Tuesday, October 30, 2007

Capodanno Celtico: Halloween? no, Samhain!

Capodanno Celtico: Halloween? no, Samhain!

Molti, troppi, credono che Halloween sia una festa americana importata oltre oceano per far spendere i bambini in costumi e caramelle.
Niente di più sbagliato, ma a volte le tradizioni cambiano con i tempi (e con le nostre azioni...) quindi se oggi Halloween è una festa così commerciale, ripetete tutti insieme "Mea Culpa!"

Facciamo un po' di storia.
Halloween si festeggiava già millenni fa, in età precristiana, nel nord Europa. Le popolazioni nordiche la chiamavano Samhain (pron.: Samein -inglese- o Souìn -gaelico-) e significa "passaggio" poiché in questa data (31 ottobre), nell'antica tradizione celtica, c'era la credenza che i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti divenissero più sottili e che quindi fossero possibili i passaggi tra l'uno e l'altro.
Era anche un passaggio stagionale: infatti nell'antichità questa data era la fine dell'estate e l'inizio dell'inverno, e si festeggiava il capodanno.
L'interpretazione di "passaggio" riguarda anche la Morte in sé: infatti questa viene intesa come passaggio da una vita all'altra, una rinascita vera e propria, quindi da non intendersi come un evento totalmente triste.
Invece la parola "Halloween" deriva dalla frase "All Hallows Eve" e cioè "notte di tutti gli spiriti". Ma questo non ha nulla a che vedere con la festa cattolica di Ognissanti.

Importata? no, esportata!
Questa ricorrenza era quindi prettamente europea. Anche in Italia si festeggiava e si chiamava Calenda.
Con l'avvento del cattolicesimo questa tradizione tenne duro, nonostante i continui attacchi da parte della Chiesa che la definiva eretica e pagana*. Non potendola estirpare, la Chiesa spostò la propria festa dei morti da maggio ad ottobre e la sovrappose a quella pagana spostandola un paio di giorni più avanti (il 2 novembre). Nonostante tutto questo caos, ancora oggi Halloween si festeggia il 31 ottobre; con il risultato che abbiamo 2 feste dei morti: una allegra e una triste.
Con i primi coloni inglesi, anche Halloween sbarcò in America, dove tutt'oggi viene festeggiata come nei primi del 1600, solo un po' più consumisticamente.
*In effetti questa è una festa pagana, ma non con l'accezione negativa definita dalla Chiesa: qui il termine va inteso come da dizionario e cioè "del villaggio" e quindi “tradizionale”.

Perché ci si traveste?
I contadini delle campagne irlandesi e scozzesi credevano che in questa notte alcune anime di spiriti cattivi potessero recargli del male. Perciò si travestivano da mostri, orchi, fantasmi e altri personaggi terrificanti, così da spaventare gli spiriti o confondersi fra di essi per non essere molestati.

E le zucche?
Le lanterne e le candele sono da sempre utilizzate per commemorare i defunti. Un tempo si mettevano fuori dalla porta per indicare la strada ai parenti deceduti o per dire "noi ti ricordiamo".
La leggenda dice che un certo Jack, noto come baro, delinquente e dedito al bere, riuscì ad ingannare Satana in persona. Una sera Jack invitò il Diavolo a bere con lui ed questi accettò. Jack propose una scommessa a Satana: gli disse che non sarebbe più riuscito a scendere da un albero. Satana rise a scuarciagola credendo che Jack fosse pazzo e, sicuro di vincere la scommessa, accettò. Mentre Satana saliva sull'albero, Jack incise sulla corteccia una croce che impediva al Diavolo di scendere giù. Jack vide che Satana era perduto e quindi avanzò la sua proposta: avrebbe cancellato la croce se lui si fosse impegnato a non tentarlo più. Satana accettò e Jack cancellò la croce come concordato.
Alla sua morte Jack non fu accettato in Paradiso a causa dei suoi numerosi peccati, non fu però accettato neanche all'Inferno in memoria dello scherzo giocato al Diavolo. Nonostante questo, il Diavolo donò a Jack un tizzone che gli illuminasse la strada. Per far durare la luce del tizzone per il maggior tempo possibile, Jack lo infilò all'interno di una grossa cipolla. Da allora si narra che vaghi durante la notte di Halloween facendosi luce in questo modo.
Da allora Jack fu soprannominato Jack O'Lantern e quando gli irlandesi migrarono in America, avendo a disposizione delle grosse zucche, le sostituirono alla cipolla.

