Thursday, January 31, 2008

SOGNARE FORSE BARARE

la Repubblica - Sabato, 1 novembre 1986 - pagina 26
Guido Almansi

SOGNARE FORSE BARARE

Trovo in una raccolta di aforismi la seguente definizione del sogno di un certo Charles Fisher: "I sogni permettono a ognuno di noi di impazzire in maniera quieta e sicura ogni notte della nostra vita". In altre parole, il sogno è uno strumento di libertà che ci concede evasioni temporanee dalle costrizioni di una vita "ragionevole" D'altra parte il sogno è un argomento pericoloso, e forse dovrebbe essere proibito parlarne. Noi sappiamo tutto sul sogno raccontato, scritto o riferito da un personaggio sveglio, perché appartiene a quello che Eraclito chiama "il mondo comune dei desti"; ma non sappiamo niente sul sogno sognato, che appartiene al mondo privato del sognatore, se si eccettua la nostra personale esperienza onirica. E forse nemmeno quella, perché quando raccontiamo a noi stessi i nostri sogni, siamo costretti a modellare, modificare, adattare le nostre esperienze oniriche secondo i parametri narrativi a noi consueti, che non coincidono necessariamente con i parametri narrativi del sogno. Argomento affascinante Il sogno è un rovesciamento dell'esperienza. Inverte le prospettive consuete, capovolge i termini abituali di attrazione e ripulsa, confonde sensi e sentimenti e sensazioni e pensieri, gioca su una realtà sfuggente ed extra-umana che travalica l'universo sensoriale. Se l'onirico è un sesto senso, esso rende "controvertibile" l'esperienza degli altri cinque. Quando ricordiamo un sogno, noi lo consideriamo come una storia di cui stiamo facendo il riassunto a memoria. Questo è l'errore fondamentale eppure inevitabile, in quanto non esiste soluzione alternativa. "Per ottenere la sintesi di un sogno", diceva Paul Valéry, "bisognerebbe esprimerlo nelle sue componenti atomiche. Perché la storia - così come uno la ricorda - è solo una fabbricazione secondaria, la quale segue una fase iniziale che è non cronologica, non riassumibile non integrabile". Quelli che parlano arrogantemente del significato e dell'interpretazione del sogno sono come dei critici d'arte che volessero giudicare la bellezza di uno dei Quadri di una esposizione a partire dal commento musicale di Mussorgskij. Visto sotto questa luce, il sogno non esiste: perché il solo testimone - il sognatore nella privacy del suo sogno - non parla. Il sognatore è imbavagliato dal suo sogno. Eppure come si fa a resistere alla tentazione di scrivere su un argomento così affascinante? Il libro di Serena Foglia, Il sogno e le sue voci. 4.000 anni di interpretazioni (Rizzoli, pagg. 320, lire 22.000) offre un panorama della storia del sogno e di tutte le follie che la follia del sogno ha generato, dagli antichi Egizi ai nostri tempi. L'autrice è abbastanza abile nel suddividere i temi suscitati da questo misterioso visitatore che bussa alla nostra porta ogni notte (o da questa strana creatura che noi partoriamo nel buio): "il sogno come visione", "il sogno come inganno", "il sogno come viaggio", "il sogno come dubbio", e così via. Quando si tratta di interpretare il sogno, comunque, la Foglia, pur senza ammetterlo, si imbatte nel problema che ha imbarazzato soprattutto i filosofi e i pensatori che se ne sono occupati: da un punto di vista logico o razionalistico o scientistico, infatti, tutte le spiegazioni e le interpretazioni del sogno si equivalgono. In questo campo c'è una libertà assoluta di dire tutto quello che si vuole, permettendo alla vanvera una piena espansione, in quanto non esiste nessuna possibilità di controllo. Riguardo ai sogni, "le più gloriose posizioni ontologiche hanno i piedi di argilla", scrive James Hillman, perché le filosofie sul sogno non possono liberarsi dalle fantasie archetipe che sono alla base di queste convinzioni. Noi siamo portati dalla nostra appartenenza e fedeltà al monto civilizzato a scartare, per nostra incapacità immaginativa e condizionamento culturale più che per sfiducia, le forme più primitive di credenza nel sogno; ma, per il resto, tutte le teorie che sono state avanzate dalle scienze sociali e dalle scienze occulte, dalla letteratura e dalla fantasia, sembrano possedere un uguale grado di ragionevolezza e sono tutte inverificabili. Freud ci dice che il sogno rappresenta un desiderio represso, un modo di far riaffiorare l'immaginario inconscio in gran parte velato dalla coscienza. Jung ci dice che il sogno è l'espressione di una subcoscienza collettiva dell'umanità, un incontro con gli archetipi culturali, con i modelli primordiali della società. Lacan ci dice che il sogno è "simile a quel gioco di società in cui si deve dare da indovinare agli spettatori un enunciato conosciuto, o una sua variante, solo per mezzo di una scena muta". Charles Rycroft (L'innocenza dei sogni) ci dice che il sogno è una sorta involontaria di attività poetica. Roger Caillois (L'incertezza dei sogni) ci dice che i sogni sono un disordine di simulacri senza segreti. Hillman (Il sogno e il mondo infero) ci dice che il sogno "appartiene al mondo sotterraneo e alle sue divinità". Francis Crick ci dice che i sogni durante i periodi Rem (quando le palpebre battono con maggiore frequenza nel sonno) sono necessari per liberare il cervello da modi di comportamento superflui o parassitici. E ancora: lo psicologo sperimentale ci dice che il sogno è una "percezione simulata multimodale"; lo scrittore di fantascienza ci dice che il sogno è un messaggio trasmessoci da un distante pianeta extragalattico, per esempio Trafalmadore, che ha voluto l'evoluzione della razza umana per motivi a noi ignoti e che ci comunica le sue istruzioni attraverso queste visioni notturne; Liam Hudson (in un libro dal titolo Nightlife) ci dice che nei sogni noi cerchiamo di risolvere le complessità della vita diurna; un teologo ci dice che il sogno è ispirato da Dio; un altro teologo ci dice che il sogno è un messaggio dettato dal diavolo, signore della notte, il quale ci controlla attraverso la nostra facoltà onirica... Tutte le versioni sono ugualmente accettabili e si potrebbe, ironicamente, concludere: non sappiamo che cosa sia il sogno, da dove venga, dove vada, quale sia la sua funzione, quale la sua causa, quale il suo scopo; quali rapporti mantenga con la veglia e con la vita del corpo e dell'anima, dei sentimenti e degli istinti della ragione e del cuore. Chi potrebbe dimostrare che non è così? La Foglia cerca di sfuggire alla vanvera onirologica con un approccio basato sul senso comune e sulla sua esperienza personale (il libro inizia con un ricordo infantile dell'autrice: la Chiave dei sogni era la Bibbia della sua balia e aveva fatto scattare l'interesse della bambina per l'interpretazione dei sogni). Ma forse le sfuggono le conseguenze estreme di alcuni episodi che cita en passant senza valutarne la gravità. Si prenda il caso del sogno di Daniele nella Bibbia, a cui la Foglia fa un accenno. Come dicevo, noi possiamo parlare della nostra esperienza di vita diurna perché essa appartiene al mondo pubblico, al territorio del sociale; non possiamo parlare della nostra esperienza di sogno perché essa riguarda solo il sognatore. L'intrusione del profeta Ebbene l'episodio di Daniele è una sfida contro questa incomunicabilità. Il profeta viene chiamato da Nabucodonosor non già a interpretare un sogno, ma a ricostruire un sogno dimenticato, e poi a interpretarlo. E' un episodio di una violenza psicologica terrificante, che prefigura la violenza psicologica di certi esploratori del profondo di questo secolo: il mondo privato del sognatore - il quale vuole e rifiuta il suo sogno, cerca di ricordarlo e di dimenticarlo allo stesso tempo - viene violato, "stuprato" dall'intrusione del profeta. Noi possiamo difenderci dalla prevaricazione psicoanalitica rifiutando la nostra collaborazione con l'analista; se qualcuno inventasse un apparecchio di nome Daniele per leggere i sogni altrui, abbatterebbe questa nostra ultima linea di difesa. Sorge a questo punto la domanda cruciale: l'uomo si potrà ancora chiamare uomo quando avrà perso il diritto di dimenticare, di modificare, distorcere, capovolgere i propri sogni? Questa è una zona che a noi sembra sacra: il diritto di mentire agli altri (io sogno un cavallo, e dico di aver sognato un asino) e a se stessi (io sogno un cavallo, e non ricordo più se ho sognato un asino o una zebra). Il mistero del sogno ci salva dall'orrore della conoscenza totale.

L’ulivo

L’ulivo
Nell’orticello dietro casa trapianterò un ulivo che ha mille anni. Con un vecchio frantoio dal meccanismo rudimentale, come facevano i fenici, estrarrò l'olio da ogni raccolta per regalarlo agli amici. La bottiglia sarà piccola, di vetro lavorato. Chiederò loro che lo usino soltanto per ungersi il sesso prima di un atto d'amore eccelso, e anche per l'estrema unzione, se sarà il caso. Con il resto potranno condire le insalate per le migliori occasioni, fino alla prossima raccolta. Magari quell'ulivo venne piantato nell'epoca terrorifica del primo millenarismo da qualche arabo che non credeva all'apocalisse, ma all'immortalità della linfa. E un albero ancora robusto, pieno di esperienza. Nel trascorrere dei secoli, ogni genere di passioni gli si saranno agitate attorno, e lui è sempre rimasto tranquillo, continuando a dare olive. Le filosofie passano, i peggiori crimini vengono assorbiti dalla cultura, ma l'olio d'oliva continua a illuminare con la stessa luce. Bastano nove olive al giorno per poter sopravvivere a qualsiasi calamità. Berrò il suo succo con gli amici, cosciente del fatto che un intero millennio prenderà a scorrerci nel sangue. Alcune delle sue virtù resteranno attaccate alle pareti delle arterie: la forza delle cose semplici, l'impassibilità di fronte alla morte. Quando questo ulivo è nato, la gente credeva che il mondo stesse per finire. Ovunque circolavano voci funeste. C'erano epidemie di peste e massacri: tra tanti abomini quest'albero ha cominciato a crescere, e il suo tronco è diventato poderoso, mentre si innalzavano le colonne delle cattedrali gotiche. Adesso permarrà nel mio piccolo orto sul retro grazie a qualcuno che mille anni fa, in mezzo a tanta inquietudine, lasciò da parte il pessimismo e scelse al suo posto una pianta. Nessun fanatismo ha potuto nulla contro la forza della sua linfa. Innumerevoli gole d'eretici sono state tagliate da allora, così come i rami di questo ulivo sono stati potati. Dopo tanto dolore, l'umanità sa solo partorire altro dolore: questo ulivo, invece, darà un po' di saggezza ai miei amici.

