Monday, April 28, 2008

Dalla tragedia classica di Clitennestra l'idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne

Corriere della Sera 28.4.08
Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura tradizionale dell'assoluzione del matricida Oreste e l'esempio del Sudafrica
Il mito che cancella la giustizia maschile
Dalla tragedia classica di Clitennestra l'idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne
di Eva Cantarella

Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell'infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell'Orestea di Eschilo.
La storia è nota: nell'Agamennone,laprima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l'assenza del marito, diventa l'amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell'amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l'Areopago, incaricato di giudicarlo: l'era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.
Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall'immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all'infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.
La prima sentenza dell'Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...».
Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l'ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l'identificazione della donna con la materia e dell'uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell'embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall'organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell'uomo, non può compiere l'ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l'apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo. In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l'archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.
E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell'archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini ( I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l'autrice in un'intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella ( Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto. Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell'Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo. Ma recentemente l'idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell'Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito). Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L'interpretazione secondo la quale l'assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.
Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all'estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto. Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l'azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l'ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali. Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l'altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L'intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l'amore, l'ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.
Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l'opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all'interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.

Sunday, April 27, 2008

L'occhio. Quel cuore che guarda e ci fa conoscere il mondo

La Repubblica 27.4.08
L'occhio. Quel cuore che guarda e ci fa conoscere il mondo
di Daniele del Giudice

Ha rappresentato la divinità e la conoscenza; è una metafora, un simbolo, un´ossessione. Mentre il libro di un famoso archeologo, per la prima volta tradotto, ci trasporta attraverso i millenni per ripercorrere l´uso culturale che è stato fatto di questo meraviglioso organo del nostro corpo, uno scrittore ci invita a sperimentare "il sentimento del vedere"

Sguardo penetrante, un tempo, non era un modo di dire, ma corrispondeva, per esempio in Marsilio Ficino e nei neoplatonici, all´idea che dall´occhio di chi guardava si dipartisse qualcosa che raggiungeva l´occhio del guardato, o della guardata, lo toccava, lo colpiva, lo impressionava, lo penetrava. Per questo, forse, le figure femminili in Dante e Petrarca tengono gli occhi bassi, non soltanto per pudore o riserbo della propria "anima", ma per non essere penetrate da ciò che muove dall´occhio altrui, preservando così un´ulteriore verginità. Il vedere non è dunque sempre vissuto come un atto incorporeo, né come una mancata relazione fisica con l´oggetto della visione. Piuttosto l´occhio governa e fa premio su tutte le percezioni, concentra tutto con un solo organo e un solo senso, escludendo gli altri. Nel nostro tempo il vedere, più che un atto, è diventato una azione, talvolta la nostra azione principale, spesso merce e lavoro: non si è mai guardato tanto e visto tanto, e mai così forte è stata l´illusione che non esista più alcun mistero, alcun invisibile.
Quando c´è l´immagine, non c´è la cosa. È un´eventualità che la filosofia stoica conosceva perfettamente, sebbene ritenesse che la cosa o la persona si fossero momentaneamente allontanate. Oggi, al contrario, le cose sembrano sparite sempre più, ed è l´immagine che è diventata indubbiamente cosa, oggetto di mestiere e di commercio. È difficile dire se tutto questo vedere consumi l´occhio. È possibile però che consumi i sentimenti. Le nostre emozioni davanti alle immagini, così come le opinioni che ci formiamo all´istante e poi lasciamo subito cadere, si accendono e bruciano in un attimo, totalmente intransitive, e incontrollabili come una salivazione. Non so da quando, ma le immagini hanno preso a scorrere come una specie di ritmo visivo, un ritmo di sottofondo, o meglio di rumore visivo di fondo, seguendo in questo il destino che fu già della musica e dell´ascolto. Vedere è un´azione, e ci sono le buone azioni e le cattive azioni. Cos´è un "buon" vedere? E cosa un "cattivo" vedere? Non posso pensare che dipenda dall´oggetto della visione; l´osceno, credo, non esiste, non c´è nulla di avverso, nulla che si "ponga contro" il nostro occhio. Dipende da noi, dal nostro modo di vedere che resta segreto, una questione del tutto privata.
A differenza delle altre azioni, non c´è nessuno a cui dobbiamo rendere conto del nostro occhio che vede, nessuno (se non un oculista, il quale tuttavia non cura l´anima e giudica solo in termini di metropia) che possa domandare: il suo occhio com´è? lei come vede? Per costruire un sentimento del vedere - poiché di questo si tratta - non c´è autorità di insegnamento né ci sono prove da superare, non precetti né consigli. Eppure è solo un sentimento del vedere, un cuore che guarda, che può redimere, se non noi stessi almeno le immagini che il nostro occhio percepisce.
René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra dedica un paragrafo all´occhio che vede tutto, nel capitolo sul simbolismo del cuore. Uno dei simboli comuni al cristianesimo e alla massoneria, ricorda, è il triangolo nel quale è inscritto il Tetragramma ebraico oppure lo iod che può esserne considerato un´abbreviazione, sorta di "terzo occhio", né destro né sinistro, un occhio frontale come quello di Shiva, né solare né lunare, corrispondente al fuoco, il cui sguardo riduce tutto in cenere perché esprime il presente senza dimensioni, cioè la simultaneità, e così distrugge ogni manifestazione.
L´occhio unico e senza palpebra è il simbolo dell´essenza della conoscenza divina. L´occhio unico del ciclope indica al contrario una condizione subumana. Come subumana è la condizione di Argo, Argo Panoptes, «che tutto vede», gigante con un solo grande occhio secondo alcuni miti, ma secondo altri con quattro, due davanti e due dietro, e secondo altri ancora con cento occhi (dormiva chiudendone cinquanta per volta) oppure con un´infinità di occhi disseminati sull´intero corpo, che non si chiudevano mai tutti insieme, una vigilanza rivolta esclusivamente all´esterno. Di una persona molto accorta i Greci dicevano che era un Argo oppure che aveva più occhi di Argo.
L´occhio umano è un simbolo universale di conoscenza, l´apertura degli occhi è un rito di apertura alla conoscenza, un rito di iniziazione. Ma l´occhio ha colpito l´immaginario comune innanzitutto per la sua forma ovale e per la sua condizione di luogo aperto/chiuso, da cui qualcosa può entrare e qualcosa può uscire. Nella lingua italiana l´occhio ha infinite declinazioni. Oltre che l´organo della vista e l´apparato visivo o anche la capacità di leggere bene, vuol dire, ad esempio, il foro aperto in una porta o una parete per spiare di nascosto, oppure la toppa della serratura, oppure i buchi nella mollica del pane ben lievitato, o ancora, in architettura, ogni apertura circolare o ellittica. Anche le chiazze naturali sulle piume, il pelo o la pelle di certi animali si chiamano occhi, come le macchie azzurre sulla coda del pavone, e anche le macchie evidenti sulla superficie di marmi o pietre. Occhi sono i dischi del capolino di una margherita o di un girasole, o i cerchi su una superficie liquida agitata. Alcune cose escono dagli occhi, e qualcuno può andare per occhio, cioè colare a picco con la sua nave.
L´occhio pineale è l´ossessione di Georges Bataille. Come lui stesso ricorda nella Critica dell´occhio, quest´idea risale al 1927 e risponde probabilmente alla sua concezione anale, cioè notturna, del disco solare. Scrive: «Mi raffiguravo l´occhio in cima al cranio come un orribile vulcano in eruzione, proprio con il carattere losco e comico che si attribuisce al di dietro e alle sue escrezioni. Ora l´occhio è senza alcun dubbio il simbolo del sole abbagliante, e quello che io immaginavo in cima al mio cranio era necessariamente infuocato, essendo votato alla contemplazione del sole al sommo del suo splendore». Scrive ancora: «Io non esitavo a pensare seriamente alla possibilità che quest´occhio straordinario finisse per farsi strada attraverso la parete ossea della testa, perché credevo necessario che dopo un lungo periodo di servilità gli esseri umani avessero un occhio speciale per il sole (mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con una specie di ostinazione stupida). Non ero pazzo ma davo senza dubbio eccessiva importanza alla necessità di uscire in una maniera o nell´altra dai limiti della nostra esperienza umana […]».
Buono o malvagio, qualunque sia il sentimento del suo vedere, l´occhio è sempre oggetto di acute inquietudini e suscita comunque emozioni contrastanti. Ancora Bataille, scrive che non c´è nulla di più seducente dell´occhio, nulla di più attraente nel corpo degli uomini e degli animali, e in questo appeal è simile al filo della lama. D´altra parte, la seduzione estrema è al limite dell´orrore, ed è forse quello che ha ispirato Salvador Dalì e Luis Buñuel nel film Chien andalou, dove un rasoio incideva l´occhio di una donna giovane e affascinante sotto lo sguardo di un uomo, ammirato fino alla follia, che tiene in mano un cucchiaino da caffè e improvvisamente ha voglia di prendersi un occhio nel cucchiaino. Voglia piuttosto singolare per un occidentale la cui cultura gli impedisce di mangiare l´occhio dei buoi, degli agnelli o dei maiali. È golosità cannibale, secondo l´espressione di Robert Louis Stevenson. Nessuno di noi morderebbe mai un occhio.
Ci sono quelli che non danno troppa importanza all´occhio e al suo vedere, e preferiscono sentire. Era appunto il caso di Stevenson nella sua ultima e appassionata discussione letteraria. Quando l´amico Henry James gli lamentò di non vedere nulla nel romanzo Catriona - «ho l´impressione di trovarmi in presenza di voci nell´oscurità, voci tanto più distinte e vivaci […] quanto lo sguardo resta occultato» - Stevenson gli rispose con una frase memorabile: «Ascolto le persone parlare e le sento agire, il racconto mi sembra questo. I miei due obbiettivi possono essere descritti così: 1. guerra all´aggettivo e 2. morte al nervo ottico». Secondo Stevenson «la letteratura è scritta per e da due sensi: una specie di orecchio interno, lesto a percepire melodie silenti, e l´occhio che - semplicemente - guida la penna e decifra la frase stampata. Ebbene, proprio come vi sono rime per l´occhio, così noterete che esistono assonanze e allitterazioni».
E poi ci sono quelli che preferiscono l´assenza dell´occhio, come José Saramago che ha scritto uno dei suoi migliori romanzi, Cecità, straordinaria metafora di una perdita del vedere nei nostri tempi. Quanto all´"occhio della coscienza", poco prima di morire, nel 1847, l´illustratore fantastico e caricaturista francese Jean-Ignace-Isidore Gérard, detto Grandville, sognò quest´occhio ossessionante e lugubre, occhio vivente e totalmente vigile. Lo raccontò in Crime et expiation, e Victor Hugo lo riprese.
L´aspetto assolutamente negativo dello sguardo invidioso, pieno di cattive intenzioni, l´occhio malevolo, cioè il malocchio, mal d´occhio, è ancora molto vivo nella cultura mediterranea. Ci sarebbero occhi particolarmente pericolosi, come quelli delle donne anziane, ma anche delle vipere o dei gechi, perché l´intero mondo animato partecipa di questa presa di potere su altro e altri. E particolarmente sensibili al malocchio sarebbero i bambini, le puerpere, il latte, il grano ma anche cavalli, cani e il bestiame in generale, perché il malocchio può uccidere gli animali. Come difendersi dal malocchio: con veli che nascondono allo sguardo, fumigazioni profumate, ferro rosso, sale, corni, mezzelune, ferri di cavallo, mani di Fatima.
Per la posizione nel corpo, e nella preminenza sulle percezioni del nostro mondo, l´occhio, il suo simbolo, la sua parola stessa si adeguano all´infinito: occhio del ciclone, occhiolino, occhiello, occhio di bue, occhio di gatto, locuzioni tutte riguardanti tutt´altro.