Samhain oggi
All'interno delle religioni pagane e neopagane si chiama ancora Samhain o Calenda ed è la festa più importante dell'anno. E' il capodanno pagano, si commemorano i morti e si celebra la nuova vita.
Si festeggia tutti insieme con lauto banchetto e si intagliano zucche, si brinda in memoria dei defunti e ci si butta alle spalle il passato con un piccolo rito che potete fare anche voi: scrivete su un foglietto qualcosa di spiacevole che vi è successo in questo anno e gettatelo fra le fiamme con la promessa di non pensarci mai più.

Monday, October 29, 2007

Halloween e i soliti c....

salve,
leggendo la notizia sotto riportata non si capisce se si stratta di uno scherzo o se possa inserirla nella raccolta: "vieni avanti... cretino".

Anche quest'anno parteciperò ad un rito pagano per Halloween, pur chiamandomi Scanagatta non ho mai pensato che si potesse festeggiare Halloween, in modo pagano, sacrificando un gatto.
Scontato pensare che simili notizie servono solo per denigrare questa festa.
Recentemente a Vicenza un gruppo "animalista" aveva parlato di gatti uccisi per riti esoterici, erano arrivati al punto di voler istituire delle ronde di protezione per i mici. La Digos è intervenuta dichiarando che non gli risultavano riti esoterici compiuti con sacrifici di animali, e tanto meno di gatti e che in provincia non esistevano gruppi satanisti. Poi si è saputo che i gatti morti erano DUE, e che i mici erano defunti dopo una distribuzione di veleno per i topi.

Sarebbe meglio che il tempo di queste persone fosse impegnato per vigilare sui preti pedofili.
I cristiani sono disposti a tutto pur di impedire che le persone escano dal gregge.
Tanto per capirci vi riporto una frase dal libro "La faccia nascosta di Halloween", testo scritto da un cattolico e pubblicato da una casa editrice cattolica:
""
Quelli che, in nome del sacrosanto "principio di cauzione", hanno abbattutto senza battere ciglio, nell'indifferenza generale, milioni di vacche per timore del vero o potenziale morbo "della mucca pazza", non hanno abbattutto nemmeno una dei milioni di zucche che hanno invaso le nostre scuole e le nostre case, i nostri luoghi pubblici e la nostra ultima notte di ottobre. Non esiste anche un "principio di precauzione per l'immaginario"?
"" (pag.8-9).
Certo che quando si affronta un problema proponendo come soluzione l'"abbattere", cioè uccidire... si può ben capire dove si potrà arrivare.
Francesco Scanagatta

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HALLOWEEN: AIDAA ORGANIZZA RONDE PER SALVARE I GATTI NERI
(AGI) - Milano, 8 ott. - Qualche ora da dedicare ai gatti neri.
Magari unire l'utile al dilettevole trascorrendo qualche ora nei cimiteri durante la notte di Halloween e provare il brivido mentre si e' attivi per una causa utile. Ad aver bisogno di chiunque voglia cimintersi nell'esperienza, seondo l'associazione Aidaa, sono proprio i protagonisti, malgrado loro, della notte delle streghe: i gatti neri. Presi di mira per riti esoterici e sacrificati spesso con inaudita violenza, i gatti neri spariscono a decine sempre piu' frequentemente, ma mai come la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre e i giorni che la precedono. Nasce per questo l'iniziativa dell'Aidaa, proposta quest'anno per la terza volta consecutiva. Chiunque voglia puo' presentare la propria adesione mandando una mail all'indirizzo emergenzamici@libero.it potra' far parte delle ronde che cercheranno di salvare i gatti neri dalla brutta fine che gli si prepara. (AGI)

Il Vaticano impazzito: Halloween va boicottata,

Il Vaticano impazzito: Halloween va boicottata, è pedofilia spirituale
E il presidente della CEI Angelo Bagnasco è d’accordo


26 Ottobre 2007

La notizia, innanzitutto. Un sacerdote di Genova, don Marino Bruno, insegnante di religione e parroco della chiesa di Santa Maria delle Nasche, attraverso le colonne del settimanale cattolico Il Cittadino lancia una vera e propria scomunica: «Halloween», scrive, «è pedofilia esercitata in campo morale, spirituale, mentale, senza violentare il corpo».