Manuel Vicent, Mediterraneo mare interiore, Traveller Feltrinelli

L'arcobaleno per capire la vita

Corriere della sera, martedi , 29 agosto 1995
IDEE Si e concluso al Lingotto il convegno sui colori: dalle teorie del neurobiologo Hubel alle interpretazioni psicoanalitiche
L'arcobaleno per capire la vita
Lancaster: . Hillman:
dal nostro inviato CARLO FORMENTI
ITORINO l colore è uno dei fattori principali che stanno modificando lo «stile» delle relazioni industriali e culturali nell'epoca dell'integrazione multimediale, trasformando comportamenti sociali e gusti estetici: questo il tema di fondo del conv egno «I colori della vita», che si è svolto ieri e l'altro ieri al Lingotto. E l'ex monumento alla produzione industriale, riprogettato da Piano e attrezzato con sofisticate tecnologie di comunicazione, ha dimostrato che il «lusso cromatico» riesce a rendere appetibili anche le parole della scienza. Biologi, fisici, psicologi, architetti e designers hanno spiegato che cos'è il colore, come lo percepiamo e come influenza idee, affettività e rapporti con l'ambiente urbano e naturale. Un mondo di s ensazioni ed emozioni neutralizzato dalla freddezza dello sguardo scientifico? Al contrario: usciamo da questo convegno con la convinzione della natura eminentemente soggettiva dell'esperienza del colore. David Hubel (insignito del Nobel per le sue ricerche sulla percezione visiva) ha sottolineato che, mentre sappiamo molto della fisica del colore, ne conosciamo assai meno la biologia, e che le chiavi per comprendere la natura del fenomeno stanno soprattutto nella seconda: non soltanto per la mostruosa complessità della retina (125 milioni di coni e bastoncelli per ogni occhio) e dei recettori cerebrali ad essa collegati, ma perché la ricerca biologica (illustrata per l'occasione con alcuni paradossali effetti cromatici) dimostra che la p ercezione del colore si fonda su un sistema di relazioni spaziali e su un gioco di contrasti non meno che sull'oggettività dei fenomeni fisici. Della natura «antropomorfa e soggettiva» del colore ha parlato anche il fisico Tullio Regge: la nostra s pecie è sensibile soltanto a una ristretta banda dello spettro delle radiazioni elettromagnetiche, non tutte le persone percepiscono il colore allo stesso modo e la maggioranza degli animali non sa cosa sia il colore. Thomas Maldonado (docente di P rogettazione ambientale alla facoltà di Architettura di Milano) ha sfruttato le acquisizioni della neurobiologia e della visione artificiale per restituire qualche fondamento (se non altro psicologico) al «soggettivismo» della teoria del colore di Go ethe, storicamente soccombente nei confronti dell'«oggettivismo» newtoniano. Lo studio del percorso bidirezionale che va dall'occhio alla corteccia cerebrale e viceversa, ha spiegato Maldonado, dimostra l'insufficienza delle interpretazioni puramente fisicaliste, e gli esperimenti della realtà virtuale contribuiscono a farci comprendere come i colori siano «veri e propri costrutti virtuali del cervello». E'interessante l'ipotesi citata dall'architetto del paesaggio Michael Lancaster: è probabi le che i nostri antenati primati, vivendo sugli alberi, abbiano selezionato una visione del colore simile a quella degli uccelli, con i quali condividevano la stessa nicchia ecologica e la necessità di distinguere piccole aree di colore brillante sul lo sfondo verde predominante. Ancora più stimolante è il riferimento di Lancaster alla «Babele cromatica» in cui ci ha immerso la civiltà moderna: sintetizzando artificialmente migliaia di colori, ci siamo allontanati dalle nostre radici biologiche; presto dovremo renderci conto del fatto che, per «usare» correttamente il colore, occorrerà sacrificare il gusto soggettivo a un sistema archetipico di relazioni cromatiche. Insomma: è vero che il colore è un fenomeno con forti componenti soggettiv e, ma si tratta della soggettività della specie, ancorata a irriducibili standard biologici, non della Babele delle preferenze individuali. Un «avvertimento» che - pur sostenuto da diversi argomenti - è risuonato anche nelle parole di James Hillman : se qualcuno si aspettava dal noto psicoanalista americano un'apologia delle ragioni della psiche individuale contro l'oggettività scientifica, o una celebrazione del gusto post-moderno per i colori, sarà rimasto deluso. Afuria di sentirsi present are come il «continuatore dell'opera di Jung», Hillman ha finito per assomigliare vagamente al maestro, per lo meno nella figura severa e asciutta, nella testa da rapace, sormontata dai corti capelli bianchi e armata di austeri occhialini rotondi. Gl i occhi del pubblico erano forse calamitati dalla sua immagine virtuale, proiettata su uno schermo gigante, più che dalla sua presenza reale, ma le orecchie ascoltavano parole che difendevano piuttosto le ragioni del reale contro l'affascinazione del le immagini. Il colore, ha detto Hillman, non è soltanto luce, fenomeno fisico, né è soltanto percezione soggettiva, riflesso biologico o simbolo psicologico: il colore ha a che fare col mondo stesso, in un certo senso è il mondo stesso, è il modo in cui la realtà del mondo si mostra, forma visibile dei principi che operano in esso. Ma, per illustrare questa idea «archetipica» del colore, Hillman ha scelto provocatoriamente il «colore del non colore», ha parlato cioè del nero, della privazione totale della luce. Il nero nel gioco delle contrapposizioni simboliche ha la positività del bianco, cifra negativa del diavolo, della morte, della depressione, del lutto, della mancanza. Il nero come simbolo della differenza biologica e del razzismo , il nero come provocatorio emblema di rivolta di adolescenti, ribelli, pirati, anarchici, satanisti. Forse, ha detto Hillman, la predilezione umana per la luce nasce dalla nostra identificazione con la coscienza, dal rifiuto dell'oscurità dell'inc onscio, dal timore per la minaccia della dissoluzione dell'identità cosciente. Ma se non ha senso, ha aggiunto, rovesciare questa visione unilaterale attraverso una simmetrica apologia della «nerezza», resta il fatto che l'uomo moderno ha molto da im parare dal modo in cui l'alchimia rinascimentale riusciva ancora a fare i conti con la «nigredo»: la manipolazione alchemica del nero esprimeva la consapevolezza della corrispondenza fra il colore come oggettività del mondo e il colore come espressio ne dell'esperienza interiore, la consapevolezza d'un rapporto che non metteva uomo e ambiente naturale in opposizione antagonistica. Gli alchimisti sapevano che, senza passare attraverso la potenza negativa del nero, senza accettare la sua forza de costruttiva, non era possibile operare alcun cambiamento. A noi tocca imparare che il nero «rimosso» torna come crimine, razzismo, violenza, malattia mentale, depressione: «L'inclusione del nero fra i colori - ha concluso Hillman - è la via attravers o cui la coscienza occidentale può spezzare il fondamentalismo delle sue ingenue illusioni colorate».

Ad Atena

Ad Atena
Pallade Atena, gloriosa dea, cui fulge
verde lo sguardo, piena di senno,
indòmito cuore, comincio a cantare.
Vergine è vereconda, le rocche difende
audace la Tritogenia, che il cervello
saggio di Zeus generò come propria sua figlia
di lucide auree armi di guerra vestita.
Stupore al vederla prese tutti gli dèi:
ella, al cospetto di Zeus che l'egida porta,
balzò dalla testa immortale nel pugno
una lancia acuta scotendo: terribile
il vasto Olimpo tremò; all'urto
che diede la dea al suolo saltando
la terra turbata cupa echeggiò
e il mare si alzò in ondoso tumulto
e poi si calmò d'improvviso; il fulgente
d'Iperione
figliuolo i cavalli veloci
in lunga sosta trattenne: fino a quando
la vergine Pallade Atena non ebbe
dagli omeri sacri deposte l'armi divine;
e il sapiente Zeus ne gioiva.
Così ti saluto, figlia di Zeus che l'egida porta
a te penserò un nuovo inno intonando.

Dagli "inni omerici"

Ad Artemide

Ad Artemide
Artemide canto, che strali agita d'oro,
la vergine amica di strepiti, arciera
che i cervi colpisce, sorella di Apollo
che d'oro ha la spada: la dea che su ombrosi
monti, su rupi che il vento flagella,
ebbra correndo alla caccia l'arco distende
tutto fulgido d'oro, e dardi scocca mortiferi:
treman le balze dei monti sublimi,
l'urlo di fiere ferite riecheggia per l'ombre
dell'immensa foresta; si turba la terra
e il mare pescoso. Con animo ardente la dea
d'ogni parte s'aggira e stirpi ferine distrugge.
Se poi finalmente si stanca di strage,
paga nell'animo lieto l'arciera divina
l'arco rallenta e si reca al tempio di Febo,
suo caro fratello, a Delfi famosa,
per guidare alla danza le Muse e le Cariti.
Ivi arco lasciato e faretra, si adorna
di splendide vesti e si appresta a danzare.
La voce immortale si eleva: cantano
Leto
di snelle caviglie come diede alla luce
i suoi figli eminenti fra i numi
immortali per senno e per opere.
Salute, figli di Zeus e di Leto bella di chiome:
a voi penserò un nuovo inno intonando.

Dagli "inni omerici"

Wednesday, January 30, 2008

Raccontami una storia, fa bene alla vita

l’Unità 31.1.08
Raccontami una storia, fa bene alla vita
di Manuela Trinci

LE FIABE GUARISCONO? In un certo senso sì, rispondono gli esperti: suscitano emozioni e facilitano la loro espressione, sollecitano uno sguardo diverso sul mondo e, soprattutto, ci dicono qualcosa sul senso della nostra esistenza

Calvino le definiva «visioni insospettate» e Bettelheim le riteneva «terapeutiche». Ma attenzione: non vanno trattate come aspirine
Non esiste il racconto giusto per risolvere un particolare problema
Leggere non è una seduta terapeutica ma un piacere

«Raccontami una storia» è un sapore d’infanzia, come il pane con l’olio o con il burro e marmellata. A una tale richiesta, timida sonnolenta prepotente o piagnucolosa, non c’è adulto che non si senta sopraffatto da proustiana nostalgia. Le storie ai bambini o si raccontano o si leggono, a voce alta. E sono storie che incantano, incuriosiscono, che fanno paura o regalano l’estasi della risata, storie dette in cucina, vicino al letto, al Nido o alla Materna. Storie a gambe in su, sbilenche, randagie, raggomitolate, storie a bocca chiusa o che fanno gioire l’aria.
Storie di oggi o fiabe magiche di ieri e di sempre. Comunque sia, raccontare storie è come dormire, mangiare, cantare, viaggiare insieme. È far circolare sangue umano nei linguaggi, farli tornare «pelle umana» da vestiti, corazze, prigioni che stanno diventando. Le storie hanno, per loro natura, la capacità di suscitare emozioni, atmosfere, stati d’animo, di dirigere uno sguardo nuovo, curioso, verso direzioni che si aprono improvvisamente. Sollecitano un modo specialissimo di guardare il mondo, concentrato, vigile, febbrile, un modo grazie al quale ci si protende e si finisce per vedere ciò che, per un motivo o un altro, non sta di fronte a noi in maniera scontata e banale. Visioni insospettate, come «visioni insospettate» Calvino definiva le fiabe stesse.
Bruno Bettelheim sosteneva addirittura che la partecipazione del bambino al racconto di una fiaba facilitava l’espressività delle emozioni più dello stesso gioco.
E se più recentemente si è posto l’accento su un percorso «curativo» della fiaba basato sulla relazione, sulla trama affettiva, che si stabilisce fra il narratore e il bambino, è soprattutto nella natura insatura, potenziale e combinatoria delle fiabe - nel loro trasvolare e sfiorare mondi non reali, sovrannaturali, ai quali ogni bambino può ricondurre la sua umbratile vita sotterranea - che molti autori hanno individuato, sino dall’inizio, un prezioso quanto «involontario» sostegno al processo maturativo dei bambini stessi.
L’idea che le fiabe «curino», si avvia, dunque, da molto lontano. Shahrazad, intrattenne il re per tre anni raccontando storie che avessero una funzione terapeutica per lui e salvifica per lei. Bruno Bettelheim non ebbe, poi, esitazioni a sancire il principio che «le fiabe guariscono» e sono «terapeutiche», pur sottolineando a più riprese che la fiaba comunica al bambino una comprensione intuitiva, subconscia e che «mai», pur appassionandosi e partecipando emotivamente alla storia, si deve «spiegare o interpretare ai bambini i significati delle fiabe».
Esse appartengono all’umanità, scriveva Louise von Franz, parlano autonomamente, e rappresentano il tentativo dell’umanità di raccontare e spiegare e comunicare il «mistero» vissuto da un essere umano. Potrebbero avere origine dai sogni, dai pensieri elementari, da primordiali riti di iniziazione, oppure ogni Narratore potrebbe ­ sostiene Benjamin - attingere a «un anonimo patrimonio di memoria che ci dice qualcosa del senso della vita».
Ma i fraintendimenti non mancano.
Oggigiorno, immersi come siamo in una cultura terapeutica - che postula il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche per la gestione dell’esistenza, affermandosi gradualmente più come un modo di pensare che non di curare la specificità dei disturbi psichici - anche la narrazione di storie e di fiabe è stata enfatizzata come «supporto terapeutico».
L’editoria cavalca la tigre di questo fenomeno che, confondendo i generi, si ciba parimente di storie, outing, blog, talk show, confessioni, coming e fiabe.
Le riviste di psicologia divulgativa omaggiano spesso le storie che curano, pubblicizzano seminari e corsi di formazione per «narratori», mentre «titoli», volumi e volumetti, spesso illusori e superficiali si addensano sugli scaffali in libreria: «Le fiabe in terapia: un approccio naturopatico», Fiabe in terapia familiare, Fiabe che curano, Ho bisogno di una storia, Il personaggio in terapia, La fiaba come strumento terapeutico, Prova con una storia, Raccontare storie aiuta i bambini, eccetera eccetera.
Da un lato, si induce dunque la pseudo certezza che per ogni problema - dal lettone al vasino - ci sia il racconto giusto per risolvere la questione, dall’altro, si accentua l’enfasi sulla fiaba come farmaco prêt-à-porter. In agguato, un pericoloso conformismo educativo e una pessima divulgazione dei nuovi modelli di cura nella stanza d’analisi, che ­ a partire proprio dal bellissimo Raccontami una storia di Dina Vallino ­ hanno introdotto nell’analisi dei bambini una sorta di principio omeopatico della mente: curare l’immaginazione con l’immaginazione.
In molti si improvvisano Cantadore, così le «storie», che la Pinkola Estés voleva scritte come un tatuaggio del destino (un tatuaggio leggero sulla pelle di chi le ha vissute) e nelle quali Hillman affondava e ramificava la sua «poetica della mente», hanno perso la loro voce mitologica, il loro «cuento milagro».
Tanto che, bibliotecari, genitori, pediatri e psicologi, giustamente preoccupati di riuscire - parafrasando Calvino, - a «rimettere i piedi sulla terra», riemergendo da questo mondo dove imperversano pressappochismo e faciloneria, hanno dato luogo a un appassionato forum sul sito «Nati per Leggere».
Anche qui si racconta di genitori un po’ spaesati dalle pressioni mediatiche, genitori alla ricerca di libri utili, per far crescere bene i loro bambini e per trovare loro stessi delle conferme pedagogiche, e parimente si racconta di insegnanti alla ricerca di libri utili ad affrontare argomenti nuovi o spinosi. E di fronte a pretese forti che falsano e forzano i libri, le voci del forum si interrogano, dubbiose, se quest’idea di un «libro-aspirina» non sia il frutto di una promozione al libro non corretta, se la parola «cura» non sia stata ben declinata e spostata, invece, in un’accezione tutta medica, in farmacia. E commentano pure, con dispiacere, il fatto che molti adulti guardano al libro come a un insegnamento, a un aiuto, a uno specchio fedele che rifletta il mondo e che magari contenga la chiave per la soluzione di conflitti, paure, problemi... Ma perché, arrivano poi decine e decine di interventi, perché trasformare il momento della lettura in una seduta terapeutica? O in un ennesimo momento educativo?
Lasciamo alla letteratura il compito che le spetta. «Se riesci a far innamorare i bambini di un libro o di due o tre, cominceranno a pensare che leggere è un divertimento. Così, forse, da grandi diventeranno lettori». Scrive Roald Dahl. Il principio di piacere è più elastico di un programma ragionato, perché è pronto a riconoscere rapidamente un nuovo piacere, quando nasce, o l’assenza del piacere, se non nasce.
Raccontare storie e servirsi delle storie, dunque, non significa impegnarsi in una «terapia» o insegnare qualcosa, tuttavia aiuta a imparare e imparare significa non imparare cose ma imparare a crescere, a essere liberi… liberi come il vento, la musica… e le storie!