Saturday, April 26, 2008

Pianti e sorrisi come si mente fin da neonati

La Repubblica 26.4.08
Pianti e sorrisi come si mente fin da neonati
di Paola Coppola

In Gran Bretagna una psicologa dello sviluppo svela che i bimbi iniziano a ingannare molto prima dei 4 anni Lo fanno per attirare l´attenzione dei genitori, evitare i pericoli, essere premiati e accrescere l´intimità

Bugiardi non si nasce, ma si diventa poco dopo i primi vagiti. La dissimulazione prima di trasformarsi in un´arte, da adulti, è un istinto, un adattamento all´ambiente che i bambini sperimentano dai primi mesi di vita, quando sono ancora nella culla.
«Una forma di comunicazione» per Vasudevi Reddy, che all´argomento ha dedicato un libro "How infants know minds" appena pubblicato dalla Harvard University Press in cui descrive come e perché si finge in fasce.
A 8-9 mesi il bambino usa il pianto per attrarre l´attenzione della mamma o sorride perché intuisce che così avrà in cambio altri sorrisi. Cerca il consenso, vuole sedurre, attirare l´affetto e le simpatie di chi lo circonda. Anche se non ha compiuto un anno, sa essere sordo ai richiami dei genitori mentre gioca o, prima di imparare a parlare, simulare la più innocente delle espressioni per evitare un rimprovero.
La teoria della Reddy, che insegna Psicologia dello sviluppo all´Università di Porthsmouth (Gran Bretagna), riporta indietro il momento in cui si inizia a mentire. Modifica l´immagine del bimbo faccia d´angelo con il viso sporco di cioccolata che nega spudoratamente di aver mangiato i biscotti.
Dopo aver osservato decine di bambini tra le sette settimane e l´età prescolare, Reddy sostiene che «fin dalla nascita i bambini sviluppano relazioni emozionali con i genitori e che queste sono una sorta di carburante nel processo di crescita, che motiva l´azione, l´interazione e la comprensione».
La comunicazione ingannevole non verbale può servire diversi scopi: «Evitare pericoli, ricevere attenzione, essere premiati, salvare la faccia, evitare problemi, accrescere l´intimità emotiva con i genitori», chiarisce. Ha un ruolo anche nel processo di apprendimento perché «accresce nel bambino l´esperienza delle conseguenze delle proprie azioni».
Ad esempio, imparando a misurarsi con la reazione di sorpresa di mamma e papà davanti a una sua azione. Conclude Reddy: «L´idea che l´inganno sia un fenomeno che affonda le sue radici nell´infanzia sfida la convinzione che non può essere sviluppato fino a quattro anni e la tradizionale teoria della mente».
Recentemente diversi studi hanno rivalutato l´intelligenza dei bambini dai primi mesi di vita. «Sono empatici con gli altri: capiscono e si adeguano all´ambiente», dice Tilde Giani Gallino, docente di Psicologia dello sviluppo all´Università di Torino. «Già a un anno, comprendono le emozioni mostrate dagli adulti e rispondono con comportamenti adeguati». Ma, precisa, che ancora non si può parlare di vere e proprie bugie: «Si tratta di comportamenti che servono a raggiungere uno scopo e mostrano la capacità del bambino di sapersela cavare a seconda delle situazioni».
Le prime bugie compaiono più tardi, verso i due anni, quando si esprimono soprattutto attraverso gli atti. Nascondere un gioco sottratto a un compagno, un biscotto che la mamma ha vietato di mangiare. «In questa fase la bugia si esprime soprattutto attraverso la negazione», continua Giani Gallino. Poi crescendo, dopo i quattro anni, si articola con il linguaggio: ci sono quelle "per discolpa" che servono a evitare le punizioni e che dovrebbero sparire man mano che il bambino acquista quella fiducia nelle sue capacità che gli permette di ammettere l´errore. E ci sono le bugie "consolatorie": storie inventate che modulano la realtà secondo i propri desideri. Sono tipiche di quei bambini che si sentono infelici, trascurati, poco apprezzati o, al contrario, troppo perfetti.
Storie false come una prestazione eccellente durante una partita di calcio che invece non c´è mai stata, un viaggio mai fatto ma tanto desiderato con un genitore. «Le bugie consolatorie sono frequenti anche nei bambini troppo sicuri di sé che non sono disposti a dichiararsi perdenti», aggiunge Giani Gallino. «Talvolta la loro funzione è rivolta verso qualcun altro: il bambino mente per consolare un compagno oppure lo stesso genitore».

Sunday, April 20, 2008

La natura non è muta

La natura non è muta

di Eduardo Galeano

Il Manifesto del 18/04/2008

Il mondo dipinge nature morte, soccombono i boschi naturali, si sciolgono i poli, l'aria si fa irrespirabile e l'acqua imbevibile, si plastificano i fiori e il cibo, e il cielo e la terra diventano pazzi da legare.
E mentre tutto ciò accade, un paese latinoamericano, l'Ecuador, sta discutendo una nuova Costituzione. E in questa Costituzione si apre la possibilità di riconoscere, per la prima volta nella storia universale, i diritti della natura.
La natura ha molto da dire, ed è ora che noi, i suoi figli, la smettiamo di fare i sordi. Forse persino Dio ascolterà il richiamo che suona da questo paese andino, e aggiungerà l'undicesimo comandamento di cui si era dimenticato nelle istruzioni che ci diede sul monte Sinai: «Amerai la natura, della quale fai parte».