Halloween è una festa molto diffusa nel mondo anglosassone, e da qualche anno ha preso piede anche in Italia: dove a festeggiare sono soprattutto gli adulti; negli Stati Uniti e nei paesi di lingua inglese la tradizionale visita ai defunti è diventata la festa delle zucche, con bande di ragazzini che bussano alle porte di casa con lo slogan: “Dolcetto o scherzetto”.



Anche se non è stagione, don Bruno può benissimo aver preso il classico colpo di sole; nulla di grave. Ma se la scomunica riceve l’imprimatur dell’arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, le cose mutano. Bagnasco, nel corso di un incontro riservato con i sacerdoti del seminario arcivescovile tenuto prima della partenza per Santo Domingo e Cuba, ha dato disposizione che il contenuto dello scritto di don Bruno venisse diffuso e affidato a tutti i parroci perché ne diano ampio risalto nella predicazione ai fedeli. Del resto il testo dell’articolo era stato approvato, prima della pubblicazione, dal direttore dell’Ufficio catechistico della Curia don Bruno Sopranzi.

Don Bruno (e con lui la chiesa genovese) dunque inviteranno «i genitori e gli educatori cristiani ad evitare ogni manifestazione legata ad Halloween… a fare un’obiezione di coscienza… a non festeggiare Halloween». I commercianti che si riconoscono negli insegnamenti della Chiesa cattolica vengono sollecitati a boicottare il marketing legato ad Halloween: «Noi siamo cristiani, non festeggiamo Halloween, potrebbe essere la risposta. Noi siamo cristiani, potrebbe essere la frase da ‘obiettore di coscienza’ di pasticcieri, giornalai, cartolibrari, di fronte alla domanda del cliente che chiede: ma non avete nulla per Halloween?».



L’articolo di don Bruno è un’epifania di scempiaggini: «C’è un abisso tra questa ricorrenza e il Carnevale: i mandanti di questo carnevale d’ottobre sono gli stessi che stanno cercando di bombardare, con stile politically correct, la religione in sé e quella cattolica in particolare…esoterismo, lobby politiche e filosofiche che lavorano per svilire il senso del sacro e il rispetto che gli si deve e che hanno quali prede preferite i bambini».

Insomma: la festa delle zucche sarebbe pericolosa come l’adescamento dei pedofili. «Halloween è solo un gioco, viene detto da troppi; ma ci rendiamo conto di quale messaggio si ricolma la mente dei bambini in conseguenza a questo gioco? Il messaggio che confusamente passa è che in quella notte bisogna travestirsi in modo tale da far paura, perché si fa la parte dei morti che devono spaventare le persone. Qui c’è ben di più rispetto ai vari credi religiosi o filosofici: è in gioco l’equilibrio psicologico del bambino sulla vita e sulla morte».



Ma davvero, ovunque siano, i nostri cari, i nonni e i padri, gli amici e tutti coloro cui abbiamo voluto bene, si possono sentire offesi perché dei ragazzini mascherati vanno in giro casa per casa a “minacciare” “dolcetto o scherzetto”? Ma davvero, ovunque essi siano, le persone che si sono incamminate prima di noi in quel viaggio senza ritorno, possono dolersi del fatto che noi, qui, si sorrida e si cerchi un momento di svago? Ma davvero, ovunque essi siano, i nostri cari dovrebbero sentirsi soddisfatti e appagati nel vederci tristi, immusoniti, tetri; è davvero questo che crediamo vogliano da noi?

È esattamente questo che ci dicono gli uomini della Chiesa cattolica. Non è solo don Bruno a sostenere quelle scempiaggini, e non è solo Bagnasco a sottoscriverle. Anni fa il cardinale di Palermo Salvatore De Giorgi se ne uscì dicendo che «due feste liturgiche tra le più care al nostro popolo e alla nostra cultura cristiana, sono state contaminate da un rito consumistico e carnevalesco, di importazione americana, che non ha nulla in comune con le nostre tradizioni».

Un rito, quello di Halloween, che «costituisce un’offesa all’autentica pietà verso i defunti e un ulteriore segno di cedimento alle invadenti espressioni colonizzatrici della globalizzazione».