Sunday, January 27, 2008

Le DIVINITA' FEMMINILI Lituane

Le DIVINITA' FEMMINILI Lituane


Ausrine, (Auscrine) Dea AURORA ( medesima radice anche di AUSEL, AUSONIA Splendente, Luce mattuina in sannitico)

Austeglia, Dea delle Api ( Apicultura = Idromele = Sostentamento etc..)

Dimste (DIM-Ste) Dea del Focolare Domestico.. in Latino ( VE_STA)

Gabiglia : Dea del "Fuoco e del Cuore "

Gilitine, (Ghilitine) Dea della Morte ... in Latino .. Libitina

Grauduse : Pericolosa Dea acquatica che Affoga la gente..

Gate (Ghivate) Dea Serpente

Junda (IUNDA) Dea della Guerra ( ... Non suona simile a Antia.. ??)

Jurate, (Iurate) Dea Marina

Kaupole ; Dea della Vegetazione sposa di Kupolinnis il Cornuto

Krumine (Crumina) : Dea della Rigogliosità e del Grano ( in Latino Kheres Kereris??)
( la radice pare molto simile a KRUH, "pane" in slavo, da cui 'crucco' in Italiano)

Laima, (Laima) Dea del Destino ( Norne? Parche? )

Lazdona : Dea dell'Albero di Nocciolo

Linksmine (link-SMI-nay) Dea del Buon Augurio invocata ai Banchetti ( Molto simile a LAKSMI Divinità Indu sposa di Visnù, e la radice LUCK:"Fortuna" in inglese)

Medeine, (Medeine) : Dea del Legno e degli Alberi ( Assonanza con la potentissima Maga Medea della tragedia di Euripide, che a sua volta ha elementi in comune con Cucullino e Morrigan ??)

Medziojima (Me- DzIOiMa) Dea della Caccia, raffigurata con tratti amazzonici, un Arco e una pelle d'Orso ( DzIoMa - DIANA!! )

Milda (Milida) Dea dell'Amore e della Libertà .. Raffigurata come una Donna Nuda che guida un carro trainato da Colombe ( La Figura pare essere palesemente relazionata a Afrodite/Venere )

Nijole (Nigliole) Dea Sotterranea

Numeja (Numeglia) Dea della Famiglia e della Casata ( Iunone? Giunone? o genericamente "Nume" al femminle.. )

Pergrube : Dea dell'Agricoltura

Ragana, (RAGANA) Dea delle Streghe (?!) Assomiglia a MoRRIGHAN !

Ragutiene, Dea della Birra

Rasa : Dea della RUGIADA Mattutina...

Rugiu Boba, l'Antica Signora della Segale (??! .. Eleusi ??) Ricordo che i Latini e i Greci chiamavano la Segale Cornuta RUGGINE) Signora della RUGGINE... Per chi non lo sapesse la Bevanda di Eleusi, il KIKEON, si dice fosse fatta con una 'correzione' di Segale Cornuta, ovvero la sorgente naturale del postumo LSD..

Saule, (SOULE) Dea del Ehm SOLE. ( Caro Semerano.. cambia mestiere ..:-)) )

Vaiva o Vaivora : Dea dell'Arcobaleno, in Greco è Iris, ma in inglese WAVE è Onda.. (??)

Varuna : Nome identico alla Divinità Indopersiana però qui è Dea delle Maree e delle Fasi Lunari

Veju Motina : (Vegliu Motina) Venti Madre, Madre dei Quattro Venti.

Veliuona ( vHELiuona) : Dea delle Ombre dei Morti .. ( HEL è la Dea Germanica )

Velike, Dea della Primavera

Zemina : Grande Madre Terra

Zverune : Dea degli animali selvatici

Dei Maschili Lituani

Dei Maschili Lituani
Ausautas, (AUSCIATAS) Dio della salute comparabile ad Esculapio.

Dievas, (DEAH-vahs) Dio del Cielo Splendente...

Dimstipatis (Dims -Tipatis) Dio TUTELARE della Casa e dei Campi ( non assomiglia a TEUTATIS)?

Kalvelis, (Kal-Velis) Dio Fabbro, assomiglia molto a Velka ( Etrusco e Latino arcaico)

Keliukis (keh-LIU-kis) Dio del Viaggio, degli 'spostamenti sicuri'

Kovas (KOH-vas) Dio della Guerra e Guerdiano dei Confini. Inoltre da curiosamente presso i Lituani antichi il Nome al mese di MARZo ...

Kupolinnis (ku-poh-LI-nis) Dio della Vegetazione, Paredro della Dea Kaupole, assomiglia molto come descrizione ad un SATIRO CORNUTO, addochiatore di belle Vergini.. ( Il nome risuona simile a KERNUNNOS) .

Menulis, (may-NU-lis) Dio Lunare.. ( molto interessante sia per la similitudine con MOON, o Monde nelle lingue germaniche, ma anche perchè, curiosamente, è anagramma di Ma(ha)Lunis ( la radice 'luna'...)

Pagirnis (pah-GhIR-nis) Dio protettore del Villaggio ( PAGUS in latino..)

TRIADE DI DEI PRUSSIANI (ANTICHI)

PERKUNAS ( Dio del Tuono) - PATRIMPAS ( Dio Agricolo ) - PIKUOLIS ( Dio Sotterraneo)


Pilnitis : Dio della Ricchezza ( ricordo che Pluto-Plutonis in Latino è il Dio della Ricchezza oltre che del sottosuolo..)

Praamzius, (prah-AHM-zhius) Dio del Tempo e Seminatore-Demiurgo del Mondo ( Saturno-Crono)

Ragutis : Dio della Birra!

Raugupatis : Dio della Fermentazione della Birra !

Samanelis (sah-mah-NAY-lis) Dio del Muschio (??!)

Vaizgamtas : Dio della canapa e del Lino

Velnias : Dio sotterraneo

Zaltis : il Sacro Serpente

Gli Dèi stanno tornando.

La religione è antichissima, precedente al cattolicesimo: in 35 mila per il solstizio

Gli Dèi stanno tornando.

Si riaccendono i fuochi sacri e presso menhir ricoperti da muschi secolari si celebrano arcani riti.

Aumenta ogni anno, nell’Est post-comunista, il numero di chi si converte a religioni neopagane: vecchi culti seppelliti non da qualche decennio di regime ateista, ma da secoli di cristianizzazione.

Il Paese in cui la rinascita è più significativa è la Lituania. Ogni anno la religione romuva acquisisce qualche centinaio di adepti: ha ormai superato i tremila. Ma, come ci spiega la responsabile per Vilnius, Inija Trinkuniene: “Conta il fatto che i lituani sono un popolo più pagano che cattolico, nel modo di pensare e di agire!. E conta il numero dei ‘pagani in privato’ e di quelli che partecipano solo alle feste più importanti, come la cerimonia del fuoco per l’equinozio d’estate [QUESTA CORBELLERIA ASTRONOMICA E’ OVVIAMENTE DELL’AUTORE DELL’ARTICOLO] . “Ci sarà pure un motivo”, dice, “se ormai si radunano 35 mila persone, mica possono essere tutti curiosi”.
La Trinkuniene è la moglie di Jonas Trinkunas, leader e fondatore di romuva. “Siamo pagani ma non ‘neo’. Siamo PIU' TRADIZIONALI dei cattolici: ci sono oltre mille luoghi sacri in Lituania. E non c’è bisogno di un archeologo per cercarli, li conosce la Gente. E li venera, anche se i preti dicono che è solo folklore”.

In effetti, forse non è un caso se la nazione che ha una così forte rinascita politeista è stata l’ultima in Europa a essere cristianizzata. Solo nel 1386 Jagellone scelse una conversione d’interesse pur di regnare anche sulla Polonia.
Non è un mistero che spesso i neopagani siano il ‘braccio spirituale’ dei gruppuscoli neonazisti. In Lituania la situazione è diversa. “Non abbiamo rapporti con i partiti, anche se molti politici ci promettono, in caso di vittoria, di farci passare da religione registrata a religione riconosciuta dallo Stato”, assicura la Trinkuniene, “tra noi prevalgono elettori di centro e della destra moderata. E poi ci sono gli ecologisti, anche se in Lituania manca ancora un partito verde. Diamo molta attenzione all’armonia con la natura”.
Ma romuva ha anche una tradizione di resistenza nazionale, e sotto il regime sovietico molti suoi membri finirono in carcere. Nel 1967, quando Trinkunas lo fondò, aveva una connotazione laica, etnografica. Ma in breve si trasformò in movimento religioso, dopo il 1971 clandestino. Solo con l’indipendenza, però, i fedeli del dio del tuono Perkunas (e relativo nutrito Pantheon) hanno iniziato a crescere costantemente. Un nuovo impulso è venuto dall’ingresso nell’Unione europea. Spiega la Trinkuniene: “Far parte di una realtà internazionale fa nascere il bisogno di rafforzare le proprie radici. E i lituani, in Europa, non possono rappresentarsi senza la coscienza delle loro radici pagane”

Articolo di Paolo Stefanini, dal settimanale “Diario”, anno X, n. 33, dal 2 al 8/9/2005

Solstizio d'estate a Mnajdra

Solstizio d'estate a Mnajdra (Malta)
Vari monumenti della preistoria di diversi paesi hanno una parte o tutta la loro struttura, significativamente orientata verso una direzione predeterminata. Sarebbe, quindi, non c'è da stupirsi se la stessa possibilità sono stati proposti per la preistorica edifici delle isole maltesi. La possibilità per un intenzionale orientamento dei Templi è corroborata dal fatto che l'allineamento della maggior parte dei Templi ha l'asse principale punti verso sud-est.

Al Solstizio di inverno, i raggi solari sono ridotti a un ristretto fascio entrano nel Tempio dall'ingresso. Questi raggi entrando nel tempio di produrre un'immagine del disco solare. Al solstizio d'estate, i raggi solari vengono da un'altra direzione (vedi foto sopra).In entrambi gli equinozi di primavera e autunno, il sole i raggi sono paralleli ai lati di ingresso e, quindi, la quantità di luce che penetra il tempio è massima.

