Il potere grottesco è l´altra faccia del carisma. La sua nudità. Che il sovrano, a volte, riveste di infamia.
---
commento:
Non ho una granze considerazione del Frazer, il suo libro il "ramo d'oro" è abbastanza fornito di informazioni, ma l'autore partendo da una visione monoteista deforma o non capisce molti simbili.
Il Frazer è stato giustamente criticato per aver proiettato aspetti oscuri sui riti che illustra, tanto per fare un esempio diceh che i fuochi di un rito sono "sinistri". Quando mai per un pagano un fuoco è sinistro?
Il Frazer ha anche la fissazione di far discendere tutti riti e i culti dall'avvento dell'agricolutura, una visione decisamente limitata.
La notizia che riportiamo, cioè quella di un capitolo censurato, è significativa del climo da inquisizione che e di paura che le religione monoteiste creao.
Francesco Scanagatta

Tuesday, November 06, 2007

Veneto Pagan Moot giovedì 8 novembre 2007

Incontro Wicca e Pagano -
Pagan Moot Veneto giovedì 8 novembre 2007

salve,
giovedi' 8 novembre 2007
Montegrotto Terme ore 20,45.
al Pub Imbolc,
Via Aureliana 11 Montegrotto Terme (PD)
si terra' l'incontro mensile dei pagani e wiccan
veneti. L'incontro è aperto a tutti.

In questa occasione saranno proiettate le foto dei
riti del solstizio d'estate, del rito di Lug (festa
del raccolto), e dell'equinozio d'autunno.


Incontro periodico mensile ogni secondo giovedì del
mese.
Il primo Pagan Moot Veneto è avvenuto nel dicembre
2005.

<< Durante il pellegrinaggio della vita, il politeista
si reca da un tempio all'altro, pratica differenti
rituali, differenti modi di vita, differenti metodi di
sviluppo interiore. Resta costantemente cosciente
della coesistenza di una moltitudine di vie che
portano al divino… il monoteista non può vedere in
modo chiaro, fianco a fianco, i diversi stadi del suo
sviluppo passato e futuro, illustrati da diversi
simboli, diversi Dèi, diversi culti, diversi
comportamenti religiosi, ogni suo tentativo per
superare i limiti dei dogmi e delle leggi del sistema
in cui si trova immerso tende a fargli perdere
l'equilibrio. >>, uso le parole Alain Danielou per
cercare di far capire lo spirito che anima molti dei
partecipanti al moot.


Cos'è un moot?
<< Un Moot è semplicemente un incontro tenuto in un
locale pubblico (solitamente un pub o simile) ad
intervalli fissi in cui le persone si possono
incontrare per conoscersi, discutere, consigliarsi e
quant' altro. Il fatto che l' incontro si tenga sempre
con la stessa periodicità facilita l' organizzazione
per tutti, visto che non si deve cercare di contattare
tutti ogni volta per mettersi d' accordo, e che le
persone hanno la possibilità di organizzare i propri
impegni per tempo sapendo quando c'è il Moot. Inoltre
tutte le persone nuove nella comunità possono andare
ad un Moot>>.
saluti.

francesco scanagatta
blog: http://paganesimo.blogspot.com
cell 349 7554994.