Perbacco! Ma come si possono concepire corbellerie del genere? Si potrà dire, credere e pensare che raramente è accaduto di sentire un così straordinario concentrato di stupidaggini?

Dal momento che la mamma delle cretinate è sempre gravida, è anche accaduto che un assessore alla pubblica istruzione di Gela, militante del Partito dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto abbia avuto, un giorno, una bella idea: un milione di compenso a quelle scuole che avessero rinunciato, e anzi avessero boicottato Halloween. Anche agli occhi di chi, tetragono, non prova un filo di imbarazzo a qualificarsi come “comunista” è “peccato” che dei ragazzini chiedano pasticcini, dolciumi, spiccioli; e che degli adolescenti ne approfittino per spassarsela un po’. E perché tanto fastidio? Perché si tratterebbe di una sorta di inquinamento del nostro essere e del nostro spirito; ci corromperebbe e distoglierebbe da più sane tradizioni nostrane.



Tornano in mente così sciovinismi che si credevano morti e sepolti. Per intenderci: quelli che costringevano a assurde traduzioni di nomi anglosassoni, come capita di trovarne quando si rivedono i film western di John Ford, o si sfogliano i primi albi della Walt Disney: dove per non “corromperci”, si finiva con il battezzare Donald Duck in Paolino Paperino, e Michey Mouse diventava Topolino Michelino.

Sarà, il nostro, un eccesso di malizia; ma in queste ricorrenti “denunce”, in queste “crociate”, si scorgono tutti i segni evidenti di uno spirito antiamericano più o meno latente e più o meno inconscio che, come un fiume carsico, si manifesta poi nelle forme più impensate. Siamo pieni di feste “straniere” e “laiche” che si mescolano con le “tradizioni” cristiane. Eppure ci si scaglia solo contro Halloween.



Come sia, per personale antidoto contro questa ennesima manifestazione di intolleranza clericale, per la prima volta chi scrive esibirà alle sue finestre la famigerata zucca illuminata. “Dolcetto o scherzetto” sarà la parola d’ordine. Soprattutto: ci lascino campare!



Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 26 ottobre 2007)

Friday, October 26, 2007

Archeoastronomia amerindia: le "ruote della medicina"

Archeoastronomia amerindia: le "ruote della medicina"
di Vincenzo Croce* - 18/11/2005

Fonte: airesis.net

Sui monti del Big Horne, nei luoghi sacri agli indiani
Dakota, furono costruiti, in epoche imprecisabili,
giganteschi recinti di pietre con un tumulo centrale.
Qual era la loro possibile applicazione pratica?

Una cerimonia a 3000 metri di altezza

Lungo la solitaria erta serpeggiante sui fianchi della
Catena del Big Horn lo stregone, avvolto nel suo
mantello a riparo dei rigori notturni, saliva con il
passo reso spedito dalla consuetudine dei luoghi e dei
compiti che l'attendevano. Lassù, sul breve pianoro
sommitale ergentesi a 2940 metri d'altitudine, che il
vento delle alte quote avvolgeva con la sua ruvida
carezza perenne, l'uomo sapeva che, libero ormai
dall'interminabile abbraccio del crudo gelo invernale,
avrebbe ritrovato il complesso apparato di pietre che
gli antenati del suo popolo da tempo immemorabile
avevano faticosamente disposto in quel luogo tanto
selvaggio ed isolato. Il solstizio estivo era
prossimo, certamente, poiché molti erano già i segni
del cielo e della terra che concorrevano ad
annunziarlo, ma il popolo dei Cheyenne attendeva
laggiù, nei villaggi dispersi per le vaste pianure
verdeggianti ove tutto era pronto e predisposto per le
rituali cerimonie solari, che l'uomo incaricato di
comunicare con gli spiriti del cosmo ne comunicasse
l'epoca precisa; il momento atteso ed importante che
dava inizio al nuovo ciclo delle attività agricole e
venatorie sulle quali riposava la sopravvivenza di
alcune migliaia di individui. Lo stregone già vedeva
con gli occhi anticipatori della mente il noto cumulo
di bianche pietre che, sul pianoro aperto all'immenso
giro dell'orizzonte, gli avrebbe indicato il luogo ove
prendere posto. Sarebbe giunto lassù prima del
tramonto del Sole, ormai prossimo a declinare in un
vivo bagliore di fuoco; avrebbe ritrovato il fido
riparo fra le rocce onde attendere lo scorrere della
breve notte tardo-primaverile fino al momento in cui
le prime avvisaglie dell'alba non gli avrebbero
imposto di cominciare a disporsi all'osservazione,
ricercando con attenzione fra le tenui brume dell'est.
Nella direzione ove, infisso su un monticello di
pietre distante una decina di metri, un aguzzo
monolite proiettava sul cielo la sua silhouette, una
stella dal fulgore vivissimo, reso vacillante dalla
torbidità dei bassi strati atmosferici, ad un certo
momento avrebbe dovuto brillare all' orizzonte per
breve tempo, poco prima che il soverchiante disco del
Sole avesse cominciato ad emergere. Era l'astro di
Aldebaran l'atteso ospite celeste, la stella di prima
grandezza che, nella costellazione del Toro, a guisa
di corteggio regale è accompagnata dal caratteristico
asterisma a V del gruppo delle Jadi. Nei giorni
precedenti, essa sarebbe stata del tutto invisibile
poiché sarebbe sorta immersa nell'abbagliante luce
solare; nei giorni successivi, l'anticipo progressivo
della levata l'avrebbe mantenuta nel cielo abbastanza.
a lungo prima dell'apparizione dell'astro del giorno.
Il preciso sorgere eliaco (1) della stella avrebbe
invece avvertito, con il suo effimero bagliore, il
momento in cui il Sole, al termine della digressione
invernale verso le regioni meridionali del cielo,
avrebbe raggiunto la sua posizione boreale più spinta:
il solstizio estivo, appunto, e l'inizio del nuovo
ciclo annuale.