Un oggetto che vuol essere soggetto
Per migliaia d'anni, quasi tutta la gente ha avuto il diritto di non avere diritti.
Nei fatti, non sono pochi coloro che continuano a non avere diritti, ma almeno, adesso, si riconosce il diritto di averli; e questo è un po' più di un gesto di carità dei padroni del mondo per la consolazione dei loro servi.
E la natura? In un certo senso, per così dire, i diritti umani comprendono la natura, perché lei non è una cartolina da guardare dal di fuori; la natura sa bene che perfino le leggi umane migliori la trattano come oggetto di proprietà, e mai come soggetto di diritto.
Ridotta a mera fonte di risorse naturali e buoni affari, lei può essere legalmente ferita in modo serio, e perfino sterminata, senza che si odano i suoi lamenti e senza che le norme giuridiche impediscano l'impunità dei suoi criminali. Al massimo, nel migliore dei casi, sono le vittime umane a poter pretendere un indennizzo più o meno simbolico, e sempre dopo che il danno è stato fatto, ma le leggi non evitano né impediscono gli attentati contro la terra, l'acqua o l'aria.
Suona strano, no? Che la natura abbia diritti... Una follia. Come se la natura fosse una persona! Invece, suona normalissimo che le grandi imprese degli Stati Uniti godano di diritti umani. Nel 1886, la Suprema Corte degli Stati Uniti, modello della giustizia universale, estese i diritti umani alle corporazioni private. La legge riconobbe loro gli stessi diritti delle persone, il diritto alla vita, alla libera espressione, alla privacy e a tutto il resto, come se le imprese respirassero. Più di centovent'anni sono passati e continua ad essere così. Nessuno ci fa più caso.

Grida e sussurri
Non vi è nulla di strano, né di anormale, nel progetto che vuole includere i diritti della natura nella nuova Costituzione dell'Ecuador.
Questo paese ha subìto numerose devastazioni nel corso della sua storia. Per citare un solo esempio, per più di un quarto di secolo, fino al 1992, l'impresa petrolifera Texaco vomitò impunemente diciottomila milioni di galloni di veleno sulla terra, i fiumi e la gente. Una volta compiuta quest'opera di beneficenza nell'Amazzonia ecuadoriana, l'impresa nata in Texas celebrò il matrimonio con la Standard Oil. A quel tempo, la Standar Oil di Rockefeller era diventata Chevron ed era diretta da Condoleezza Rice. In seguito, un oleodotto trasferì Condoleezza Rice alla Casa Bianca, mentre la famiglia Chevron-Texaco continuava ad inquinare il mondo.
Ma le ferite aperte nel corpo dell'Ecuador dalla Texaco e altre imprese non sono l'unica fonte d'ispirazione di questa grande novità giuridica che si cerca di portare avanti. Inoltre, e non è poco, la rivendicazione della natura fa parte di un processo di recupero delle più antiche tradizioni dell'Ecuador e di tutta l'America. Si propone che lo Stato riconosca e garantisca il diritto di mantenere e rigenerare i cicli vitali naturali, e non è un caso che l'assemblea costituente abbia iniziato a identificare i suoi obiettivi di rinascita nazionale con l'ideale di vita del «sumak kausai». Il che significa, in lingua quichua, vita armoniosa: armonia fra di noi e armonia con la natura, che ci genera, ci alimenta e ci protegge e che ha vita propria, e valori propri, che vanno oltre.
Quelle tradizioni continuano ad essere miracolosamente vive, nonostante la pesante eredità del razzismo che in Ecuador, così come in tutta l'America, continua a mutilare la realtà e la memoria. E non si tratta solo del patrimonio della sua numerosa popolazione indigena, che seppe perpetuarle nel corso di cinque secoli di proibizione e di disprezzo. Appartengono a tutto il paese, e al mondo intero, queste voci del passato che aiutano a indovinare un altro futuro possibile.
Quando la spada e la croce sbarcarono in terre americane, la conquista europea castigò l'adorazione della natura, che era peccato di idolatria, con le frustate, la forca o il fuoco. La comunione fra la natura e la gente, un costume pagano, fu abolita in nome di Dio e poi in nome della Civiltà. In tutta l'America, e nel mondo, continuiamo a pagare le conseguenze di quel divorzio obbligatorio.

Copyright IPS/il manifesto
trad. Marcella Trambaioli

Saturday, April 19, 2008

Le utopie hanno rubato il futuro. «Ora cambiamo il mondo senza doverlo immaginare»

Corriere della Sera 19.4.08
L'antropologo Marc Augé descrive come si pensano le soluzioni nell'era dell'esistenzialismo pratico
Le utopie hanno rubato il futuro. «Ora cambiamo il mondo senza doverlo immaginare»
di Marc Augé

Il tema del migliore dei mondi deve situarsi in rapporto ai due tipi di miti apparsi nella storia: i miti di origine, fondatori delle religioni, di cui i filosofi occidentali hanno potuto dire che la modernità del XVIII secolo li aveva uccisi, e i miti del futuro, i grandi racconti fondatori delle ideologie politiche progressiste, che la storia del XX secolo avrebbe fatto scomparire.
Le due declinazioni del tema dell'altro mondo presentano paradossi, differenze e similitudini. Le utopie laiche possono apparire più generose e disinteressate delle religioni di salvezza, poiché non promettono alcuna ricompensa individuale a breve termine e non si interessano alla morte individuale. Ma entrambe hanno conseguenze nel mondo attuale (se designiamo con l'espressione «mondo attuale» il mondo in cui viviamo e con l'espressione «mondo virtuale» il mondo che le religioni o le utopie pretendono di sostituirgli). Le religioni di salvezza, infatti, accordano importanza alle «opere»; quanto alle utopie laiche, esse sono state spesso legate a filosofie della felicità che hanno cambiato il rapporto con la vita «mondana». Storicamente, le une e le altre sono state sovente, per una moltitudine di individui, un modo di vivere il mondo attuale piuttosto che un modo di cambiarlo.
Forse l'attualità ci invita a sfumare il tema della fine dei due tipi di miti. Se è vero che l'esistenza di forme aggressive di religione (islamismo, evangelismo) può farci temere un XXI secolo dilaniato da concezioni opposte e ugualmente retrogradi del mondo — il che smentirebbe il tema della fine dei miti di origine e del trionfo della modernità —, non bisogna sottovalutare l'aspetto politico delle nuove affermazioni religiose, né il loro aspetto reattivo. Forse la modernità è ancora da conquistare e noi siamo al centro di una crisi che in realtà è simile a una fine. Inoltre, se è bene constatare l'indebolimento delle proiezioni politiche di vasta portata, non sono da escludere sorprese in questo campo; le concezioni dominanti non sono più sicure delle loro precorritrici, e l'assenza o l'indebolimento di rappresentazioni costruite dell'avvenire può costituire un'opportunità per cambiamenti effettivi che si sono nutriti dell'esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo pratico. Le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto i rapporti di sesso e i modi di comunicare (la pillola, Internet), non sono nate dall'utopia, ma dalla scienza e dalle sue conseguenze tecnologiche. L'esigenza democratica e l'affermazione individuale prenderanno probabilmente strade inedite che solo oggi intravediamo.
Dall'inizio del XX secolo, la scienza ha compiuto progressi accelerati che oggi ci lasciano scorgere prospettive rivoluzionarie. Nuovi mondi cominciano ad aprirsi davanti a noi: da un lato, l'universo, le galassie (e questo cambiamento di scala non sarà privo di conseguenze, a termine, sull'idea che ci facciamo del pianeta e dell'umanità); dall'altro, il confine tra la materia e la vita, l'intimità degli esseri viventi, la natura della coscienza (e queste nuove conoscenze comporteranno una ridefinizione dell'idea che ogni individuo può farsi di se stesso). Quello che sapremo del mondo cambierà il mondo, ma questi cambiamenti sono oggi inimmaginabili; non possiamo sapere, per esempio, quali saranno i progressi della scienza entro i prossimi trenta o quarant'anni.
A tal proposito, due osservazioni: 1) Se nel campo dell'educazione non si realizzeranno cambiamenti rivoluzionari, c'è il rischio che l'umanità di domani si divida fra un'aristocrazia del sapere e dell'intelligenza e una massa ogni giorno meno informata su quello che la conoscenza comporta. Questa disuguaglianza riprodurrebbe e moltiplicherebbe la disuguaglianza delle condizioni economiche. L'educazione è la priorità delle priorità.
2) Le conseguenze tecnologiche della scienza sono come una seconda natura. Le immagini e i messaggi ci circondano e ci rassicurano, ci alienano dal nuovo ordine delle cose senza necessariamente darci i mezzi di comprenderlo. È qui il rischio connesso a ciò che ho chiamato «cosmotecnologia». Essa ci dà l'illusione che il mondo sia finito. Aiuta a vivere, ma può anche essere il passaggio che apre a tutti gli sfruttamenti se coloro che alla cosmotecnologia si richiamano non hanno una coscienza esatta del suo ordinamento.
La scienza non ha bisogno di disuguaglianze, né di dominazione. Se, di fatto, dipende dai politici che la finanziano, e in larga misura la orientano, la scienza risponde di diritto solo al desiderio di conoscere. Riguardo a questa esigenza, la miseria e l'ignoranza sono fattori di ritardo. Un mondo che ubbidisse soltanto all'ideale di conoscenza (e di educazione) sarebbe più giusto e insieme più ricco. Constatare che la scienza cambia il mondo significa ammettere che non esiste un altro mondo se non quello che stiamo cambiando; un mondo che, in sé, è al tempo stesso fine e finalità.
(Traduzione di Daniela Maggioni)