E Dioniso donò agli uomini l’eros e l’ebbrezza

Nonno di Panopoli
Nuove versioni italiane di un capolavoro risalente al V secolo dopo Cristo, in cui la letteratura ellenistica tocca l’apice della sensualità

E Dioniso donò agli uomini l’eros e l’ebbrezza

di GIORGIO MONTEFOSCHI

Stupore e meraviglia colmano Le Dionisiache , la sterminata opera in versi di Nonno di Panopoli, nella quale, al tramonto dell’età pagana, il poeta egiziano in lingua greca volle «mettere un po’ tutto»: il bene e il male; gli dei e i nemici degli dei; Omero ed Esiodo; Apollonio Rodio e Senofonte; le Metamorfosi e L’Antologia Palatina ; la nascita di Dioniso e l’affermazione del suo culto; il suo viaggio in Oriente per sconfiggere gli indiani, simile al viaggio di Alessandro, e la fondazione delle città; Era e Zeus; Artemide e Afrodite; Ermes e Apollo; Cadmo e Armonia; Europa e il toro; Teseo e Arianna; le ninfe e i giganti; Micene e Tebe; Atene e Nasso; le selve e i pascoli; il mare e i monti. Non c’è vicenda, umana o divina, narrata in questo straordinario poema lungo da solo come l’ Iliade e l’ Odissea (48 canti) che non cada nella luce sgomenta di una illimitata libertà. Qui, fantasia e immaginazione non conoscono confini. Tutto si trasforma in tutto: gli dei in uomini; gli uomini in animali, pietre, piante; le piante in eserciti; le ninfe in rocce, sorgenti; gli eroi in polvere; le amanti deluse in corone di stelle. I giganti sollevano montagne e le tengono in pugno, prima di scagliarle contro gli odiati dominatori dell’universo. Nel cielo, carri luminosi trascinano in corse folli lo Zodiaco, scompigliando le stagioni e il tempo, capovolgendo la notte e il giorno. Guerrieri s’innalzano a toccare con un dito la cima dell’Olimpo. Diluvi universali sommergono la terra. Sul dorso di tori luccicanti, fanciulle rapite percorrono l’azzurro Egeo. Venti impetuosi sorgono dalle caverne; mostri feroci, dai denti di un drago conficcati nel suolo. E nulla, nulla è precluso alla forza, all’ardire, alla istantaneità del volo. Qualcuno - aveva raccontato Plutarco almeno tre o quattro secoli prima - navigando al largo delle coste della Tessaglia o del Peloponneso, aveva ascoltato una voce misteriosa annunciare che gli dei erano morti, non esistevano più. Da quel momento in poi, gli uomini avrebbero dovuto abituarsi a non veder più apparire gli dei sulle rive del mare o nelle selve; a non essere accecati dalla luce o fasciati dal sonno, per accogliere indisturbati ospiti o essere trasportati altrove. Avrebbero - molto semplicemente - dovuto «fare da sé». Rinchiudersi nel recinto domestico: a sperimentare la solitudine e l’incertezza del futuro; coltivare la nostalgia e la memoria. Lo sterminato poema di Nonno, questo immenso compendio mitologico e di generi letterari ormai defunti, non ci appare forse, nel morire di un mondo, come il tentativo tragico - più tragico quanto più decadente - di fermare una morte che è già morte, ricomporre una memoria svanita, riaccendere una nostalgia che non ha più fondamento?
Certamente, il delirio erotico segna, ne Le Dionisiache , il desiderio di congiunzione con il passato sepolto. È un vero e proprio delirio che la letteratura greca - nemmeno nei frammenti lirici, nei luttuosi precipizi della colpa e del sangue - ha mai conosciuto; una fiamma che non si deve spegnere. Quando Zeus vede per la prima volta Semele, ha un trasalimento e, per scrutarla più da vicino, muta diabolicamente aspetto. Diventa un’aquila. La vergine nuota nuda nel fiume. Eccitato dal pungolo del desiderio, il padre degli dei spia i riccioli umidi sul collo, le gambe candide, i seni paragonati ad «Arceri d’Amore»: nel momento in cui si congiunge a lei sul letto, «nel nodo amoroso delle braccia», cambia di nuovo sembiante. E, prima è un toro che muggisce, perché vuole generare un figlio virile e forte; poi, si fa pantera e leone irsuto, perché vuole un figlio coraggioso; quindi, trasforma i suoi capelli in tralci di vite, perché il nascituro sarà il dio del vino; infine, si fa serpente sinuoso e con «labbra di miele» lecca lascivamente «la rosea nuca della giovane sposa», arrotolandosi sulle rotondità del petto.
Dal connubio, nasce Dioniso: il dio che farà conoscere all’umanità la follia amorosa e l’ebbrezza del vino. Da questo momento, ogni angolo della natura è percorso da un fremito misterioso. Dioniso fa la lotta con Ampelo, il giovane che ama come Achille amava Patroclo; nuota nel fiume accanto al suo corpo nudo, sfiorando i potenti muscoli delle sue braccia; morto, lo copre di fiori. Nei boschi, il pastore Inno vede comparire una meravigliosa ninfa: Nicea. Il pastore la insegue; la ninfa fugge. Fuggendo - questo capita assai spesso alle fanciulle in fuga nel Poema di Nonno - la veste si solleva mostrando le bianche cosce, le caviglie purpuree, il «giardino di rose» tra le membra di neve. I boschi ascoltano i lamenti disperati di Inno. Rispondono al suo dolore, così come parteciperanno del palpito amoroso, allorché la ninfa sarà privata da Dioniso della sua verginità nel sonno. Dioniso, infatti, l’ha vista; subito ha sentito la mente perdersi «nel dolce delirio indotto dalla punta del fuoco», e l’ha inseguita ovunque. Quindi, aiutato da Nemesi, la dea della vendetta che non tollera che l’amore non sia corrisposto, slaccia con mano delicata il velo che difende il pudore della dormiente, affinché non si svegli. Ed ecco, gli alberi, le piante, si scuotono, gioiscono: intrecciano foglia a foglia come fanno i due amanti.
Se è vero che la natura primitiva e selvaggia - con i suoi prati pieni di fiori, i suoi stagni immoti, le tenere ombre, i meriggi incandescenti - è l’alcova più propizia all’amore (sovente illanguidito dal torpore provocato da sorgenti di vino purissimo che all’improvviso sgorgano dal suolo), è altrettanto vero che non esiste luogo della terra e del cielo, non esistono circostanze che possano impedire il sorgere del fremito amoroso. Gli dei amano sulla terra, ma sciolgono i veli anche nelle dimore eterne: dove hanno specchi per riflettere il viso, profumi, preziosi unguenti per ammorbidire la pelle. Nelle battaglie più cruente, sorgono di colpo fanciulle splendide, seminude, a ferire il cuore e indebolire le membra. Se una Baccante muore, un indiano stupefatto, rischiando la morte, si ferma nella polvere dello scontro ad ammirare i seni «simili a pomi», a scrutare «la piega tra le cosce scoperte», e la tocca, vorrebbe congiungersi a lei, dopo aver baciato le fredde labbra. Dal fondo del mare, Poseidone vede il corpo nudo di Beroe (la ninfa che più tardi darà origine alla città di Beirut) e la contende a Dioniso con fiera battaglia. Infine, alla conclusione del poema, Dioniso legherà mani e piedi alla ninfa Aura, pure lei addormentata, perché dall’imeneo silente nasca il terzo Dioniso di nome Iacco; dopo se stesso, e il primo Dioniso di nome Zagreo. E mai, mai, ripetiamo, la poesia epica ha visto una tensione erotica simile a questa scorrere nei suoi versi.
Intanto, dopo la vittoriosa spedizione indiana, il mondo conosciuto è stato unificato nei culti dell’amore e del vino. Sono state fondate importanti città. Altre hanno accolto il dio: alcune festosamente; altre, come Tebe, negando la sua provenienza divina e pagando codesta negazione con la più barbara follia. Il fuoco d’amore oramai nessuno potrà distruggerlo; nessun tramonto potrà estinguerlo; chiunque saprà riconoscerlo: anche nelle città cristiane; anche dopo secoli, mille anni. Dunque, Dioniso può salire in cielo; sedersi al cospetto del padre che lo ha generato e partorito tenendolo nascosto in una coscia; e banchettare con lui, insieme a Ermes e Apollo.

dal "corriere della sera"

Come un Omero della decadenza rianimò lo spirito del mito greco

Nonno di Panopoli
Come un Omero della decadenza rianimò lo spirito del mito greco

di MARIO ANDREA RIGONI

Se mi si chiedesse qual è stato, nell’editoria letteraria italiana, l’avvenimento più importante degli ultimi mesi, anzi degli ultimi anni, non esiterei a rispondere: la traduzione integrale nella Bur, con testo greco a fronte e un impressionante commento erudito, de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, ultimo esponente della gloriosa civiltà poetica greca (4 volumi, a cura di Daria Gigli Piccardi, Fabrizio Gonnelli, Gianfranco Agosti e Domenico Accorinti, pagine 3167, 76), mentre un’analoga impresa sta conducendo l’Adelphi (che ha finora pubblicato, a cura di Dario Del Corno, tre dei quattro volumi previsti). Non per nulla la critica italiana, sempre pronta a inseguire i più effimeri e pretestuosi dibattiti, non sembra essersene neppure accorta. D’altronde Nonno non solo non gode di una «voce» autonoma in alcuni repertori degli scrittori classici, ma perfino nel Dizionario della letteratura Garzanti lo spazio che gli viene riservato è pari o inferiore a quello elargito a tanti poetastri, professori e critici odierni, dei quali il tempo farà presto, se non lo ha già fatto, giustizia, cancellandone dalla nostra memoria perfino il nome. Ma Nonno, egiziano di lingua greca vissuto nel V secolo d. C., è poeta di splendore e potenza intramontabile, degno di essere considerato quasi un Omero redivivo, benché sia un Omero della decadenza, anziché delle origini. Le ragioni della sua grandezza e del suo interesse sono di natura molteplice: linguistica, stilistica, prosodica, poetica e culturale. Chi non è greco o grecista perderà inevitabilmente parte dell’esperienza che dettò l’elogio di Kavafis nella poesia Esuli (una delle sue inedite): «Versi di Nonno l’altro ieri leggevamo. / Che immagini, che misura, che lingua, che armonia. / Il poeta di Panopoli rapiti ammiravamo» (traduzione di Massimo Peri). Ma chiunque, anche in traduzione, non potrà non percepire la bellezza e la forza fantastica di questo poema sterminato di 48 libri che, narrando la storia di Dioniso dagli antefatti della nascita fino alla conquista dell’India e all’ascesa in cielo come salvatore dell’umanità e dio della gioia, riepiloga e rianima l’intero universo del mito greco.
Il dionisismo è innanzitutto il tema religioso e poetico della metamorfosi, come fuga dal dolore e dalla morte, che ispira tutta l’opera. Ma coincide anche con il principio compositivo, formale e stilistico de Le Dionisiache , che è quello della proteiforme varietà, enunciato nell’invocazione proemiale alle Muse: «Evocate per me l’immagine di Proteo multiforme, mentre si unisce alla vostra danza (...), perché appaia nella varietà dei suoi aspetti: un inno variegato io voglio intonare» (II, 13-15).
Nonno disarticola l’intero ordine dell’epos classico, in gara e in contrapposizione con Omero: all’unità sostituisce la molteplicità, alla logica l’analogia, alla profondità la superficie, all’azione la descrizione, fornendo un nuovo modello al quale si ispirerà molti secoli dopo il nostro Marino, che senza questo precedente non avrebbe mai potuto concepire né la struttura né lo stile dell’ Adone .
In astratto si potrebbe congetturare che una tale «poetica» conduca a un effetto d’insieme inevitabilmente debole: accade invece che Le Dionisiache si distinguano proprio per l’energia immaginativa e retorica. Un’altra singolarità di Nonno è che, nonostante l’ispirazione soteriologica e sacra, egli ama la digressione e l’aneddoto, l’arguzia e il motteggio, il gesto e il colore. Nello stesso tempo pratica tutta la gamma dei toni: epico, apocalittico, tragico, amoroso, bucolico e comico. È capace della più alta ispirazione cosmica, come testimoniano i primi due canti dedicati alla Tifoneide, ossia all’assalto di Tifeo contro l’Olimpo: «Notte fonda: le schiere dell’Olimpo montano la guardia / intorno alle sette zone e come dall’alto di torri / risuona un allarme notturno: sono le voci delle stelle che si propagano / immense, ognuna con diversa intonazione, e l’eco che risuona intorno all’asse / della barriera di Saturno giunge fino alla Luna» (II, 170-174). Esperto nelle guerre stellari, Nonno non lo è meno nell’erotismo visionario con cui descrive una Baccante («E ce n’è una che ha legato il ventre intatto / con un serpente tre volte avvolto, cintura assai intima, / che apre la bocca vicino alla coscia, sibila dolcemente / e scruta insonne la verginità della fanciulla quando è assonnata per il vino» (XIV, 363-366), o la voluttà di una morte per amore: «Uccidimi, poiché sono amante sventurato, non risparmiare l’arco. / Tu doni grazia femminea al ferro, se tocchi i dardi; e io mi fermo, volontario bersaglio, a guardare / con occhio intenerito le tue dita splendere sulla cocca, / e poi tirare, tutto disteso, il tuo dolce tendine / e avvicinarlo al roseo seno destro» (XV, 329-334). Infine Nonno conosce il tono comico-farsesco. È il caso della deliziosa storia di Afrodite che, abbandonato il cinto d’amore per la spola, tenta maldestramente l’opera della filatura riservata ad Atena, crea una tela rozza e aggrovigliata e provoca sulla terra l’interruzione di ogni attività amatoria, finché, derisa dagli altri dei, abbandona il lavoro e torna a Cipro, ristabilendo l’ordine delle cose (XXIV, 242-329).
Ma il poema contiene aspetti di più sottile ed enigmatica complessità: quello principale è una certa ricorrente somiglianza, tematica e linguistica, fra dionisismo e cristianesimo. Nonno è infatti anche l’autore di un’altra opera in esametri, la Parafrasi del Vangelo di S. Giovanni . Come si spiega questa clamorosa ibridazione di due religioni opposte? Secondo la persuasiva ipotesi di Daria Gigli Piccardi, coordinatrice dell’impresa e curatrice del primo volume, la chiave risiede nel sincretismo: un atteggiamento e un fenomeno, tanto segreto quanto notevole, che dalla tarda antichità si estende al Rinascimento e alla stessa età moderna. Per restare al nostro caso, si può ricordare che la coppia Dioniso-Cristo visiterà ancora la mente di Nietzsche.