Dall'antica Roma ad Halloween

"
Nell’antica Roma, origine di tutta la civiltà occidentale, due erano le giornate dedicate ai morti: i Parentalia il 13 e il 21 di febbraio, e i Lemuria il 9, l’11 e il 13 di maggio. Nel primo caso i vivi si recavano ai morti per riconoscerli come “parentes”, cioè antenati, secondo un modello tradizionale (tipico anche del culto dei Kami nipponici), in cui il familiare defunto è antenato e nostro spirito protettore; nel secondo invece erano i “lemures” (i fantasmi degli uomini morti prematuramente, che non avendo potuto formare una loro “familia” non potevano diventare “parentes”) a presentarsi alla porta di casa. Il capofamiglia, alzandosi nella notte, li cacciava officiando appositi rituali, tra cui particolarmente importante era la simbolica offerta di un piatto di fave. Gli storici delle religioni ne hanno discusso a lungo, intravvedendo uno scambio rituale nell’offrire le fave in cambio del farro, mietuto anzi tempo a maggio; anche in opposizione ai Parentalia, dove viole, corone di fiori, pane inzuppato nel vino e farina di farro con un grano di sale venivano offerte ai defunti. Tradizioni di epoca repubblicana, ma conservate lungo l’Impero e oltre, le onoranze dei defunti e la cacciata degli spettri sembrerebbero ben lontani, in termini cronologici, dal calendario cristiano; se non sapessimo che con Bonifacio IV il 13 maggio divenne giorno dei martiri cristiani (609 e.v.), mentre Gregorio III, cent’anni dopo, ne allargò la sfera a tutti i santi e Gregorio IV trasportò la festa al 1° novembre; festum omnium sanctorum, o nei territori italiani ad omnes sanctos, da cui il toscano volgare Ognissanti. L’operazione rivelò un’eccezionale mossa propagandistica; come la maggior parte delle feste cristiane nate a ridosso di quelle pagane, servì a cancellare dalla memoria collettiva il ricordo della romanità sostituendola con un culto d’importazione; ma il passaggio a novembre venne a incunearsi a cavallo di altra e importante festività, questa volta celtica, che nella notte di Samhain, fra il 31 ottobre e il 1 novembre, segnava le due parti dell’anno, la progressiva scomparsa della metà in luce e l’affiorare di quella delle tenebre. A Samhain come nei Lemuria il diaframma fra vivi e morti si assottigliava, e il capodanno celtico diventava non solo momento di riflessione sull’esistenza, ma anche fra i due mondi; veniva offerto cibo ai morti su di un piatto posto all’uscio di casa o sulla tavola, e accese candele alle finestre: indicare la via di casa ai morti e sostentarli, era il modo di esercitare l’equivalente della pietas latina nei confronti degli antenati, e il fatto che questo rito sia ancora eseguito dai seguaci della Wicca inglesi e americani e dai neopagani europei la dice lunga sulla sopravvivenza dei culti ad onta della “cristianizzazione” forzata. Mentre per i romani le feste erano due e disgiunte, e per i celtici se ne formulava una sola, il cristianesimo le sincretizzò, riempiendo lo spazio “vuoto” del novembre romano, che alle calende (il primo del mese) vedeva solo un epulum Iovi, cioè un banchetto dedicato a Giove. In un colpo solo Ognissanti cancellava Lemuria e Samhain. Quindi Halloween. Nome di impronta anglosassone, traduzione inglese di Ognissanti (All Hallows Even), la festa dei morti nata nella madrepatria, considerata ancora troppo pagana dai cattolici prima e dai protestanti poi, seguì le venture dei Padri Pellegrini ed emigrò negli States, dove i Puritani la guardavano con sospetto, ma dove si arricchì di tutti gli elementi folcloristici che conosciamo: la zucca illuminata, i dolcetti, i travestimenti, reclutando l’idea (diffusa in tutta Europa: dai munacelli italiani agli spiridusc rumeni e ai goblins francesi per finire con i kobolds tedeschi e i leprechuans sassoni) che gli “spiriti folletti” vadano in giro giocando brutti scherzi agli esseri umani.
"
citazione tratta da:
Ognissanti: Halloween, lontana ma vicina di Claudio Asciuti - 04/11/2007 - Rinascita