Friday, April 18, 2008

Lorenz, l’uomo che aveva capito il caos

l’Unità 18.4.08
Lorenz, l’uomo che aveva capito il caos
di Andrea Barolini

È MORTO l’altro ieri a Cambridge il meteorologo che teorizzò il funzionamento dei fenomeni complessi. Celebre la sua frase «il battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un tornado in Texas?»

Forse oggi - anche per chi non ha studiato fisica né si è mai chiesto come funzionino le previsioni del tempo - la frase «può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un tornado in Texas?» non sembra più una provocazione. Quando Edward Lorenz la pronunciò (ufficialmente) per la prima volta, il 29 dicembre del 1979 alla conferenza annuale dell’American Association for the Advancement of Science, il mondo non conosceva l’effetto serra (per lo meno al di fuori del mondo accademico), i ghiacciai sulle montagne resistevano e il clima non aveva dato segni di squilibrio allarmanti. Era difficile, insomma, comprendere come i comportamenti collettivi potessero avere conseguenze globali. Figuriamoci quelli individuali. Figuriamoci il battito d’ali di una farfalla. Eppure lo scienziato americano aveva ragione. Tanto che la sua «teoria del caos» ha rivoluzionato, dagli anni 60 ad oggi, tutte le discipline scientifiche. «Ha messo fine all’universo cartesiano e ispirato la cosiddetta terza rivoluzione scientifica del ventesimo secolo, dopo le teorie della relatività e della fisica quantistica», ha spiegato Kerry Emanuel, docente di scienze atmosferiche al Massachusetts Institute of Technology.
Lorenz è morto mercoledì, novantenne, nella sua casa di Cambridge. Era nato nel 1917 a West Hartfort, nel Connecticut; si era laureato in matematica prima al Dartmouuth College nel 1938 e due anni più tardi ad Harvard. «Da ragazzo ero sempre stato interessato ai numeri, e insieme affascinato dai cambiamenti del tempo», scrisse più tardi. Nel 1943 si era specializzato come meteorologo al Mit. Proprio come meteorologo, poté approfondire la materia in tempo di guerra (la seconda mondiale), mentre prestava servizio per l’aeronautica americana. Dimostrò già allora ciò che è oggi noto a chi si occupa di previsioni del tempo. E cioè che i modelli matematici (che simulano, sulla base di equazioni fisiche, le condizioni dell’atmosfera nel futuro prossimo) hanno dei limiti temporali di previsione. L’attendibilità, infatti, è superiore all’80% solo nei primi tre - quattro giorni.
Quello che è passato alla storia come l’«effetto farfalla» - citato anche in best seller come Jurassic Park di Michael Crichton - saltò agli occhi di Lorenz nel corso di un programma di simulazione del clima che si basava su dodici variabili. Lo scienziato scoprì che, ripetendo la stessa simulazione ma modificando (seppur di pochissimo) i valori immessi, l’elaborazione finale fornita dal computer si discostava notevolmente dai risultati precedenti. In quegli anni creò una sorta di modello-giocattolo della meteorologia: il suo computer non aveva memoria né velocità sufficienti per elaborare una simulazione realistica del comportamento dell’atmosfera. Anche in questo caso i risultati forniti dalla macchina non erano mai gli stessi. Per quanto si trattasse di modelli ricorrenti, in ogni ripetizione variavano sempre alcuni elementi. Erano, appunto, imprevedibili. Da qui l’intuizione della teoria del caos.
Sulla scorta di quei risultati, nel 1963 Lorenz pubblicò un articolo intitolato Deterministic Nonperiodic Flow in cui - partendo da un modello dinamico non lineare per la descrizione dei moti convettivi nell’atmosfera (ovvero la circolazione delle correnti) - descriveva il fenomeno del «caos deterministico». Le conclusioni alle quali giungeva erano simili a quelle descritte dal matematico francese Henri Poincaré (precursore del relativismo einsteiniano) 60 anni prima. Ma suscitarono grande scalpore per la loro «graficizzazione» (il renderle immagini, attraverso l’elaborazione al computer) e per l’interesse di cui già godeva la meteorologia anche al di fuori dei circoli accademici.
Le sue intuizioni gli sono valse numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Kyoto per le scienze applicate per aver dato vita ad «una rivoluzione pari a quella di Isaac Newton nel modo con cui l’uomo vede la natura», si legge nelle motivazioni.
Ma non il Nobel, perché la meteorologia non è tra le discipline premiate. E forse è ora che lo diventi…

Saturday, April 12, 2008

La spedizione baltica contro i miscredenti del Nord nel racconto di Enrico di Lettonia, soldato cronista

Ettore Cinnela - Il Foglio, 13-8-2005
La spedizione baltica contro i miscredenti del Nord nel racconto di Enrico di Lettonia, soldato cronista
E’ uscita la prima traduzione italiana del “Chronicon Livoniae”, nel quale si descrive la conversione forzata alla fede cristiana dei popoli di quelle terre lontane