Testimonianze di culti amerindi

Usualmente si ritiene che la contemplazione del cielo
e dei suoi fenomeni ciclici abbia ricoperto un
carattere strettamente utilitaristico per i popoli che
avevano cominciato a preferire gli insediamenti
stabili, l'agricoltura e l'allevamento del bestiame,
piuttosto che per quelli dediti al nomadismo e alla
caccia, Gli amerindi che, suddivisi in diverse stirpi
e tribù, popolarono le grandi pianure poste ad oriente
delle Montagne Rocciose, spargendosi nel bacino del
Mississipi, dal Colarado, il Texas, lo Wyoming, il
Montana, fin verso le regioni settentrionali dell'
Alberta, Regina, Saskatchewan, non sempre, e non
tutti, acquistarono consuetudini sedentarie, ma comuni
furono per essi molte cerimonie di impetrazione, di
esorcismo e di ringraziamento, fra le quali
primeggiarono indubbiamente le "danze solari".

I Cheyenne erano usi di costruire per tali cerimonie -
effettuate di solito nelle epoche a cavallo del
solstizio estivo - alcune capanne magiche nelle quali
un grande albero, privato dei rami, costituiva il
sostegno centrale. Da esso s'irradiava una serie di
tronchi inclinati che venivano appoggiati ad
altrettanti pali confitti verticalmente in circolo, è
che avevano il compito di sostenere una ricopertura di
pelli. Relazioni magiche con la realtà cosmica erano
suggerite in modo chiaro dal criterio tenuto
nell'erigere cadeste costruzioni. Il tronco centrale
rappresentava il cardine del mondo; la copertura del
locale simboleggiava la volta del cielo e, in taluni
casi, vi erano raffigurate costellazioni ed
allineamenti celesti; determinati pali laterali, a
seconda dell'opinione espressa da Van De Chamberlain,
studioso di archeoastranomia amerinda al National Air
and Space Museum, fissavano le posizioni apparenti
estreme {azimuth orizzontali) raggiunte stagionalmente
dalla Luna e dal Sole al momento della loro comparsa,
o scomparsa, all'orizzonte. L 'apertura d'ingresso
alle capanne magiche era di norma rivolta alla
direzione ove, al solstizio estivo, si scorgeva
sorgere l'astro del giorno e il suo primo raggio
benefico annunciava l 'inizio delle danze rituali.

L 'importanza di cadesti accorgimenti, profondamente
radicati nella cultura degli antichi popoli d'
America, andava oltre l' esigenza strettamente
utilitaristica di stabilire sequenze cronologiche e
computi di calendario. Essi rappresentavano anche, in
un certo qual modo, la manifestazione pratica di
un'esigenza di comunione e d'interpretazione delle
forze della natura: uno sforzo collettivo e poetico di
"colloquiare" con l'anima. cosmica onde realizzarsi,
per tale via, nella coscienza di uomini fieri, ma
anche giusti, e perciò degni della tutela e delle cure
che gli spiriti della natura si compiacevano di loro
concedere.