Corriere della Sera 7/6/05

«Divino etere e voi venti dalle ali veloci,/ sorgenti dei ...

«Divino etere e voi venti dalle ali veloci,/ sorgenti dei ...

«Divino etere e voi venti dalle ali veloci,/ sorgenti dei fiumi e tu delle onde marine/ infinito sorriso; grande madre terra,/ e cerchio del sole che tutto abbraccia, io vi invoco:/ vedete quali pene io, un dio, patisco per mano di dei». Incatenato a una roccia sui monti del Caucaso per ordine di Zeus, Prometeo, colpevole di aver rubato il fuoco agli dei per donarlo agli uomini e per questo condannato a un eterno supplizio, così si rivolge ai vari elementi della natura nell’omonima tragedia eschilea. Ma per primo invoca il cielo, ampio orizzonte luminoso e numinoso, che da sempre è al centro del mito e della scienza. Se il cielo dei miti è stato da tempo immemorabile un punto nodale della nostra vita, il cielo dell’astronomia (e dell’astrofisica) pare stia prepotentemente tornando di moda. Assetato di mistero e d’immenso non meno dei suoi antenati, l’uomo di oggi chiede al cielo risposte e suggerimenti, non meno che visioni e suggestioni. Forse sa che non crederà fino in fondo a quanto andrà scoprendo, ma non può sottrarsi al fascino dell’indefinito dipinto in grande, «la stanza smisurata e superba» e «quel profondo infinito seren». Il mito tenta, come la scienza, di spiegare l’inspiegabile, ma le sue spiegazioni, a differenza di quelle della scienza, possono essere considerate e riconsiderate alla luce di innumerevoli chiavi di lettura, così da offrire una realtà sempre viva e attuale. Nessuna migliore illustrazione di questo pensiero del bellissimo e dottissimo libro di Giulio Giorello Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Raffaello Cortina). L’autore si cimenta nell’impresa puntigliosamente astorica, e quindi transtorica, di rintracciare le apparizioni e le trasfigurazioni di alcuni miti portanti della nostra tradizione culturale attraverso i tempi e i testi, con una decisa predilezione per gli autori anglosassoni, da Percy Bysshe Shelley e sua moglie Mary Shelley, a James Joyce ed Ezra Pound, senza tuttavia dimenticare il suo Giordano Bruno.
Pochi miti sono stati nei secoli visitati e rivisitati come quello di Prometeo, simbolo di eroica ribellione contro l’ordine costituito e di ardimento estremo. «Tutto mi era chiaro fin dall’inizio. Di mia scelta, di mia scelta ho peccato» dirà ancora il Prometeo di Eschilo alle figlie di Oceano. Creatura generosa e lungimirante, come vuole il suo nome, e allo stesso tempo sconsiderato fino al sacrificio estremo, costui incarna una delle doppiezze insite nell’animo umano: la bramosia e nello stesso tempo la paura del nuovo, il Prometeo della classicità e la sua maschera tardoromantica, il dottor Frankenstein.
Significativa e ammiccante la versione che del mito dell’origine dà Platone nel Protagora . Dopo aver plasmato gli animali «facendo una mescolanza di terra e di fuoco», gli dei affidarono al fratello di Prometeo, Epimeteo, il compito di distribuire loro le varie facoltà naturali. Costui si affretta a distribuire qua e là tutte le doti biologiche, finché si accorge, arrivato all’uomo, di non averne più nessuna a disposizione. Tutti gli animali insomma avevano avuto qualcosa di essenziale per la loro sopravvivenza - chi la velocità, chi la forza, chi le ali, chi gli artigli e le zanne - «mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme». Davanti a tale spettacolo, Prometeo si sente in dovere di offrire agli umani qualcosa di sostitutivo, come la sapienza tecnica, attraverso il dono del fuoco e delle tecnologie a esso associate, che andrà a trafugare dalla dimora degli dei. «In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita», ma non ebbe la sapienza civile e politica, perché quando tornò per prendere anche questa, Prometeo trovò sbarrate le porte dell’empireo...
Non c’è dubbio che il nostro tempo sia figlio della diffusione e della progressiva crescita di quella sapienza tecnica e nello stesso tempo vittima sacrificale dell’assenza di una vera sapienza politica e di una saggezza civile. Siamo sempre più capaci, ma non più umani. Migliorare tecnicamente e scientificamente è facile; migliorare interiormente no. A meno di non provare a utilizzare la nostra conoscenza tecnica per trasformare la nostra interiorità, in una manifestazione estrema di hùbris prometeica.
E veniamo al cielo dell’astronomia. Sono usciti in questo periodo diversi bei libri che parlano delle conquiste e delle sorprese di questa scienza antica e sempre giovane. Tra questi voglio ricordarne almeno due che prendono per mano il lettore, lo conducono alla scoperta degli astri e delle loro avventure e che lo portano diversamente lontano. Da un lato Le sette meraviglie del cosmo di Jayant Narlikar (Codice Edizioni); dall’altro La segreta geometria del cosmo di Jean-Pierre Luminet (Raffaello Cortina).
Nella prima opera un astrofisico di origine indiana molto noto e decisamente portato per la divulgazione ci introduce a tutte le questioni più interessanti e rilevanti dell’astronomia di ieri e di oggi, trattando con mano leggera ma sicura una varietà impressionante di temi, dal motivo per il quale il cielo è azzurro a quello per il quale noi vediamo tremare la luce delle stelle, dal cosiddetto paradosso dei gemelli alle curiose proprietà della materia oscura. Non riesco francamente a immaginare un testo che possa appagare meglio di questo il desiderio di informarsi sulle questioni fondamentali della scienza degli astri senza compiere uno sforzo eccessivo.
Di natura e impegno molto diversi è il libro di Luminet. Più che dei corpi e degli eventi del cosmo, qui si parla della sua struttura, cioè delle forme dello spazio e del tempo e della loro relazione con la presenza di materia ed energia. Si tratta di un libro di geometria celeste, splendidamente concepito e confezionato, che culmina con l’illustrazione di un particolare modello, detto dodecaedrico, della struttura dello spazio-tempo proposto molto di recente dall’autore. Secondo questo modello, attraverso un magico gioco di specchi, la struttura «a pallone da calcio» dello spazio-tempo ci farebbe apparire l’universo più grande di quanto sia in realtà. Giunta a certi livelli, la scienza rivaleggia con il mito in quanto a grandiosità e complessità delle spiegazioni che offre.
Si dice spesso che l’uomo moderno ha bisogno di risposte. Di risposte in realtà ne ha avute tante, anche soltanto da parte della scienza. Il problema è che queste non gli piacciono. Ha avuto il fuoco, ma non l’ha interiorizzato. Nonostante tutto, ha ancora «lo sguardo fisso alla sua ultima ora» per usare sempre un’espressione del Prometeo di Eschilo, supremo monumento di poesia e di sofferta saggezza.


"Corriere della Sera" 5.12.2004
Cultura

Tra i Kalash, gli ultimi infedeli

AIRONE n° 98 giugno 1989
Duccio Canestrini
Tra i Kalash, gli ultimi infedeli

Ritorno nella mitica arcadia d'oriente

Sulle montagne tra il Pakistan e l'Afghanistan, vive un popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca. Gli dei e l'amore scandiscono le vicende di questa etnia, isola pagana nel mondo islamico, che attrasse negli anni sessanta i giovani giramondo: vent'anni dopo il nostro fotografo l'ha rivisitata.

C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia. Anche se le “prove” sono solo suggestioni, e il fondamento di tutto è una leggenda. Vuole dunque la leggenda che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento, presto divenuto noto a popoli vicini e viaggiatori per la sua gestione festaiola e orgiastica. Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui la leggenda mette radici in terra, anche se la pianta originale rimane pura fantasia. Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi assetati di sangue. Con questa favola in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini. Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde. L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lene, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni: finché non ci venne a noia. ‘Hai visto l’arcadico vechio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’. Ma, a parte le idealizzazioni, qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese. Di greco, insomma, nemmeno l’ombra di un naso.

Un popolo irriducibile.

Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò, verso l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India. E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire. Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “il paese della luce”. Naturalmente, la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet Rumbur e Birir) non è mai cessato. L’Islam preme ancora. Ma nonostante le difficoltà nel mantenere la propria identità etnica nel più completo isolamento, i kalash resistono. Su molteplici fronti. In un contesto culturale dove l’ebbrezza viene ricercata nei prodotti della canapa indiana, tra i kalash continua il consumo rituale del vino; anche perché, secondo un loro mito, la prima vigna nacque dalla bocca spalancata di un potente sciamano. Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste, ben oltre il limite della oscenità. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “folle” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una dea Giunone che non disdegna ecatombi di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno.

Una guerra di parole.

Il calendario cerimoniale del Chaumos è ben definito. Il primo giorno si accendono ovunque fuochi con legna di ginepro, si bruciano le vecchie ceste usate e si formano cortei di giovanotti che “trottano” e nitriscono, per attirare il dio, che si presenta sempre a cavallo. Fin dal principio, esplode l’oscenità, con tutta la sua carica vitale e, dicono i kalash, persino medicinale: “Più sconce sono le nostre parole e più accorate le nostre preghiere, più guadagneremo in salute e in fortuna”. Il secondo giorno le donne si lavano i capelli e rinnovano le kupas, le splendide cuffie adorne di conchiglie e di perline colorate. Nella stalla si cuoce il pane. Il terzo è il giorno riservato agli insulti, veramente terribili, tra le ragazze dei diversi villaggi. È una guerra di parole che dura fino a notte, alla quale assistono i giovani maschi, pronti ad apprezzare la fantasia di questa o di quella. Poi viene il giorno della cottura dei fagioli, quello della confezione di piccole capre con la mollica di pane e della ridipintura dei fregi che adornano la jestak-han. Segue il giorno del ritorno dei morti (cui si deve offrire del cibo) che chiude la prima fase della festa. Cominciano allora sette giorni di astinenza, di abluzioni e di purificazioni per tutti, uomini, donne e bambini, durante i quali qualsiasi estraneo deve lasciare le valli kalash. Infine, arriva il giorno del grande sacrificio: decine di caproni vengono macellati ritualmente davanti al mahandeo, l’altare del “grande dio”, dalle cui pietre svettano quattro teste di cavallo, scolpite nel legno. E a questo punto che tra i giovani si possono osservare i “tremori”, interpretati come segnali di una possessione che rivela attitudini sciamaniche. L’addio a Balumain verrà celebrato da un corteo di donne ciascuna con una penna di pavone sulla kupas. In conformità all’antico pensiero védico, il pavone è l’animale dell’immortalità: oltre a essere molto prolifico, l’uccello rinnova ogni anno lo splendore dei suoi “occhi” cangianti sulla ruota cosmica della magnifica coda.

Saturday, January 26, 2008

Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria

Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria:
"Petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria"

Questa volta abbiamo voluto aggiornare in anticipo la pagina dei risultati della petizione del Giorno Pagano Europeo della Memoria per il grande numero di firme che abbiamo raccolto questo mese: 43! Grazie a tutti coloro che, in Italia o all'estero, hanno voluto diffondere il link della petizione. Anche la pagina dei commenti alla petizione è stata aggiornata.