Tutti sanno che l’Europa come oggi la conosciamo, con le sue etnie e nazioni, è venuta formandosi nell’Alto Medioevo, all’epoca delle grandi migrazioni di popoli (le cosiddette “invasioni barbariche”) e della propagazione del cristianesimo nel nostro continente. Molti pensano che quel secolare e travaglioso e grandioso processo storico si sia concluso, prima del fatidico anno Mille, con la fine delle incursioni ungare e vichinghe e con la conversione della Polonia (966) e della Russia di Kiev (988) alla religione cristiana (che, a quei tempi, aveva bensì due centri propulsori, Roma e Bisanzio, ma poteva considerarsi ancora unitaria). Questa è, infatti, l’immagine che la maggior parte dei libri di storia trasmette a studenti e lettori. Poche avarissime righe, solitamente, vengono dedicate al vasto e variegato mondo baltico il quale, per qualche secolo, restò ancora pagano ed entrò assai più tardi nel concerto degli Stati cristiani dell’Europa medievale.
Un malinconico destino ha segnato le vicende storiche di questa parte del nostro continente la quale, pur possedendo anch’essa una propria vigorosa ancorché multiforme identità, ha sempre dovuto difenderla con eroici sforzi dalla minaccia di vederla cancellata e ignorata. Del resto, ancor oggi, le piccole e vivaci nazioni baltiche sono misconosciute e neglette. Eppure, la costruzione dell’unità europea, da salvaguardare contro i gretti pregiudizi e interessi che contro di essa cospirano, si consolida anche scoprendo le peculiari fattezze delle tante nazioni (grandi o piccole che siano), riconoscendo a ciascuna di loro pari dignità e rinunciando all’imperialismo e al provincialismo culturali, l’uno non meno ottuso e nefasto dell’altro.
Un libro meritorio uscito da poche settimane getta luce su un’antica, ma oltremodo significativa, vicenda storica che vide protagoniste la Lettonia e le limitrofe regioni del Baltico (Enrico di Lettonia, “Chronicon Livoniae. La crociata del Nord (1184-1227)”, a cura di Piero Bugiani, prefazione di Pietro U. Dini, edito da Books & Company ). Si tratta d’una cronaca medievale, scritta in latino quasi otto secoli fa e adesso offerta per la prima volta al pubblico italiano nel testo originale e in traduzione, nonché con il corredo d’un solido apparato critico e storico. Come scrive nella premessa il baltista Pietro U. Dini, “questa cronaca, scritta verso il 1225 da Enrico di Lettonia, sarebbe banalmente attuale ­ considerato il recente ingresso delle tre Repubbliche baltiche nell’Unione Europea ­ se non fosse avvenuto che, sulla scorta delle vicende politiche del Novecento, proprio questi popoli e nazioni furono private, e per oltre mezzo secolo, del loro passato, prossimo e remoto, tale che ancor oggi esse sono oggetto di confusione reciproca o comunque di approssimativa conoscenza”.
Chi era Enrico di Lettonia e perché la sua Cronaca è, dopo tanti secoli, un testo fresco e avvincente, oltre che una fonte storica di primaria importanza? Su di lui scarsissime sono le notizie in nostro possesso, per lo più desunte dal testo stesso. Gli studiosi dibattono ancora se l’ecclesiastico autore del “Chronicon Livoniae” fosse tedesco oppure originario della Lettonia; chi è curioso di sapere su quali argomenti si basino le due ipotesi, non ha che da leggere, in questa eccellente edizione italiana, l’ampia introduzione e l’erudito commento storico-filologico di Piero Bugiani (un latinista, che è anche tra i pochissimi in Italia ad aver contezza del mondo ugrofinnico). Certo si è che lo scrupoloso e sveglio cronista conosce bene i fatti narrati, per avervi partecipato o per averne avuto notizia da protagonisti e testimoni. E’ lo stesso Enrico a dircelo: “Non è stato aggiunto nient’altro, se non quelle cose che quasi per intero abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che non abbiamo visto con i nostri occhi lo abbiamo appreso da coloro che lo videro e furono presenti”.
Allora come oggi, sono i cronisti e i giornalisti (quelli seri e bravi, s’intende) che, come segugi, vanno a caccia dei fatti del mondo, facendo incetta di palpitanti testimonianze e raccogliendo una documentazione diretta (che gli storici accademici poi rielaborano, a tavolino, mescolandole spesso con le proprie passioni e ubbie). Sempre essi svolgono un umilissimo e fruttuoso lavoro di scoperta e d’indagine; e, talvolta, sanno ergersi sopra i fatti narrati con un’originale visione critica. In fondo, gli storici migliori sono i testimoni e i cronisti i quali, oltre a metter insieme un vasto e attendibile materiale, sono altresì in grado di riflettere sulle cose viste e vissute, fondendo mirabilmente racconto e interpretazione. Non sono forse Tucidide e Polibio i più grandi storici contemporaneisti di tutti i tempi? E, per rammentare alcuni esempi a noi più vicini, pregevolissimi e ammirevoli (oltre che narrativamente felici) sono lo studio del giornalista americano William H. Chamberlin sulla rivoluzione russa, il libro di Angelo Tasca sulla nascita e avvento del fascismo, e l’affresco del grande reporter William L. Shirer sull’ascesa e caduta del Terzo Reich.
Anche i cronisti migliori sono, inevitabilmente, uomini di parte con le loro inclinazioni e simpatie politiche e ideologiche; importante è che riferiscano con scrupolo, senza nulla celare, i fatti ai quali essi assistono o dei quali vengono a conoscenza. Uomo di parte Enrico di Lettonia lo era senz’altro: nella crociata contro i pagani del Nord, da lui vissuta e narrata, egli non aveva dubbi sulla necessità di convertire ­ con le buone o con le brutte ­ i popoli baltici alla fede in Gesù Cristo. La sua Cronaca è, dalla prima all’ultima pagina, pervasa d’empito missionario e di reverente ammirazione per il vescovo di Brema Alberto, ch’era il grande ispiratore e regista della crociata contro i miscredenti del Baltico. Ma se si fosse limitato a infiorare la sua prosa di prediche e fervorini, così diffusi nella letteratura edificante del Medioevo, Enrico avrebbe lasciato ai posteri l’ennesima testimonianza della peculiare fede di quei tempi di forti passioni religiose. Egli ha invece scritto una cronaca insieme minuziosa e appassionante, capace di far rivivere al lettore d’oggi i crudelissimi fatti d’arme (nonché i complicati giochi politici) svoltisi, otto secoli or sono, sullo sfondo dei maestosi e lividi paesaggi del Baltico.
Enrico non nasconde la verità sull’inaudita ferocia con la quale furono condotte le crociate contro i popoli ancora pagani delle plaghe nordiche. Ecco come egli descrive la spedizione cattolica contro la provincia estone di Saccala (1208): “Trovarono uomini, donne, bambini nelle loro case in ogni villaggio e paese. Uccisero da mattina a sera quelli che incontravano, anche donne e fanciulli, oltre a trecento tra i migliori uomini e capi della provincia di Saccala, senza contarne innumerevoli altri, finché le mani e le braccia degli uccisori, stanche per la straordinaria strage di popolo, non furono esauste. Con tutti i villaggi colorati dal sangue copioso dei pagani, il giorno seguente si ritirarono e da ogni borgo, raccogliendo molteplici prede, portarono via numerose bestie da soma, diverse greggi e tantissime fanciulle: gli eserciti in quelle terre risparmiano solo loro”. Al tempo dell’incursione sopra descritta, la Livonia (com’era allora chiamata l’odierna Lettonia assieme ad altre terre limitrofe) era stata, sia pure da pochissimo, cristianizzata e guidava le campagne contro i bellicosi popoli pagani (anzitutto lituani ed estoni), i quali non riconoscevano l’autorità religiosa e politica della Chiesa di Roma (e neppure di quella di Bisanzio). L’energico promotore della cristianizzazione del Baltico era stato il “venerabile Alberto” che, appena consacrato vescovo di Brema (nel 1198 o nel 1199), arruolò centinaia di uomini per la spedizione in Livonia. Fu deciso, per rimarcare l’importanza della spedizione, che i beni dei pellegrini diretti nelle terre baltiche fossero poste sotto la protezione del Papa il quale, “comandando il pellegrinaggio in Livonia per la remissione plenaria dei peccati, lo equiparò al viaggio verso Gerusalemme”. Alberto fondò poi, nel 1201, la città di Riga “in un pianoro spazioso, presso il quale ci poteva essere un porto per le navi”; e, come apprendiamo ancora dal Chronicon, “dedicò la sede episcopale e tutta la Livonia a Maria, Madre santissima di Dio”. Se Alberto fu la mente ispiratrice delle campagne contro i pagani, il braccio armato della violenta cristianizzazione fu l’Ordine dei cavalieri Portaspada (i Fratelli della milizia di Cristo), ai quali (sono sempre parole di Enrico) “il papa Innocenzo diede come regola quella dei Templari e, come segno da portare sulla veste, la spada e la croce” legandoli “in obbedienza al loro vescovo”. Della crociata del Nord si discusse anche durante il concilio Laterano IV del 1215, durante il quale Alberto perorò la causa della Livonia, “la terra della Madre”, ricevendo l’approvazione e la benedizione di papa Innocenzo III. All’inizio del Tredicesimo secolo il mondo baltico era assai diverso da come oggi lo conosciamo. Le numerose e variegate etnie ugrofinniche e baltiche occupavano uno spazio immenso, che andava dalla Germania nordorientale ai territori intorno alla città russa di Novgorod; e anche la regione della Volga era popolata da tribù ugrofinniche. Nell’odierna Europa solo in tre nazioni (Finlandia, Estonia e Ungheria) si parlano idiomi ugrofinnici; e in Russia sopravvivono, soprattutto lungo il medio corso della Volga, piccole minoranze etniche (come i mordvini e i mari) appartenenti al ceppo ugrofinnico. Quanto alle lingue baltiche (queste, sì, appartenenti alla famiglia indoeuropea), esse si possono ascoltare solo nelle piccole Lituania e Lettonia. Eppure, basta aprire un buon atlante storico del Medioevo per scoprire che baltici erano anche i prussiani, prima che fossero annientati e germanizzati dai cavalieri dell’Ordine teutonico. I lituani occupavano allora un territorio ben più vasto di quello ch’essi oggi abitano; e, fino agli albori dell’età moderna, il granducato di Lituania avrebbe costituito un’importante formazione storico-politica (la più importante e interessante dell’Europa orientale), dando vita a uno Stato multietnico e multireligioso (di sudditi sia cattolici sia ortodossi) improntato alla più lungimirante (per quei tempi) tolleranza. Studiare questo mondo ignoto e affascinante non è solo un dovere intellettuale per chi voglia scoprire e conoscere (al di là delle frasi fatte e delle immagini oleografiche) la complessa e variegata e originale civiltà europea; è altresì un atto di giustizia verso popoli che, pur contribuendo tanto all’edificazione europea, sono stati per secoli espropriati della loro storia e della loro identità.
“La storia è la più crudele di tutte le dee”, amava dire il vecchio Frierdich Engels, che accettava come ineluttabile l’esoso prezzo del progresso e dell’incivilimento, i quali esigerebbero sempre caterve d’innocenti vittime sacrificali. Senza sposare l’amara visione trionfalistica dell’amico di Marx, possiamo prender atto del fatto che l’ingresso dei popoli baltici nell’Europa cristiana avvenne in modo violento e traumatico (come risulta anche dalla rievocazione di Enrico di Lettonia, cronista insieme scrupoloso e partigiano, veritiero e focoso, onesto e passionale). Ma, una volta entrati in Europa, quei popoli non ne sortiranno più, malgrado l’arcigno destino storico che, tante volte, li metterà a durissima prova.
Se mi è consentito fare un’osservazione che va al di là del Chronicon, di cui ho finora parlato, vorrei rimarcare un tratto distintivo del mondo baltico in senso lato il quale, pur costituito da realtà etnolinguistiche e storico-culturali fra loro diversissime, può considerarsi una grande realtà unitaria. I tre Stati che da poco sono entrati nell’Unione europea (Estonia, Lettonia e Lituania) hanno avuto esperienze storiche differenti l’una dall’altra; e in essi si parlano idiomi baltici e ugrofinnici. Eppure, questi Stati fanno parte d’una comune civiltà, che si discosta in maniera nettissima dalla limitrofa e invadente Russia. Ma anche nel reame di Vladimir Putin, erede mutilato dell’impero zarista e di quello sovietico, sorge oggi non lontano dalle rive del Baltico un moto di protesta e d’opposizione, che dobbiamo seguire con trepidazione e speranza. Negli ultimi mesi Novgorod ha fatto sentire la sua voce lanciando un’aperta sfida alle autorità di Mosca: “Noi, cittadini della libera Repubblica di Novgorod che fu annessa illegalmente dagli zar moscoviti nel 1471-1479, dichiariamo di non riconoscere il regime d’occupazione moscovita quale che esso sia, zarista, sovietico, “democratico” o presidenziale”.
Ai tempi in cui Enrico di Lettonia scriveva la sua cronaca, l’ortodossa repubblica di Novgorod si estendeva su un’area immensa ed era, tra l’altro, in guerra con gli ordini cavallereschi cattolici che stavano assoggettando le terre baltiche. Ma aveva libere istituzioni e magistrature (somiglianti, per certi versi, a quelle delle nostre repubbliche marinare) e manteneva fiorenti relazioni commerciali con le città tedesche della Lega anseatica. Inoltre, al pari delle terre baltiche, Novgorod fu risparmiata dalle feroci orde mongole, che portarono stragi e devastazioni nei principati russi. Insomma, pur difendendosi ­ nel bellum omnium contra omnes dell’epoca ­ dalle mire espansionistiche di scandinavi e tedeschi, la fiera repubblica del Nord ebbe un destino ben diverso dal resto della Russia, fino a quando venne conquistata e umiliata dal sovrano moscovita Ivan III il Grande (1478). Proprio le sue secolari e peculiari tradizioni di politica interna ed estera spiegano l’odierna proclamazione d’autonomia, che a qualche osservatore superficiale sarà parsa buffa e folcloristica.
Porterà “l’alternativa di Novgorod” (come vien detta) ad un rinnovamento democratico della Russia? Non è qui il caso di far profezie. Ma una cosa è certa. Quest’alternativa, che potremmo anche chiamare “alternativa baltica”, affonda le sue radici storiche in un’epoca e in un mondo che giova a tutti conoscere.