Un risvolto pratico delle capacità matematiche,
astronomiche e tecnologjche sviluppate nei primitivi
popoli delle pianure nordamericane; grazie all
'interesse rivolto all' osservazione del cielo, viene
di solito indicato da molti archeologi ed
archeoastranomi nelle tracce abbandonate in epoche più
o meno remote, riferentisi a costruzioni a carattere
circolare. Waldo Wedel, a seguito di suoi studi sui
villaggi degli indiani Wichita del Kansas, ha messo
recentemente in luce alcuni criteri di disposizione
rilevabili nei cosiddetti cerchi dei consigli. Si
tratta di manufatti risalenti al XVI e XVII secolo, e
ciascuno di essi consiste in un tumulo circondato da
un fossato e da una serie di depressioni del terreno.
Lo studioso ha notato peraltro che i tumuli centrali
sono reciprocamente visibili anche trovandosi posti a
distanze, l'uno dall'altro, eccedenti il miglio. Essi
risultano allineati col sorgere del Sole al solstizio
d'estate e con il suo tramonto a quello d'inverno. È
probabile che nelle depressioni del suolo venissero
alloggiati dei pali in funzione di traguardo, e che
gli anziani del villaggio, in occasione di determinate
congiunture astronomiche, fossero soliti radunarsi a
consulto intorno al tumulo centrale.

Indicazioni più promettenti ad essere interpretate in
chiave astronomica, o calendaristica, provengono dal
cerchio con buche trovato a Cahokia, nell'lllinois, e
studiato da Warren L. Wittry che l'ha battezzato "la
Woodhenge americana". Consiste in un anello gigantesco
di 125 metri di diametro tracciato da una serie di 48
buche, nelle quali è verosimile supporre che gli
antichi costruttori avessero infisso altrettanti pali
di legno (Woodhenge = recinto in legno) di cui, però,
non è rimasta traccia. Un quarantanovesimo palo, in
posizione centrale, sarebbe servito, secondo il
Wittry, come postazione dalla quale traguardare in
corrispondenza dei pali periferici. L 'ipotesi che la
Woodhenge di Cahokia servisse per predire le eclissi
di Sole e di Luna non ha trovato gran credito; mentre
pare che l'opinione dei ricercatori sia concorde
nell'attribuire un significato "solare" alle cosidette
Ruote della Medicina.


Danza rituale "Della Medicina" degli indiani
Esquimalt, della Columbia Britannica.


La "Ruota Magica" del Big Horn
Il termine di Medicinee Wheels si riferisce a quella
parte di magico, di soprannaturale, di stregonesco, se
vogliamo, che gli esploratori bianchi del nordovest
americano credettero di attribuire a numerosi recinti
di pietre, racchiudenti di solito una raggiera
irradiantesi da un cumulo centrale. Dunque, più che
"ruote della medicina" codeste testimonianze di
culture remote dovrebbero esser definite "ruote
magiche". Ma, poi, in che consisterebbe la pretesa
magia racchiusa in cotali manufatti?

Si conoscono all'incirca una cinquantina di reperti
disseminati in gran parte nelle pianure che si
estendono ad est delle Montagne Rocciose e, a nord,
nelle fertili piane del Canada centro-occidentale.
L'adorazione delle "Ruote della Medicina" come mezzo
di colloquio con gli spiriti della natura, in
particolare il Sole, ha costituito evidentemente una
lunghissima consuetudine presso le tribù amerinde. Il
Tumulo di Majorville, un recinto ritrovato purtroppo
in assai cattive condizioni nell' Alberta, ha
dimostrato di possedere 45 secoli di età, e la sua
erezione risale quantomeno all'epoca delle piramidi di
Gizeh. Vi si riconosce ancora un cumulo centrale di
pietre per un totale di 50 tonnellate; un bordo,
sempre in grossi massi sovrapposti e alcuni del raggi
originali di pietre dipartentisi dal pilone centrale.