Thursday, January 24, 2008

Laggiù in Mesopotamia, terra degli angeli

corriere della sera, domenica , 25 novembre 2001

Laggiù in Mesopotamia, terra degli angeli

Il culto dei messaggeri di Dio, buoni o cattivi, risale al III millennio prima di Cristo In realtà, avendo essi lo stesso principio, era soltanto la loro relazione con il mondo umano a rendere questi esseri di volta in volta positivi o negativi, benefici o malefici
Pettinato Giovanni

SCOPERTE Un' imponente mole di documenti prova come nella Fertile Mezzaluna gli esseri a metà fra divino e umano già partecipassero alle vicende terrene Laggiù in Mesopotamia, terra degli angeli Il culto dei messaggeri di Dio, buoni o cattivi, risale al III millennio prima di Cristo Le genti della Mesopotamia erano pienamente convinte che la loro vita sulla terra assomigliasse a un percorso irto di difficoltà tali da renderlo quasi un' impresa disperata. I sovrani, gli esseri privilegiati per ec cellenza, facevano ricorso alle maledizioni più sofisticate per rendere se stessi e le loro opere immuni da qualsivoglia attacco esterno. Altrettanto succedeva nella vita di tutti i giorni ai loro concittadini e sudditi, esposti più di loro alla catt iva sorte, come stanno a dimostrare le serie di scongiuri ed esorcismi pervenutici, i rituali di purificazione eseguiti, le preghiere struggenti rivolte agli dei perché li proteggessero in ogni momento del giorno e della notte, come pure tutti gli am uleti e le statuette apotropaiche rinvenute a centinaia negli scavi. Scorrendo l' immensa mole di documenti cuneiformi di qualsiasi genere e tipo, restiamo impressionati di quanto il cielo e la terra della Fertile Mezzaluna fossero affollati, sopratt utto di divinità e ovviamente di uomini, ma anche e soprattutto di esseri a metà strada tra il divino e l' umano che interagivano nelle vicende umane. Così giungiamo a quelle entità che potremmo definire nel nostro linguaggio «angeliche» e «demoniach e», onnipresenti in qualsiasi evento umano, e che si manifestavano nei modi più impensati o addirittura grotteschi. Una vera sorpresa è l' indagine sull' angelologia mesopotamica, che sola può darci le coordinate per comprendere la demonologia. Alla domanda spontanea del lettore sulla natura delle entità che stanno a metà strada tra mondo divino e mondo umano, dobbiamo subito rispondere che le civiltà mesopotamiche, essendo prive del doppio principio di bene e male, debbono far ricorso allo stes so unico principio divino come artefice di ogni creazione e creatura, quindi, per restare fedeli alla nostra terminologia, «angeli» e «demoni» devono aver avuto lo stesso principio. Così la natura di tali entità dev' essere metafisicamente indistinta e univoca. È solo la relazione di tali esseri con il mondo umano a renderli positivi e negativi, o, se vogliamo, buoni o cattivi, a seconda che agiscano bene o male rispetto alla creatura umana. Perciò non ci meravigliamo se i termini edu e lamassu, principio maschile e femminile, da tradurre con «spirito» o «fantasma», sono di per sé ambivalenti e abbisognano di una qualificazione per caratterizzarne la natura, quindi edu-damqum o edu-lemnum, «spirito buono» o «spirito cattivo», e lamassu-dami qtum e lamassu-lemuttum «fantasma buono» e «fantasma cattivo». Inoltre i popoli mesopotamici sono stati i primi a rivelarci con i loro scritti e i loro reperti archeologici di essere credenti in un mondo superiore, da loro caratterizzato come «divino », di cui essi erano creature e servi più o meno attenti. Il pantheon era composto da divinità celesti gerarchicamente organizzate da cui dipendeva la terra e tutte le sue creature, tra cui quelle umane, il cui compito era quello di assicurare agli d ei l' approvvigionamento quotidiano di cibo e bevande. L' uomo dal canto suo ottemperava volentieri a tale compito gravoso, sicuro e speranzoso che gli dei rendessero la sua vita meno penosa e difficile. I re sono i primi a dare l' esempio al loro po polo, elevando sfarzose costruzioni templari in onore degli dei, a cominciare dalla divinità poliade della città, che essi elencano minuziosamente nelle loro iscrizioni, di cui ricordiamo soltanto i due Cilindri di Gudea, principe di Laga attorno al 2100 a. C., redatti in occasione della costruzione del tempio Eninnu nella capitale del suo regno. Gli dei però assicuravano agli uomini la loro protezione non soltanto con la propria benedizione, ma anche affidando la vita di ognuno di essi a uno «s pirito», che se ne prendeva cura fino alla morte. In tal modo sovrani e sudditi erano ben protetti nel loro arduo viaggio terreno. Gli spiriti protettivi possono assumere le sembianze più strane, anzi, considerando la loro intima natura, non andiamo errati quando li assimiliamo a veri e propri demoni. Gli dei sono gli unici artefici del creato, quindi sia gli esseri benefici o protettivi sia gli esseri malefici a causa delle disgrazie umane provengono da quell' unico principio che è lo stesso mo ndo divino che ha creato ogni cosa. Non ci meravigliamo quindi nel leggere che anche i demoni sono di origine divina, anche se ciò può disturbare le nostre menti senz' altro abituate a fare una cesura più netta tra bene e male. Di demoni ci parlano i vari documenti della vasta letteratura cuneiforme, ma soprattutto le diverse serie di scongiuri redatti ad hoc, laddove quella intitolata Udug-hul-a-me , «Essi sono gli spiriti cattivi», forte di ben 16 tavole, è certo la più importante. In essa son o raccolti gli scongiuri contro gli «spiriti cattivi» che affliggono l' uomo, con delle indicazioni utilissime anche sulla loro origine e sulla loro attività febbrile nel procurare guai. Il loro carattere divino è evidenziato dall' affermazione ricor rente che essi sono «seme di An» e partoriti dalla madre «terra». Gli stessi documenti descrivono poi la loro natura di esseri «impalpabili» e «insensibili», in quanto «spiriti» sempre all' opera per rendere impossibile la vita agli uomini: «Quando f reddo e gelo si spandevano sopra ogni cosa,/ lo spirito cattivo fu generato dal buon seme di An./... Essi sono liberi di muoversi,/ essi schiamazzano sopra, essi rumoreggiano sotto./... Sugli alti tetti e sulle ampie terrazze essi turbinano come una tempesta;/ essi non sono impediti né dalle porte né dai chiavistelli,/ essi sgusciano attraverso le porte come i serpenti./ Essi portano via la moglie dal seno del marito,/ essi rimuovono il bambino dalle ginocchia del padre;/ essi portano via il fid anzato dalla casa del suocero;/ essi sono il silenzio e lo stupore che perseguita l' uomo da dietro!». Giovanni Pettinato LA NUOVA RICERCA Un' idea ereditata dagli ebrei e dai cristiani Martedì prossimo, 27 novembre, sarà in libreria l' ultimo saggio di Giovanni Pettinato: «Angeli e demoni a Babilonia» (Mondadori, pp. 338, lire 35.000, 18,08). Pettinato, studioso della «civiltà di Ebla», professore di assiriologia a Roma e di «eblaitologia» ad Heidelberg, affronta qui mito e magia nelle antiche civiltà mesopotamiche. Nelle sue pagine veggenti, aruspici, esorcisti, maliarde, stregoni, divinità inesorabili si mescolano alla gente comune per restituirci aspetti poco noti di una civiltà che portò la magia all' altezza della scienza. Una civiltà che «inventò» (è questa una delle novità del libro) angeli e demoni, quegli stessi che la tradizione giudaico-cristiana ha ereditato e trasformato in quelle creature tanto familiari e tanto rappresentate, invocate nelle preghiere e nelle avversità ( angeli), oppure temute e cacciate (demoni). Dal libro lo stesso Pettinato ha scelto i passi sull' argomento e li ha trasformati in un articolo che qui pubblichiamo.

Brindisi con Dioniso nei boschi dell'Attica


Un invito ad assaggiare vino novello nella campagna appena fuori Atene, seguito da una lenta danza greca, evoca d'improvviso il dio dell'ebbrezza. Il percorso di un mito che avvicina Oriente e Occidente

Brindisi con Dioniso nei boschi dell'Attica

alla quale un gruppo di uomini beveva e mi osservava.
Quando il piu anziano mi prego di partecipare, ebbi la sensazione di vivere un rito arcaico Il figlio di Zeus e anche lo Sciva dell'India, una combinazione di contrari Asceta devoto e amante eccitato, vaga per le terre nudo, capelli al vento ridendo e piangendo
di ELEMIRE ZOLLA


M'è capitato di ascoltare un raga vespertino di sarod accompagnato dal tamburello, la tabla. Il sarod è una variante eccezionalmente ricca della chitarra. La musica indiana ha un andamento uniforme, incomincia con assaggi lentissimi, enigmatici di c ombinazioni che lentamente si dipanano e come uno strazio emerge a tratti una melodia. Sono spunti come di sogno. Infine la melodia si delinea chiaramente e via via comincia a scatenare esecuzioni su ritmi accelerati, è come se si sbrigliassero furie amorose, fino all'estasi che miracolosamente si mantiene, prolungandosi, variando, fino a gettarci nel silenzio su cui giocava il preludio. Il suonatore di sarod dapprima cadenza il suono aprendo gli occhi e sorridendo al compagno tamburino, che gli risponde con faccia ora seria ora sorridente, con una imprevedibilità di scimmietta. Allo sbrigliarsi del suono, il suonatore sta a testa rovesciata con un sorriso fisso, trafitto. Medito l'esperienza tante volte ripetuta e mi viene in mente che u na figura è sicuramente emersa, Dioniso mite, infantile, giocoso e poi scatenato, rapito. Agl'indiani piacque acquistare quadri occidentali di baccanali, era forse il punto di fusione fra loro e noi. Si è sempre detto che Sciva e Dioniso coincidono. Rammento un incontro con Dioniso, il giorno in cui si assaggia il vino novello, nella campagna greca. Camminavo per i campi, m'ero inoltrato in un boschetto ed ero felice come quando ci s'inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo ne mmeno me ne ricordo, dei caratteri di quel contado. In Grecia, specie nell'Attica, sono i profumi che riempiono l'attenzione, la sfidano con la loro varietà che nemmeno si riesce a fermare con parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che so ltanto su suolo greco allignano e giungono nuovissimi alle narici, appena usciti da Atene, sull'Imetto. Arrivai ad una casetta davanti alla quale un gruppo d'uomini stava degustando il vino nuovo e mi osservarono con attenzione. Finalmente il più anz iano mi pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di così remote origini, dell'ospitalità. Infatti, i volti seri e benevoli mi diedero la sensazione di quel rito arcaico. Il mio greco miserello bastò, ci si sentì accomunati . Prima che me n'andassi quattro si alzarono a danzare dignitosamente la lenta danza greca in tondo. Ci salutammo in silenzio. E anche in questo caso sentii Dioniso che sta sdraiato a degustare dalla coppa. Un altro incontro mi affiora di tra i ric ordi infantili, dei primissimi. Ma credo appartenga all'esperienza d'ogni bambino: gli si presenta un coetaneo e i due si guardano a vicenda, contraccambiano noia stando immobili e indifferenti l'uno a cospetto dell'altro. Ma tutt'a un tratto una par ola cade nel silenzio o una corrente scatta fra i loro occhi e subito si sentono trasportati in un altro spazio. Distanza, differenza, intervallo di separazione sono svaniti, essi formano un'unità. Corrono furiosamente gridando, eccitandosi: esaltati soffiano fiatoni fitti fitti, come stessero nuotando in un'acqua tumultuante. Dura quel che dura, qualcuno interviene, basta una voce posata e tornano in sé, separati, distinti. Questo trasporto ha un nome proprio, Dioniso, cui Ovidio si rivolgeva esclamando: tu puer aeternus. Avevano subìto la sua possessione i bambini, di lui avevano acquisito conoscenza. Oggi tutto rimane incerto, confuso, disatteso, tuttavia ancora si può avvertire che ogni comparsa dionisiaca è un evento glorios o, e una voragine che squarcia l'esistenza. Ho raccontato una storiellina infantile, ma l'incontro con Dioniso può nascere da un vinello qualunque che precipiti all'improvviso in un'esuberante risata e ogni parola solletica, ogni mossa fa piegare i n due dai singulti, tutto si palesa per un immenso scherzo. Gli antichi avrebbero detto: Dioniso s'è presentato, ha illuminato la terra, mosso i venti, sconvolto i cuori, infondendo un'energia inattesa o sfibrando in un languido abbandono o ge ttando in una scurrile ilarità. Ha comunque spezzato leggi e costumanze, ha immerso nella natura animale e vegetale, ha infranto l'identità personale. S'è detto, Dioniso è anche Sciva, anche lui un provocatore che attacca spietato chi crede di poterlo ignorare. È una combinazione di contrari, un asceta devoto e un amante eccitato, vaga per le terre nudo, sparso di cenere, capelli al vento, ridendo e piangendo. I suoi adoratori lo imitano e li vedi grigi di polvere, occhi rossi, per le stra de dell'India. Guai a proscrivere Sciva, come osarono fare i sapienti severi. Umilia gli asceti, li costringe a scoprire l'androginia, affascina le donne. Può sembrare uomo o donna, si può dividere in due metà, maschio a destra, femmina a sinistra, p rendendo il nome di Ardhan-ar-iévara perché la sua essenza è la voluttà sconfinata, in cui estasi virile e femminile si confondono. Ha il collo azzurro perché ha inghiottito il veleno, i cui principi distruttivi tramuta in esultanza. Come in una zang ola in lui ogni coppia di opposti, conscio-inconscio, amabilità-terrore, piacere-sofferenza, si fonde in un'unità. Sono caratteri che in parte sembrano tornare in Krishna, che si aggira ruzzando fra le bovare che si sono innamorate di lui alla follia , abbandonando le loro famiglie. Di primavera Krishna e le bovare intrecciano i loro giochi e la gente li imita celebrando la festa di hol-i o hol-ak-a, inebriandosi delle fioriture, cantando facezie impudiche, saltando sui falò accesi, masticando hashish in famiglia per gettarsi poi fuori a innaffiare con gli spruzzatori chiunque passi per strada. Quei liquidi variopinti celebrano hol-i. Alla fine del Durga p-uj-a, la cerimonia in onore della dea nera, il capofamiglia offre foglie e radici di hashish agli ospiti. Ma in qualunque notte nel cuore della foresta, dove divampino le fiaccole e si vendano cinnamomi, canfora e cannella, curry, zenzero, dolci mielati dai tanti sapori sovrapposti, betel, tè pimentati e tutto con movimenti f ebbrili, vibra l'aura dionisiaca. In certi templi l'elefante sacro barrisce per il desiderio di frutta fermentata: soffia Dioniso. A Kanchipuram i sacerdoti, avvertiti dell'arrivo, si precipitano incontro, occhi luccicanti e arrossati dall'hashish, pelli spalmate di olii aromatici, rapidissimi, inondano d'incenso. Dioniso fu dio della terra vegetante, degli alberi sempreverdi, di fiori e di frutti. Ebbe come culla uno staccio per il grano, simbolo di purificazione. Presiedeva a pigiature, to rchiature, sgranature, a metamorfosi dolorose. È, s'è detto, dio della fatica giuliva, il sudore è leccato via dai serpenti avvinghiati; ma è anche mortuario: pigia, torchia, sgrana, rode come un capro. I vasi greci instancabilmente mostrano sile ni o satiri che calpestano grappoli nel tino: è in gioco Dioniso, che si sta smembrando. I suoi seguaci addentavano animali vivi che lo rappresentavano, strappavano a brani capri e cerbiatti e tori, innamorati distruttori delle vigne. Tutto confluisce: il capro che la seconda Georgica chiama l'innamorato della vigna, su cui si avventa straziandola e trangugiandola, è a sua volta assalito dalla baccante che lo fa a pezzi e lo ingoia sbavandone il sangue, ma Dioniso è tutt'insieme vite, c apro e baccante, graspo spremuto e vino che ne nasce, il morto che risorge e l'anno sempre risorgente. L'ebbrezza del vino accosta ad Afrodite. La sposa di Dioniso fu Arianna era destinata a diventare madre dei figli di Dioniso, ma anche ad ammazza rsi, forse perché non resse all'indole di Dioniso. Ma Arianna fu anche un'Afrodite, ad Amatura cipriota si adorava Ariannafrodite. Plutarco dice che Arianna era figlia d'Afrodite. Comunque Afrodite è pronuba fra Dioniso e Arianna. Ma forse il nucle o del dionisismo era il ballo in vortice che imitava un prillo, chi lo eseguiva si smarriva. Un romanzo russo, Nei boschi (V losach) di Mel'nikov Pecerskji, espone una consuetudine contadina assai prossima alle scorribande dionisiache: si formano g ruppi di ragazze che dopo la Pasqua corrono su per una montagna a coglier funghi. I ragazzi che le accompagnano devono lasciarsi torcere l'orecchio finché sanguini, al primo fungo che mangiano. L'entrata nella foresta, come nel dionisismo, avviene co n un clamore assordante, la sera si appartano le coppie. È in piccolo un'educazione a ménadi. Le ménadi ovvero folli si gettavano di corsa in punta di piedi su per i costoni di montagna nel cuore della notte invernale ululando, ebbre di edera mas ticata, rovesciando la testa. Vestivano pelli di volpe (bassàre) e una pelle di capriolo (nébris) in spalla o sopra il braccio proteso. Portavano corna di toro, formicolavano di serpenti la testa e il tronco. Talvolta i serpenti li inghiottivano, com e aveva fatto Dioniso durante la follia inflitta da Hera. Rohde diceva che le ménadi si costringevano alla manìa efferata. Le loro bocche agognavano di maciullare e di schiumare sangue caldo. Roteavano il tirso finché le trainava con furia. Ruotava no la testa a far scoppiare l'esperienza naturale e comune. Ed ecco l'allucinazione, si vedevano davanti Dioniso uomo o Dioniso toro. Ben di rado le scortavano uomini, ma c'è da pensare che si portassero dietro i figli. Oggi le donne brasiliane del c andomblé si accompagnano ai loro ragazzini, che aiuteranno durante la cerimonia a entrare in trance. Era però un convegno rischioso, il tumulto poteva imbroccare qualunque strada, il profeta dionisiaco Orfeo fu straziato dalle ménadi come un cerbia tto. Quando dominava la rappresentazione di Dioniso come toro, la schiera delle ménadi diventava uno stuolo di mandriane, i baccanti si chiamavano anche boukoloi, bovari, mestiere associato al nomadismo e a poteri magici: Tutsi, butteri e bifolchi, gauchos, cow-boys, b'né Rahel, centauri-picadores, aramauni di Macedonia, mongoli capi d'armenti. Le ménadi fra loro si chiamavano cagne e risorgerà il nome nei raduni massonici egizi istituiti da Cagliostro per le sue «sorelle». Talvolta, al colm o del loro trasporto, esse si sentivano librate in volo e celavano le mani nelle maniche che facevano da ali. Il loro frastuono si alzava terribile nella foresta, accompagnavano l'ululìo battendo nacchere, piatti e tamburelli. Da Bacco, baccano. Se s i fosse tentati di dire che oggi nel chiasso delle discoteche si ricerca il clamore dionisiaco, Ceronetti ha approntato la sua maledizione: Dioniso liberava, quel chiasso calca e vincola. Carl A.P. Ruck osserva su certi vasi ménadi armate di pestel li. A che potevano servire se di fatto non si fossero raccolti nei tirsi funghi e semplici da pestare? Al baccanale si aggregavano, dicono i testi, gli spiriti del bosco, sàtiri dallo zoccolo equino, dal fallo sempre erto, sbrigliati ballerini; cen tauri sapienti e incontenibili; fauni o pani che diffondevano il pànico e, infine, geni dei monti, i sileni piè di capra, dèditi agli spassi, flautisti festosi, ammaliaserpenti, la cui sapienza si celava dietro l'aspetto bonaccione, ebbro dall'occhio acquoso. Essi incantavano la natura intera con le loro canzoni, che erano, dice la sesta Egloga di Virgilio, racconti cosmogonici sui quattro elementi che nel vuoto si uniscono a formare ogni seme; quando Mida catturò Sileno, lo mise alle strette ed ebbe il responso: con un risolino egli proclamò che era meglio non essere che vivere. La filosofia schopenhaueriana riesprimerà questa arcaica professione silenica, di cui Devereux scoprì che i Mohave americani ritenevano convinti gli sciamani da prima della nascita: potendo, essi ammazzavano la madre venendo al mondo e, se sopravvivevano, lottavano per farsi uccidere.*