Ettore Cinnella
Docente di Storia contemporanea e Storia dell’Europa orientale all’Università di Pisa

Friday, April 11, 2008

Il grande Pan non è morto

Il grande Pan non è morto

Il grande Pan non è morto,
è solo emigrato
in India.
Qui gli dei vagano liberamente,
travestiti da serpenti o scimmie;
ogni albero è sacro
ed è blasfemo
trattare senza cura un libro.

È peccato allontanare un libro
con il piede,
è peccato sbatterlo violentemente
contro un tavolo,
è peccato abbandonarlo con trascuratezza
dall'altra parte della stanza.
Si deve imparare a voltare le pagine con delicatezza,
senza disturbare Sarasvati,
senza offendere l'albero
il cui legno è materia prima della carta.

Sujata Bhatt

CAMPANIA Il tempio di Apollo torna a vivere a Teano


CAMPANIA Il tempio di Apollo torna a vivere a Teano
Elio Zanni
10/04/2008 IL MATTINO

Sotto una quantità indeterminata di terreno e detriti di varia natura (pure questi ritenuti archeologicamente interessanti) il Teatro Romano di Teanum Sidicinum gelosamente custodiva, con rara integrità, un'altra testimonianza del glorioso passato del territorio sidicino: il Tempio di Apollo. I saggi preliminari e i reperti rivenuti casualmente dagli agricoltori del posto nel corso degli anni lo lasciava solo velatamente supporre. Negli ambienti ufficiali, tra gli esperti, non aleggiava alcuna sicurezza o asserzione che potesse dare il destro a qualche azzardo scientifico. Solo oggi, studiosi e archeologi possono parlare con dovizia di particolari del nuovo tesoro dell'Umanità emerso da quello scrigno di prove sicure del passato costituito dal Teatro Romano di Teano. Teatro che proprio grazie all'integrità delle strutture sceniche, sfuggite al cannibalismo edile perpetrato fino al XIII secolo, è stato di recente riconosciuto da esperti d'indiscussa fama nella «Carta di Siracusa» (documento archeologico di valore internazionale) come «tra i più grandi se non addirittura il più importante dei teatri antichi del Mediterraneo». Si amplia così la visuale, salvo ulteriori felici e benaccette sorprese, dell'intera superficie del Teatro. Ora con una sola occhiata è possibile scorgere la cavea dalle caratteristiche arcate sovrapposte all'edificio scenico e il terrazzo che prelude proprio al riemerso tempio risalente, secondo le prime stime, agli inizi del II secolo a.C. e dedicato ad Apollo. dio della medicina, della musica e della profezia venerato anche in epoca romana. «L'edificio è stato messo in luce grazie alla campagna di scavo che sta per concludersi proprio in questi giorni. Al sito sarà possibile accedere, in via del tutto eccezionale e per alcune ore domenica prossima a partire dalle ore 11», come tiene a precisare Francesco Sirano, direttore dell'Ufficio Archeologico di Teano. Sirano, responsabile del Museo e autore dell'ultima e più recente «Guida al Museo» si è offerto come cicerone d'eccezione per la singola giornata a prenotazione obbligatoria, che è possibile perfezionare chiamando agli uffici della Soprintendenza che rispondono ai numeri di telefono 0823.657302 e 081.4422273. Un'occasione unica, visto che subito dopo il sito sarà sbarrato per consentire ai tecnici l'allestimento dei luoghi che secondo programma saranno concessi alla definitiva pubblica fruizione, anche se la data resta ancora da definire (si pensa agli inizi di ottobre). Sarà anche possibile prendere visione degli atti del convegno di Siracusa del 2004 che ha visto tra gli altri illustri relatori proprio l'archeologo Sirano secondo il quale «la ricerca scientifica addensata nella Carta archeologica pone finalmente nella giusta luce e sulla meritata ribalta il Teatro Romano di Teano».