Samhain

Samhain
di Giuliano Corà - 04/11/2007
dal sito di: Movimentozero

Affilano le armi tutto l’anno: teste di cuoio del cattolicesimo ecclesiastico, razionalisti d’assalto, neoilluministi fanatici. E quando arriva si scatenano. Paradossalmente, l’aspetto più divertente ed interessante di Halloween sono proprio le loro invettive, le scomuniche, le mortificanti assurdità. Ce n’è per tutti, di tutte le specie. Così, pochi giorni fa, il vescovo di Genova e segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone ha tuonato contro il “risorgente paganesimo” (magari, Eminenza, magari!). La Liguria dev’essere una terra particolarmente fertile, quanti a furori antipagani: già nel 2005 il cardinal Bertone aveva ampiamente tuonato contro questo “evento insensato”, ma la Chiesa quasi tutta è ormai da molti anni in prima fila in questa nuova crociata per la difesa della ‘vera fede’. Dico quasi perché alcuni preti, più ‘illuminati’ degli altri, hanno pensato che può invece essere utile sdoganarla, trasformandola in una specie di carnevale da effettuare – ça va sans dire – sotto il controllo e magari nei locali stessi delle parrocchie, in una versione furbastra e pelosa dell’evangelico “lasciate che i bambini vengano a me”. Su questa linea, per esempio, si colloca l’iniziativa di Famiglia Cristiana, che nell’ultimo numero de Il Giornalino, il suo magazine destinato all’infanzia, ha dedicato quattordici pagine – un terzo dell’intera pubblicazione – all’organizzazione della festa. Per il resto, comunque, è guerra aperta, nella quale scendono in campo anche grossi calibri. Per esempio il filosofo cattolico Damien Le Guay (oddio, proprio ‘grossi’ calibri forse è eccessivo: non è che si tratti di una celebrità della filosofia contemporanea…), il quale, nel suo libro ”La faccia nascosta di Halloween” (Elledici Leumann, 2004), parla di una festa “estranea a tutte le nostre tradizioni”, che favorisce il ritorno di “vecchie credenze pagane” (ma è un’ossessione!): “i simboli che questa festa veicola, gli elementi e i riferimenti che tollera, i rituali che consacra, danno di nascosto al paganesimo tutta la legittimità di cui ha bisogno per crescere”. Ma i laici non sono da meno. Mercoledì 31 ottobre, su RadioTre, durante la trasmissione Fahrenheit, Simona Cigliana, studiosa di spiritismo, ha esposto una sua teoria tanto improbabile quanto denigratoria, su una fantomatica derivazione della festa di Halloween dalla moda positivista dello spiritismo (?!), mentre il suo interlocutore, Marino Sinibaldi, irrideva a questo ritorno di un banale e sciocco occultismo. Andando indietro di qualche anno, vale la pena di leggere l’anatema lanciato da Michele Serra sull’Unità del 1 novembre 1998 contro questo “culto insensato (…) monopolio degli americani”, contro i bambini che festeggiano “come piccoli solerti colonizzati. A questa stregua, perché