dal "corriere della sera" di mercoledi' 13 agosto 1997

Il politeismo

Il politeismo corrisponde meglio alla diversità delle nostre tendenze e dei nostri impulsi, cui offre la possibilità di esercitarsi, di manifestarsi: libero ognuno di essi di propendere, secondo la propria natura, verso il dio che gli si confa in quel preciso momento. Con un solo dio, invece, che fare? come considerarlo, in che modo utilizzarlo? In sua presenza si è sempre sotto pressione. Il monoteismo comprime la nostra sensibilità: rinserrandoci ci scava dentro; sistema di costrizioni che ci conferisce una dimensione inferiore a detrimento della piena maturazione delle forze, stabilisce una barriera, arresta la nostra espansione, ci scompagina. Eravamo sicuramente più normali con molti dei, che non con un dio solo. Se la salute è una misura, quale regresso, il monoteismo!

Sotto il regime di molti dèi, il fervore viene diviso; quando è rivolto a un solo dio si concentra e si esaspera, per stravolgersi poi in aggressività, in fede. Non più dispersa, tutta l'energia converge in una sola direzione. La cosa notevole, nel paganesimo, era che non si faceva una distinzione radicale tra il credere e il non credere, tra avere la fede o non averla. Del resto, la fede è un'invenzione cristiana; presuppone uno stesso squilibrio nell'uomo e in Dio, travolti entrambi da un dialogo drammatico quanto delirante. Di qui il carattere forsennato della nuova religione. Ben altrimenti umana. l'antica lasciava a ciascuno la facoltà di scegliere il dio che voleva, e poiché non ne imponeva nessuno, si poteva propendere per questo o quello. Più si era capricciosi, più si sentiva la necessità di variare, di passare dall'uno all'altro, sicuri di poterli amare tutti nel corso di un'esistenza. Inoltre erano modesti, esigevano soltanto il rispetto: di fronte a loro non ci si inginocchiava, si salutava. Convenivano idealmente a chi non avesse risolto le proprie contraddizioni e non potesse risolverle, a uno spirito contrastato e inappagato: che fortuna, in quel suo itinerante turbamento, poterli provare tutti, ed essere pressappoco certo di cascare su quello di cui lì per lì aveva bisogno. Dopo il trionfo del cristianesimo, la libertà di destreggiarsi in mezzo a loro, e sceglierne uno di proprio gradimento, diventò inconcepibile. La coabitazione con loro, quell'ammirevole promiscuità, erano finite. Un qualche esteta, stanco ma non ancora nauseato del paganesimo, avrebbe aderito alla nuova religione se avesse indovinato che si sarebbe estesa su tanti secoli? avrebbe barattato la fantasia, propria al regime degli idoli intercambiabili, con un culto il cui dio doveva godere di una così terrificante longevità?

In apparenza, l'uomo si è dato degli dèi per il bisogno di essere protetto, garantito; in realtà, per avidità di soffrire. Finché credette che essi fossero una moltitudine, si concesse una certa libertà di gioco, qualche scappatoia; ma poi, limitandosi a uno solo, si inflisse un supplemento di pastoie e di affanni. Soltanto un animale che amasse e odiasse se stesso fino al vizio, poteva offrirsi il lusso di un così pesante asservimento. Quale crudeltà verso noi stessi, legarci al grande Spettro, e ribattere sulla sua il chiodo della nostra sorte! II dio unico rende irrespirabile la vita.

Il cristianesimo si è servito del rigore giuridico dei Romani e delle acrobazie filosofiche dei Greci, non per affrancare lo spirito ma per incatenarlo. Nell'incatenarlo, lo ha costretto ad approfondirsi, a scendere in sé. I dogmi Io imprigionano, gli fissano limiti esteriori che in nessun modo può oltrepassare; al tempo stesso lo lasciano libero di percorrere il proprio universo personale, di esplorare le proprie vertigini e, per sfuggire alla tirannia delle certezze dottrinali, di cercare l'essere - o il suo equivalente negativo - al punto estremo di ogni sensazione. Avventura dello spirito vincolato, l'estasi è necessariamente più frequente in una religione autoritaria che in una religione liberale: essa è allora balzo verso l'intimità, ricorso al profondo, fuga verso di sé, Non avendo avuto, per così tanto tempo, altro rifugio che Dio, ci siamo immersi profondamente tanto in lui quanto in noi (questa immersione rappresenta l'unica impresa reale da noi compiuta in duemila anni), abbiamo scandagliato i suoi e i nostri abissi, distrutto uno dopo l'altro i suoi segreti, estenuata e compromessa la sua sostanza con la duplice aggressione del sapere e della preghiera. Gli antichi non affaticavano eccessivamente i loro dèi: avevano troppa eleganza per spremerli a fondo, o fame un oggetto di studio. Poiché non si era ancora operato il funesto passaggio dalla mitologia alla teologia, ignoravano quella perpetua tensione che e presente tanto negli accenti dei grandi mistici quanto nelle banalità del catechismo. Quando il quaggiù è sinonimo d'impraticabile, quando sentiamo reciso, fìsicamente, il contatto che ad esso ci collega, il rimedio non consiste nella fede, e nemmeno nella negazione della fede (espressione, l'una e l'altra, di una stessa infermità), bensì nel dilettantismo pagano, più esattamente nell'idea che ce ne facciamo noi.

L'inconveniente più grave, per il cristiano, è di non poter servire coscientemente che un solo dio, benché in pratica abbia spazio per infeudarsi a parecchi (il culto dei santi!). Salutare infeudamento che, nonostante tutto, ha permesso al politeismo di prolungarsi indirettamente. Senza di che, un cristianesimo troppo puro avrebbe infallibilmente instaurato una schizofrenia universale. Con buona pace di Tertulliano, l'anima è per sua natura pagana. Qualunque dio, quando risponda a certe nostre esigenze, immediate e urgenti, rappresenta per noi un sovrappiù di vitalità, una 'sferzata'; non così quando ci venga imposto, o non corrisponda ad alcuna necessità. Il torto del paganesimo fu di averne accettati e accumulati troppi: è morto per generosità ed eccesso di comprensione, è morto per mancanza di istinto. Se per sormontare Fio, questa lebbra, si punta ormai soltanto sulle apparenze, è impossibile non deplorare l'annientamento d'una religione senza drammi, senza crisi di coscienza, senza incitamenti al rimorso, parimenti superficiale nei suoi princìpi che nelle sue pratiche. Nell'antichità la filosofìa, e non la religione, era profonda; nell'età moderna, causa della 'profondità', e delle lacerazioni d'ogni sorta ad essa inerenti, è stato solo il cristianesimo.