Monday, April 07, 2008

Paleoantropologia. Nuove scoperte su l’Orrorin tugenesis

l’Unità 7.4.08
Paleoantropologia. Nuove scoperte su l’Orrorin tugenesis
Camminava eretto 6 milioni di anni fa
di Davide Ludovisi

Nel 2000 in Kenia sono stati scoperti dei fossili che hanno scatenato da subito un intenso dibattito scientifico. Si trattava dei resti di un antenato umano risalente a sei milioni di anni fa, chiamato Orrorin tugenesis. Ora nuove analisi fatte dagli antropologi statunitensi Brian Richmond della George Washington University e da William Jungers della Stony Brook University di New York e pubblicate su Science, rivelano che già sei milioni di anni fa questo ominide era in grado di avere una deambulazione eretta. Le ossa fossili hanno infatti rivelato una notevole somiglianza con le analoghe strutture di Australopithecus e Paranthropus, che risalgono a un periodo ben più recente, tra i tre e i due milioni di anni fa.
Il paleontologo francese Martin Pickford, del Collège de France, che assieme alla collega Brigitte Senut ha scoperto i resti dell’Orrorin tugenesis, si dichiara soddisfatto: «Io e i miei colleghi abbiamo sempre sostenuto che l’Orrorin fosse bipede. All’inizio alcuni scienziati non concordarono con noi, ma la maggior parte ora si sono ricreduti».
«I nuovi studi lo confermano: i resti femorali dell’Orrorin suggeriscono che avesse un’andatura bipede e ciò lo rende un antico ominide», non una semplice scimmia, quindi, spiega Daniel Gebo, antropologo della Northern Illinois University e noto esperto di bipedismo. Le prime Tac sulle ossa dell’anca dell’Orrorin avevano fatto avanzare l’ipotesi che possedesse una postura simile alla scimmia, per potersi arrampicare sugli alberi. Gli scienziati americani, analizzando i femori di Orrorin e confrontandoli con quelli di altri ominidi fossili, delle grandi scimmie e dell’uomo, hanno invece concluso che l’articolazione dell’anca del nostro vecchio progenitore era perfettamente adatta a un’andatura bipede, andatura che venne mantenuta senza grossi cambiamenti per i successivi quattro milioni di anni.
«Lo studio dimostra che l’andatura eretta è una delle primissime caratteristiche umane ad essersi evoluta», racconta Brian Richmond. «Queste analisi confermano che i nostri primi progenitori erano adatti a camminare su due gambe già circa sei milioni di anni fa, appena dopo la separazione tra gli umani e gli scimpanzé». Il successo della nostra specie deve molto all’ottimo design delle nostre anche, quindi.
«Avere la prova che Orrorin sia stato uno dei primissimi antenati umani con un’andatura eretta è molto importante perché vogliamo conoscere le cause per le quali a un certo punto i nostri antenati si sono differenziati da quelli degli scimpanzé», spiega John Hawks, paleoantropologo dell’University of Wisconsin. «Ora - continua Richmond - la nuova sfida è capire che cosa abbia accelerato il passaggio da questi primi fortunati adattamenti della conformazione corporea a quelli più simili ai nostri, affermatisi circa due milioni di anni fa nei primi membri del genere Homo: cioè lunghe gambe, grandi giunture dell’anca, dita corte e diritte».
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commento: anche questa volta siamo costretti a ripeterci. ci piace una frase dei greci antichi: "antichi come le montagne". Logicamente i cristiani continuano a sostenere che il mondo è stato creato in sette giorni, altri cristiani hanno sostenuto che il mondo è stato creato il 23 ottobre del 4004 a.c. ...

Wednesday, April 02, 2008

Il rito dell'Equinozio: Chiamati i Quattro Canti del Mondo

Si torna a scavare per scoprire segreto Stonehenge


IL MESSAGGERO 31 marzo 2008 -
Si torna a scavare per scoprire segreto Stonehenge

LONDRA (31 marzo) - Dopo oltre quarant'anni, si torna a scavare a Stonehenge: gli archeologi sperano di capire qualcosa di più su quel maestoso ed enigmatico monumento megalitico circolare costruito a tappe tra il 3000 e il 1660 avanti Cristo nelle campagne dell'Inghilterra meridionale vicino alla città di Salisbury.

Gli scavi, cominciati oggi, dureranno due settimane e si concentreranno sui monoliti bluastri che componevano il «doppio cerchio di pietre blu», il più interno dei tre cerchi. A giudizio di Simon Thurley, capo di English Heritage, l'ente per la tutela del patrimonio che ha in cura il monumento megalitico, quelle pietre (di colore bluastro perché a base di una roccia basaltica chiamata dolerite) «sono la chiave per capire lo scopo e il significato di Stonehenge». Finora mai chiarito. Le teorie più accreditate lo vogliono un tempio, un osservatorio astronomico (le pietre sono orientate in funzione del sorgere e tramontare del sole), un centro ospedaliero o un cimitero segreto.

Le ultime ricerche furono effettuate 44 anni fa. I lavori iniziati oggi prevedono di scavare una fossa (larga 3,5 metri e profonda 1,5) nella zona al centro del monumento e di andare alla ricerca di frammenti dei pilastri originali di dolerite. I due archeologi incaricati dei lavori, Timothy Darvill e Geoffrey Wainwwright, si dicono convinti che la nuova campagna di scavi porterà risposte alle «eterne questioni» sul quando e perché Stonehenge fu eretto. A quanto si sa, ottanta pietre blu del «cerchio doppio» provengono dal Galles (per l'esattezza dalle colline Precelli del North Pembrokeshire) e furono collacate nel sito attuale dopo un tragitto di circa 250 chilometri.

Stonehenge una Lourdes neolitica? Scavi per verificare teoria. Iniziati i lavori archeologici, i primi da 44 anni


ALICE NEWS - GB/ Stonehenge una Lourdes neolitica? Scavi per verificare teoria. Iniziati i lavori archeologici, i primi da 44 anni
da : notizie.alice.it
Roma, 31 mar. (Ap-Apcom) - Un mistero lungo 4.500 anni, secolo più secolo meno. Almeno la data di costruzione del 'grande cerchio di pietre' presto dovrebbe essere certa. Ma gli scavi iniziati oggi - i primi dal 1964 - hanno un'ambizione maggiore, definire una volta per tutte il perché Stonehenge sia stata innalzata. Con una tesi in cerca di conferme, quella dei due ricercatori che dirigeranno fino all'11 aprile gli scavi: si tratta di "una Lourdes neolitica".
Neolitica vista la data di fondazione. Lourdes, spiegano i professori Tim Darvill e Geoff Wainwright alla Bbc - che nello specifico è anche lo sponsor delle due settimane, fino all'11 aprile, di scavi previsti - perchè il luogo era una specie di santuario dei miracoli dell'antichità: arrivavano qui malati da ogni parte dell'isola, fiduciosi delle capacità sovrannaturali delle pietre magiche estratte da una cava gallese (a 250 chilometri di distanza) e dei druidi.

Darvill e Wainwright hanno sviluppato la loro teoria basandosi su dati empirici, come l'esame di alcuni scheletri del neolitico recentemente scoperti, e supposizioni. Adesso hanno la possibilità di verificarla.
Ma senza alzare troppa polvere: scavi limitati anche nelle dimensioni, e solo nel circolo interno della struttura.