non (…) riesumare i riti della fienagione?” (di nuovo: magari!). E’ evidente che nessuno di questi ‘defensores fidei’ (che sia in Gesù o nella dea Ragione non fa molta differenza) dice la verità: non quella di una qualche altra ‘fede’, ma quella che sta nei testi di antropologia. Nei quali si può trovare che prima di essere Halloween (e, con buona pace dei vari cardinali, molto prima di essere Ognissanti) la notte tra il 31 ottobre e il primo dicembre era la notte di Samain, in cui, da migliaia di anni, le popolazioni europee celebravano la fine della ‘stagione chiara’ e l’inizio della ‘stagione scura’. In quanto momento di passaggio, essa costituiva ‘un tempo fuori dal tempo’, in cui tutto può accadere: soprattutto, allora, si aprivano le porte tra i mondi, e gli spiriti degli Antenati si mescolavano ai viventi. Poiché era espressione di un mondo eminentemente agricolo, non a caso la celebrazione della fine della ‘stagione chiara’ coincideva con la celebrazione di culti manici (dei defunti e degli antenati): i morti stanno sotto terra, e a seconda che i vivi manifestino o meno rispetto verso di loro, essi possono favorire o danneggiare i futuri raccolti. Tutto ciò che oggi, arricciando illuministicamente il naso, bolliamo come occultismo, stregoneria, superstizione eccetera, era in passato, ancora una volta, l’espressione di culti agricoli e contadini, i cui adepti, dopo l’Editto di Tessalonica – che nel 380 d.C. dichiarò il cristianesimo unica religione di stato, iniziando le persecuzioni contro la religione dei padri – si rifugiarono nei cantoni più isolati dell’Impero (i ‘pagi’, da cui, appunto, ‘pagani’), ‘occultando’ gli antichi simboli sotto riti apparentemente nuovi. Questi riti sono stati celebrati per millenni nelle campagne europee ed italiane, fino agli anni Cinquanta addirittura, prima che il cosiddetto Progresso distruggesse tutto regalandoci gli ipermercati. E, per finire, la zucca era, in questi riti, un antichissimo simbolo di vita e di resurrezione: per la forma e il colore, che ricordano quelli del Sole, e perché è colma di semi, fonte di nuova vita. Se poi davvero il porporato vaticano vuol combattere la scristianizzazione della società, allora doveva andare a farsi un giro nei non-luoghi che circondano le nostre città. Perché un centro commerciale che esponga addobbi di Natale a metà ottobre costituisce, prima che al buon senso, un’offesa a Dio.
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commento:
L'articolo è sostanzialmente buono. Non trovo che abbia senso la frase:
"Perché un centro commerciale che esponga addobbi di Natale a metà ottobre costituisce, prima che al buon senso, un’offesa a Dio.", non vedo perchè un dio si debba sentire offeso dal commercio. Nel paganesimo anche il commercio ha un suo dio: Ermes.
Non esistono attività sacre e attività profane.
Francesco Scanagatta