Le epoche senza una fede precisa (l'epoca ellenistica o la nostra) sono quelle che si adoperano a classificare gli dèi, rifiutandosi però di distinguerli in veri e falsi. All'opposto, l'idea che gli uni valgano gli altri è inaccettabile nei momenti in cui il fervore predomina. Non è possibile rivolgere una preghiera a un dio probabilmente vero. La preghiera non ama avvilirsi nelle sottigliezze e non tollera gradazioni all'interno del supremo: perfino quando dubita, lo fa in nome della verità. Non si può implorare una sfumatura. Tutto questo è esatto solamente dopo la calamità monoteistica. Quanto alla pietà pagana, le cose andavano in modo diverso. Nell'Octavius di Minucio Felice l'autore, prima di difendere la posizione cristiana, fa dire a Cecilio, il rappresentante del paganesimo: "Noi vediamo che si adorano gli dèi nazionali: a Eleusi, Cerere; in Frigia, Cibele; a Epidauro, Esculapio; in Caldea, Belo; in Siria, Astarte; in Tauride, Diana; Mercurio presso i Galli, e a Roma, tutti questi dèi riuniti". E a proposito del dio cristiano, il solo a non essere stato accettato, soggiunge: <<: Da dove viene questo dio unico, solitario, abbandonato, sconosciuto in ogni nazione libera, in ogni regno?... ". Secondo un'antica prescrizione romana, nessuno doveva adorare privatamente dèi nuovi, o stranieri, se non erano stati ammessi dallo Stato, e più precisamente dal Senato, solo autorizzato a decidere quali meritassero di venire adottati o respinti. Sorto alla periferia dell'Impero, giunto a Roma in modo inconfessabile, il dio cristiano si sarebbe vendicato, in seguito, per essere stato costretto a penetrarvi con la frode. Si distrugge una civiltà soltanto quando si distruggono i suoi dèi. Non osando attaccare l'Impero di fronte, i cristiani se la presero con la sua religione. Se si lasciarono perseguitare, fu per meglio scagliarle contro i loro fulmini, e saziare il loro incontenibile appetito di esecrazione. Come sarebbero stati infelici, se non ci si fosse degnati di promuoverli al rango di vittime! Tutto, nel paganesimo, li esasperava, perfino la tolleranza. Forti delle loro certezze, non potevano comprendere che ci si potesse rassegnare, come i pagani, alle verosimiglianze, e che si potesse seguire un culto Ì cui sacerdoti, semplici magistrati preposti alle futilità del rituale, non imponevano a nessuno la fatica ingrata della sincerità. Quando ci si ripete che la vita è sopportabile solo se è possibile cambiare divinità, e che il monoteismo contiene in germe ogni forma di tirannia, si cessa d'impietosirsi sulla schiavitù degli antichi. Meglio essere uno schiavo e poter adorare la divinità prescelta, che essere libero' e avere di fronte a sé una sola e identica varietà del divino. Libertà è diritto alla differenza; essendo pluralità, essa postula lo sbriciolamento dell'assoluto, il suo dissolversi in un pulviscolo di verità ugualmente giustificate e provvisorie. Nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente (o, se si vuole, incosciente) e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato. Curiosi effetti della logica monoteistica: un pagano, appena diventato cristiano, cadeva nell'intolleranza. Meglio sprofondare insieme a una congerie di dèi accomodanti che prosperare all'ombra di un despota! In un'epoca in cui, in mancanza di conflitti religiosi, assistiamo invece a conflitti ideologici, la domanda che si formula in noi è la stessa che assillava l'antichità declinante: <<<>>, sarebbero stati chiamati di lì a poco al ruolo di padroni e di carnefici.

Per quanto legittima fosse la sua passione per gli dèi defunti, Giuliano non aveva alcuna possibilità di risuscitarli. Invece di prodigarvisi inutilmente. avrebbe fatto meglio ad allearsi, per rabbia, con i manichei, e insieme con loro cercare di rovesciare la Chiesa. Così, pur sacrificando il suo ideale, avrebbe almeno soddisfatto il suo rancore. Quale altra carta gli rimaneva, se non la vendetta? Davanti a lui si apriva una splendida carriera di demolitore, e l'avrebbe forse intrapresa se non l'avesse obnubilato la nostalgia dell'Olimpo. Non si scatenano battaglie in nome di un rimpianto. Morì giovane, è vero: soltanto due anni di regno; ne avesse avuti ancora dieci o venti davanti a sé, che servizio ci avrebbe reso! Forse non sarebbe riuscito a soffocare il cristianesimo, ma lo avrebbe costretto a una maggiore modestia. Noi saremmo meno vulnerabili, perché non saremmo vissuti come se fossimo il centro dell'universo, come se tutto, perfino Dio, gravitasse intorno a noi. L'Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l'aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza. ci ha precipitati nell'illusione, in questo ottimismo morboso che, in spregio all'evidenza, confonde il percorso con l'apoteosi. Più riflessiva, l'antichità pagana lasciava l'uomo al suo posto. Quando Tacito si domanda se gli eventi siano retti da leggi eterne oppure si svolgano in balìa del caso, non arriva a darsi una risposta, lascia indecisa la questione, e questa indecisione esprime bene il sentimento generale degli antichi. Più di chiunque altro. Io storico, di fronte a questo intreccio di costanti e di aberrazioni di cui sono formati i processi storici, è necessariamente portato a oscillare tra determinismo e

casualità, leggi e capriccio. Fisica e Fortuna. Non esiste quasi sciagura che non si possa, a piacimento, attribuire a una distrazione della provvidenza oppure all'indifferenza del caso, o infine all'inflessibilità del destino. Questa trinità, di uso tanto confortevole per chiunque, e in particolar modo per una mente disincantata, è quanto di più consolante possa proporci la saggezza pagana. I moderni provano ripugnanza a servirsene, una ripugnanza identica a quella per l'idea, propriamente antica, secondo la quale i beni e i mali rappresentano una somma invariabile, che non potrebbe subire modifiche di sorta. Con il nostro assillo di progresso e regresso, noi ammettiamo implicitamente che il male muti, sia che diminuisca o che aumenti. L'identità del mondo con se stesso, l'idea che esso sia condannato a essere ciò che è, senza che l'avvenire possa aggiungere niente d'essenziale ai dati esistenti, questa bella idea non ha più corso; infatti l'avvenire, oggetto di speranza o d'orrore, è per l'appunto il nostro vero luogo; noi viviamo nell'avvenire, per noi esso è tutto. L'ossessione dell'avvento, di essenza cristiana, col ridurre il tempo al concetto d'imminente e di possibile, ci rende inadatti a concepire un istante immutabile, che riposi in se stesso, sottratto al flagello della successione. Per quanto sprovvista di qualsiasi contenuto, l'attesa è un vuoto che ci riempie, un'ansia che ci rincuora, tanto impropri siamo a una visione statica. " Non c'è bisogno che Dio corregga la sua opera " - questa opinione di Celso, che è propria di tutta una civiltà, va contro le nostre inclinazioni, contro i nostri istinti, e contro il nostro stesso essere. Non ci è possibile ratificarla se non in un momento inconsueto, in un accesso di saggezza. Va contro anche a ciò che pensa il credente, perché ciò che si rimprovera a Dio negli ambienti religiosi più ancora che in altri, è la sua buona coscienza, la sua indifferenza alla qualità della propria opera e il rifiuto di attenuarne le anomalie. Ci è necessario un futuro, a ogni costo. La credenza nel Giudizio finale ha creato le condizioni psicologiche per credere nel senso della storia; meglio: tutta la filosofìa della storia altro non è se non un sottoprodotto dell'idea del Giudizio finale. Abbiamo un bei propendere per questa o quest'altra teoria ciclica, da parte nostra sarà sempre un'adesione puramente astratta; ci comportiamo infatti come se la storia seguisse uno svolgimento lineare, come se le varie civiltà che si succedono fossero solo le tappe che un qualche vasto disegno, il cui nome varia secondo le nostre credenze o le nostre ideologie, percorre per compiersi e manifestarsi.


Per noi non vi sono più falsi dèi - c'è forse una prova migliore della pochezza della nostra fede? Non si vede in qual modo, per un credente, il dio che egli prega e un altro dio completamente diverso possano essere parimenti legittimi. La fede è esclusione, sfida. Proprio perché non riesce più a detestare le altre religioni, perché le comprende, il cristianesimo è finito; manca sempre più di quella vitalità da cui procede l'intolleranza. E l'intolleranza era la sua ragione d'essere. Per sua disgrazia, ha cessato d'essere mostruoso. Alla stregua del politeismo declinante, è colpito, paralizzato da una eccessiva larghezza di vedute. Il suo dio non ha su noi maggior prestigio di quanto ne avesse Giove sugli avviliti pagani. A che si riducono gli sproloqui sulla " morte di Dio:", se non a certificare l'avvenuto decesso del cristianesimo? Non osiamo attaccare frontalmente la religione, e allora ce la prendiamo col suo capo, al quale rimproveriamo di essere inattuale, moderato, timido. Un dio che abbia sperperato il proprio capitale di crudeltà, non lo teme più nessuno, nessuno Io rispetta più. Noi siamo come segnati da tutti quei secoli quando credere in lui significava temerlo, quando i nostri terrori lo immaginavano compassionevole e al tempo stesso privo di scrupoli. Chi mai potrebbe intimidire ora che perfino i credenti lo sentono sorpassato, e non è più possibile ricollegarlo al presente, e ancor meno all'avvenire? Come il paganesimo fu costretto a cedere di fronte al cristianesimo, così quest'ultimo sarà costretto a inchinarsi di fronte a un qualche nuovo credo; spogliato dell'aggressività, non costituisce più un ostacolo all'irrompere di altri dèi. Non hanno più che da farsi avanti, e si faranno avanti, forse. Può anche darsi che degli dèi non abbiano il volto, e nemmeno la maschera; non per questo saranno meno temibili.

In coloro per i quali libertà e vertigine si equivalgono, una fede, da qualsiasi parte provenga, magari addirittura antireligiosa, è un impedimento salutare, una catena desiderata, sognata, che avrà la funzione di frenare la curiosità e la febbre, di sospendere l'angoscia dell'indefinito. Quando una fede simile ha la meglio e s'insedia, ciò che ne risulta immediatamente è una riduzione del numero dei problemi da considerare e, insieme, una diminuzione quasi tragica delle opzioni. Vi è sottratto il peso della scelta: si decide per voi. Quei pagani raffinati, che si lasciavano tentare dalla nuova religione, si aspettavano per l'appunto che qualcuno scegliesse per loro, che indicasse loro dove dirigersi, per non dover più esitare sulla soglia dei tanti templi, ne destreggiarsi fra tanti dèi. In stanchezza, nel rifiuto delle peregrinazioni dello spirito, si concluse così quell'effervescenza religiosa senza credo, che è il carattere di ogni epoca alessandrina. Si respinge la coesistenza delle verità, perché il poco offerto da ognuna di esse non ci soddisfa più; si aspira al tutto, ma a un tutto limitato, circoscritto, sicuro, tanto grande è la paura di cadere dall'universale nell'incerto, dall'incerto nel precario e nell'amorfo. Un capitombolo, questo, che il pa_ ganesimo subì a suo tempo, e che il cristianesimo sperimenta oggi. Affonda, ha fretta di affondare; e ciò lo rende sopportabile ai miscredenti, sempre più benigni nei suoi confronti. Il paganesimo, anche vinto, si continuò a detestarlo: i cristiani erano degli ossessi che non riuscivano a dimenticare; i1 cristianesimo, invece, oggi lo hanno perdonato tutti. Già nel Settecento gli argomenti ad esso contrari si erano esauriti, e ormai, al pari di ogni veleno che abbia perso le sue virtù, il cristianesimo non può nè salvare nè condannare nessuno. Troppi dèi ha però rovesciato perché possa sfuggire, se c'è giustizia, alla sorte loro serbata. Ed e venuta l'ora della rivincita. Grande dev'essere la loro gioia nel vedere caduto al loro stesso livello il loro peggior nemico, se è vero che ora esso li accetta tutti, senza eccezione. Al tempo del suo trionfo aveva demolito templi e violato coscienze dovunque gli fosse piaciuto comparire. Un nuovo dio, fosse anche stato mille volte crocifisso, ignora la pietà, stritola ogni cosa sul suo cammino, si accanisce a occupare il massimo spa2Ìo. Ci fa pagar caro, così, il non averlo riconosciuto prima. Oscuro, poteva possedere una certa attrazione: non si distinguevano ancora, in lui, le stigmate della vittoria. Mai una religione è più 'nobile' di quando arriva a considerarsi una superstizione, e assiste con distacco alla propria eclisse. Il cristianesimo si è formato e affermato nell'odio di tutto ciò che non era lui, e quell'odio lo ha sostenuto in tutta la sua carriera; finita la carriera, anche l'odio finisce. Cristo non scenderà più agli Inferi; lo hanno rimesso nella tomba e questa volta ci resterà, verosimilmente non ne uscirà mai più: non ha più chi liberare, ne sulla superficie ne nelle profondità della terra. Quando si pensa agli eccessi che accompagnarono il suo avvento, non ci si può impedire di rievocare l'esclamazione di Rutilio Namaziano, l'ultimo dei poeti pagani: "Piacesse agli dèi, che la Giudea non fosse mai stata conquistata! ".

Poiché si ammette che tutti gli dèi, senza distinzione, sono veri, perché fermarsi a metà strada, perché non celebrarli tutti? Sarebbe, da parte della Chiesa, un compimento supremo: perirebbe inchinandosi di fronte alle proprie vittime... Alcuni segni annunciano che ne sente la tenta-tazione. Cosi, non diversamente dai templi antichi, considererebbe un onore raccogliere le divinità, i relitti di ogni luogo. Ma, una volta ancora, è necessario che il vero dio si metta da parte, affinchè tutti gli altri possano risorgere.

Cioran, "il funesto demiurgo", adelphi


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