Quando le voci animali ispiravano agli uomini musica, favole e poesie


Corriere della Sera 02.04.2008
Antichità Maurizio Bettini ritrova suoni e significati perduti
Quando le voci animali ispiravano agli uomini musica, favole e poesie
di Eva Cantarella

Anche le voci hanno una storia. Una storia e un'antropologia. Ce lo ricorda, in un libro affascinante, Maurizio Bettini, uno degli studiosi più interessanti e più originali dell'antichità classica, che da anni indaga aspetti e vicende del mondo antico con gli strumenti di una disciplina, l'antropologia storica, la cui presenza nelle università italiane è legata alla sua infaticabile attività. A Bettini si deve infatti, nel 1986, la fondazione dell'associazione Antropologia del mondo antico, e del Centro interdipartimentale di studi antropologici sulla cultura antica, sempre da lui fondato presso l'Università di Siena. Ed ora, grazie a lui, ecco un nuovo, bellissimo libro, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, nato da un'idea che solo lui poteva avere: quello di ricostruire, all'interno della fonosfera antica, i suoni prodotti dagli animali. I rumori in cui viviamo immersi oggi (clacson di automobili, rombo di aerei, squilli di cellulari) allora non esistevano, ma esistevano suoni che oggi sono andati perduti: il cigolio dei carri, i colpi di martello di fabbri, stagnai, maniscalchi e carpentieri, il rumore delle macine dei mugnai... e, all'interno di questo mondo sonoro, le voci degli animali. Come recuperarle? Come sempre, cercandole nei testi, unico strumento per ricostruire l'immagine mentale dei suoni percepiti dai nostri antenati.
Parole per suoni, dunque. Molte, moltissime parole: del bue è proprio il mugire, della pecora il balare, dei cavalli l'hinnire, della gallina il pipare. In un testo tramandatoci sotto il nome di Svetonio leggiamo del rancare delle tigri, del mugire dei buoi, del grunnire dei porci, del barrire degli elefanti, del coaxare delle rane, e via dicendo. Una vera e propria enciclopedia, il cui ordine, osserva Bettini, non è legato alle caratteristiche zoologiche, ma al modo in cui gli animali venivano culturalmente costruiti in quel mondo.
Le voci degli animali, infatti vengono sfruttate simbolicamente, come la loro forma, colore e comportamento. Nascono così proverbi e modi di dire: «tanto va la gatta al lardo», «furbo come la volpe». Nascono favole: Il lupo e l'agnello, La volpe e l'uva. Nascono poesie: come dimenticare il cosiddetto «giambo sulle donne», in cui Semonide classifica le donne secondo i caratteri degli animali cui somigliano? La donna-scrofa non si lava mai, indossa abiti sporchissimi e ingrassa, rotolandosi nel letame; la donna-volpe sa tutto, controlla tutto, ma si adegua agli eventi, e vi si adatta; la donna- cagna vagola per la casa latrando, non tace neppure se la bastoni; l'asina invece, paziente e lavoratrice, puoi bastonarla e non protesta...
Ma torniamo alle voci: tante e diverse, esattamente come le lingue umane. Ed esattamente come le lingue, originariamente tutte uguali. Un tempo infatti, racconta Filone di Alessandria, gli animali avevano tutti la stessa voce. Ma un giorno, perso ogni senso della misura, chiesero l'immortalità. E furono puniti: da quel momento cominciarono a parlare in modo diverso, ogni specie a modo suo: superfluo segnalare il parallelo con il racconto di Babele.
Tante lingue, dunque, all'interno delle quali Bettini si sofferma, in particolare, su quella degli uccelli e la indaga seguendo diverse strade: quella, già segnalata, della capacità delle loro voci di veicolare significati simbolici e culturali; quella, non meno affascinante, della riarticolazione sonora della loro voce, per far pronunziar loro brevi messaggi in lingua umana: a partire da Alcmane (che affermava di aver trovato la propria poesia rielaborando il canto delle pernici) si arriva, per citare un celebre caso, alla riarticolazione del verso della gallina in Giovanni Pascoli, nella poesia Valentino: «le galline cantavano, Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te ». E poi, ancora, i racconti mitologici, in cui si trovano animali che possiedono una compiuta capacità linguistica. E per finire la divinazione: trasformato in «segni», il canto degli uccelli attribuisce loro la capacità di predire il futuro e di dare ordini. Erano animali autorevoli gli uccelli, nell'antichità. Non a caso Aristofane, nella commedia che da loro prende il nome, immagina che, aiutando gli ateniesi disgustati delle condizioni di vita in patria a fondare una nuova città fra cielo e terra, essi possano riconquistare l'antica signoria, usurpata dagli dei. Nell'impossibilità di rendere conto della ricchezza di questo libro, per segnalarne la rilevanza basterà ricordare, concludendo, che grazie a esso l'antropologia delle antiche voci animali diventa antropologia della cultura classica: la trascrizione delle loro voci ci consente di vedere gli animali come li vedevano gli antichi.

L´ultimo mistero di Stonehenge

La Repubblica 02.04.2008
L´ultimo mistero di Stonehenge
È cominciata pochi giorni fa la campagna, dopo cinquant´anni, nel sito dell´Inghilterra meridionale L´obiettivo, oltre a una datazione più certa, è capire se il monumento era la "Lourdes della preistoria"
di Cinzia Dal Maso

Lunedì scorso, ore otto di mattina. Parte il primo colpo di piccone. Il primo che viola il "sacro" suolo di Stonehenge dopo quasi cinquant´anni. Nessuno, dal 1964 a oggi, ha mai potuto toccare la terra del circolo di pietre più famoso al mondo, nell´Inghilterra meridionale, vicino a Salisbury. Icona del nostro immaginario. Simbolo della preistoria europea. Mito e mistero sin dal lontano Medioevo. E ora al centro di una suggestiva ipotesi che va verificata proprio in questi scavi: Stohenenge era la Lourdes della preistoria, la meta di continui pellegrinaggi.
Finora il monumento non è mai stato indagato con gli strumenti della scienza e della tecnologia moderne. Persino le sue datazioni sono incerte, visto che gli strumenti adeguati sono stati messi a punto solo negli ultimi decenni. E infatti le date esatte sono uno degli obiettivi principali dei due archeologi che hanno ottenuto dall´English Heritage lo storico permesso di scavo e la sponsorizzazione della Bbc. Tim Darvill della Bournemouth University e Geoff Wainwright presidente della Society of Antiquaries (ma già archeologo capo dell´English Heritage) indagano Stonehenge e la preistoria britannica da una vita. Furono loro ad annunciare al mondo nel 2005 di aver individuato la cava tra i monti del Galles dove i costruttori di Stonehenge presero le famose "pietre blu", 80 massi di dolerite (roccia vulcanica di colore bluastro e dai riflessi bianchi) alti quasi due metri e pesanti fino a quattro tonnellate ciascuno. Massi trascinati per terra, mare e fiume per oltre 350 chilometri fino a Stonehenge che a quel tempo, più o meno verso il 2600 a. C., era già un circolo sacro ma fatto solo di pali di legno. Un´opera immensa, ciclopica. Perché tanta fatica? Quando fu intrapresa? E quanto durò questo primo monumento, visto che a un certo punto le pietre blu furono spostate per creare, assieme alle enormi pietre di sarsen (pietre calcaree di 25 tonnellate ciascuna) la Stonehenge che oggi conosciamo? Sono queste le domande a cui Darvill e Wainwright contano di trovare risposta. E contano soprattutto di trovare con ciò una conferma, la prova del nove della loro ipotesi rivoluzionaria: Stonehenge non era un osservatorio astronomico né un centro di cerimonie, come si è sempre creduto, ma un luogo di guarigione meta di pellegrinaggi.
Gli indizi, a detta di Darvill e Wainwright, sono molti. Innanzitutto le "pietre blu", pietre sacre nella fantasia popolare: fino ai primi del Novecento la gente ne staccava piccoli pezzi per fare talismani. Forse perché le Prescelly Mountains del Galles, origine delle pietre secondo gli archeologi, sono ricche di sorgenti sacre dalle proverbiali qualità curative. Qualità acquisite per trasposizione anche dalle pietre. Altro indizio sono le molte tombe trovate attorno a Stonehenge, per lo più di gente venuta da lontano (alcuni proprio dal Galles, mentre il cosiddetto "arciere di Amesbury" veniva addirittura dalle Alpi) e con evidenti tracce di traumi nelle ossa: forse affrontavano il lungo viaggio nella speranza di una guarigione. Forse quel viaggio era per loro l´ultima speranza in una vita di sofferenze. Forse. È un´ipotesi che, come le molte altre su Stonehenge, non convince tutta la comunità scientifica. Mancano prove certe, e Darvill e Wainwright contano di trovarle nelle sacre e misteriose pietre blu. «Perché sono la vera chiave per capire il significato e lo scopo di Stonehenge», ha dichiarato Simon Thurley dell´English Heritage. «Il loro arrivo ha segnato una svolta nella sua storia». Dunque lo scavo, che durerà due settimane, si concentrerà nelle fosse dove le pietre blu furono collocate in origine, alla ricerca di materiali organici che consentano la datazione con il metodo del carbonio 14, e di qualsiasi oggetto o strumento che possa dire qualcosa di chi per primo ha eretto quelle pietre. I due archeologi sono ottimisti. «Abbiamo ricevuto persino la visita dei Druidi (gli "eredi spirituali" dei sacerdoti celtici)», ha raccontato Geoff Wainwright. «Hanno fatto una cerimonia, un giro attorno al circolo di pietre, e ci hanno augurato buona fortuna. We are ok now, abbiamo proprio tutto».