Dai Greci a oggi: storia di un concetto

Repubblica 14.11.06
Dai Greci a oggi: storia di un concetto
Noi, figure ridotte a semplici cose
di Mario Perniola
Ribellione. Il nostro corpo non è così remissivo e docile come lo immaginiamo. In esso si manifestano delle controvolontàRiflessi Gli specchi, i ritratti, le fotografie, perfino i film ci rimandano l´immagine del corpo. Creano il canone occidentale della bellezzaA prima vista, sembra che occuparsi dell´anima sia caduto in disuso. È il corpo che tiene la scena; è il corpo l´oggetto d´ogni cura, riguardo, premura. Se ci si occupa dell´anima, lo si fa in fondo in funzione del corpo, per garantire la sua salute, il suo benessere, la sua obbedienza alla nostra volontà. Anzi pare che questa parola non ammetta il plurale: l´unica cosa che m´interessa è il mio corpo e tanto più mi piace, quanto meno si fa sentire come qualcosa d´autonomo e di separato da me, quanto più è lo strumento di cui io posso disporre senza ostacoli o resistenze. Cos´è la salute se non proprio questo dominio sul corpo? Non parlo solo delle malattie vere e proprie: ma anche di quelle controvolontà che portano a mangiare in modo spropositato oppure a digiunare, a dormire troppo oppure a restare insonne, ad essere consumato dal desiderio sessuale oppure a rifuggirlo, a percorrere impetuosamente strade e attraversare paesi oppure a rimanere chiusi in casa con le persiane serrate facendo credere a tutti di essere fuori. E mi limito alle controvolontà più semplici e comuni, che sembrano emergere dalla resistenza del corpo al nostro dominio su di lui.Il rifiuto moderno di tutto ciò che si oppone alla nostra autonomia soggettiva, come i dispositivi disciplinari dei rituali, finisce con l´essere una ben strana condizione: in realtà, il nostro corpo non è così docile e remissivo come lo immaginiamo. Quelle controvolontà che si manifestano come resistenze al nostro supposto dominio su di lui sono appunto le dipendenze (nei confronti dell´alcool, della droga, del fumo, del sesso, dei tranquillanti, del cibo, del gioco...): esse ci richiamano ad una dimensione più opaca e più inorganica, più legata alle cose che non riesce a dissolversi nella totale ed incondizionata sottomissione all´anima. Fatto sta che questa prima concezione del corpo si esaurisce nell´anima senziente, ed è perciò un modo di esorcizzare la materialità del corpo, il suo essere una cosa che sente.È stato il poeta francese Paul Valéry ad affermare che esistono almeno tre diverse idee del corpo. La prima è quella che ho già esposto: essa si risolve nel sentimento della nostra presenza. Questo corpo è informe e noi prendiamo coscienza della sua alterità solo quando qualche parte si oppone alla nostra volontà, come quando siamo malati.Il secondo corpo individuato da Valéry è l´immagine che di lui ci rimandano gli specchi, i ritratti, le fotografie, i film. Esso è appunto forma ed è quindi connesso con le arti visuali. In questo senso, il corpo per eccellenza è quello umano che l´arte classica ha rappresentato in sculture che sono considerate come i canoni occidentali della bellezza. È quello che vediamo invecchiare fino al punto di ridursi in quella rovina in cui non vogliamo più riconoscerci.Il terzo corpo per Valéry è privo di una qualsiasi unità. E´ il corpo fatto a pezzi dai ferri dell´anatomia. Questa idea del corpo sembra il risultato della tecnica chirurgica moderna. In realtà i Greci dell´epoca omerica non avevano una parola per nominare il corpo nella sua unità: il corpo era percepito come un insieme di membra, una pluralità di parti, come mostrano le raffigurazioni dell´arte vascolare arcaica, nelle quali sono messi in evidenza soprattutto i muscoli delle gambe e delle parti carnose.Esiste tuttavia per Valéry l´idea di un quarto corpo, che si potrebbe chiamare indifferentemente corpo reale o corpo immaginario. Esso è per lui una costruzione concettuale non dissimile dalle nozioni elaborate dai fisici che spesso sono aldilà o aldiquà dei nostri sensi, della nostra immaginazione e perfino della nostra capacità di comprendereÈ questa un´idea a prima vista piuttosto fumosa di corpo. Ma essa proviene dall´insoddisfazione nei confronti delle prime tre idee. Mi sembra che queste non pensino davvero il corpo in quanto corpo. Nella prima ciò che conta è l´anima della quale il corpo è solo lo strumento: va perduta così la dimensione di "cosalità" del corpo, a favore di una concezione spiritualistica il cui centro è costituito dalla coscienza individuale. Nella seconda ciò che conta è l´immagine la quale mi allontana, non meno dell´anima, dall´esperienza della corporeità. Infine la terza idea del corpo pensa le membra come entità autonome, che per gli antichi Greci erano mosse da forze esterne.Tutte queste idee del corpo lo intendono come una incarnazione del vivente, un insieme di spiritualità e di vitalità. La parola tedesca Leib (corpo), affine a Leben (vita), esprime bene questo legame tra il corpo e l´esperienza di una sopraelevazione ideale. L´intuizione di un quarto corpo si muove in una direzione completamente differente. Essa scorge nella parola latina corpus qualcosa d´irriducibile ad una sublimazione estetico-spirituale, un aspetto più opaco, inorganico e "cosale", che si trova nella parola tedesca Körper; questo è un corpo non solo diverso, ma perfino opposto al Leib, una specie di controcorpo, se per corpo s´intende il corpo vivente. Fatto sta che il modello concettuale che suggerisce l´idea di un quarto corpo non è il corpo vivente, ma piuttosto la cosa, quindi non un oggetto, che implica l´esistenza di un soggetto (e perciò ci fa ricadere nella prima idea del corpo inteso come strumento dell´anima), ma proprio l´esperienza di una cosa che sente in modo impersonale.