Lo specialista di fisica solare John A. Eddy,
dell'Osservatorio di Grande Altitudine di Boulder,
Colorado, ha esaminato moltissime "Ruote della
Medicina" dedicando particolare cura alla descrizione
ed alla interpretazione di quella che si trova situata
sul pianoro sommitale della Medicine Mountain, nella
catena montuosa del Big Horn. Il recinto di pietre
misura all'incirca 25 metri (esso non è perfettamente
circolare) e risulta quindi un poco più angusto del
recinto esterno di megaliti che si ammira a
Stonehenge, in Inghilterra. Il tumulo centrale, di
oltre un metro d'altezza, consiste in un
ammucchiamento di massi del diametro di 3 metri e
metto all'interno del quale c'è una cavità che era
probabilmente occupata, in origine, da una pietra più
grossa. Dal tumulo, come dal mozzo di una ruota, si
diparte una raggiera di 28 segmenti lineari di pietre
più piccole che va a raggiungere il recinto esterno.
Un raggio di questa specie di ruota si spinge per 4
metri oltre il perimetro del recinto, terminando con
un monticello di massi disposti ad U.

Altri quattro monticelli di forma analoga si innalzano
in corrispondenza delle estremità di altrettanti raggi
ma, in questo caso, essi risultano eretti sul ridosso
esterno del recinto: un sesto cumulo compare invece
sul ridosso interno. La datazione presumibile del
manufatto, sulla base di analisi dendrologiche
compiute su alcuni frammenti lignei ritrovati nel
sito, farebbe risalire la Ruota del Big Horn attorno
alla metà del XVIII secolo.

Si tratterebbe quindi di un manufatto piuttosto
moderno che confermerebbe in pieno la persistenza di
talune pratiche mistico-tecnologiche a partire dalle
epoche più remote. Le prime notizie sui reperti del
Big Horn risalgono a non oltre il 1880 e furono
fornite da alcuni gruppi di cercatori di minerali.
Esiste anche un rapporto del 1922 redatto dall'
etnologo R.H. Lowie che si avvale dell'affermazione di
Cane Tranquillo, uno stregone della tribù dei Corvi,
secondo il quale l'area era consacrata ai colloqui con
gli spiriti ed alla loro visione soprannaturale. Oggi,
la Ruota Magica è protetta dal Servizio Nazionale
perle Foreste.



A che serve una Ruota della Medicina?

Le indagini espletate dall'Eddy per mettere in luce le
probabili funzioni della Ruota del Big Horn si
accentrarono dapprima sul cumulo di pietre eretto
all'estremità del braccio che sporge oltre il recinto
poiché, essendo unico con quella disposizione,
lasciava intuire una sua funzione specifica. In
effetti lo studioso non tardò a constatare che, da
quella postazione, un osservatore che avesse usato del
tumulo centrale come traguardo o, meglio, del monolite
che probabilmente ne occupava la sommità, si sarebbe
trovato di faccia il punto azimutale dal quale il Sole
emergeva al di sopra dell' orizzonte il giorno del
solstizio estivo. Al giorno d'oggi, causa il
lentissimo moto di precessione dell'equatore celeste
intorno all'eclittica, alla data del solstizio (21
giugno) il punto di levata si trova spostato in realtà
per un tratto maggiore della larghezza del disco
stesso dell'astro.


Eddy rintracciò anche l'allineamento lungo il quale,
in quel medesimo giorno, poteva osservarsi il tramonto
del Sole: esso veniva a coincidere con una linea
passante per il picco centrale e un secondo cumulo
periferico di pietre. La bisecante fra codeste due
linee indica chiaramente la direzione del meridiano
locale.

Eddy si meravigliò, in un primo momento, di non
riscontrare una disposizione di cumuli di riferimento
in corrispondenza del solstizio invernale. Ma poi
riflette che l'uso delle tribù indigene di salutare
l'ingresso della stagione delle messi con cerimonie di
sontuosità particolare poteva indurre, con ragione a
ritenere che la "Ruota della Medicina" del Big Horn e,
in generale, di tutte le altre consimili, avesse un
significato prettamente connesso ai rituali che
salutavano l'inizio dell'estate. Per di più,
l'inaccessibilità al Medicine Mount nel corso della
stagione invernale, allorché i ghiacci e la neve ne
ricoprono le balze e la vetta con un manto compatto e
pericoloso, costituiva un elemento di prova ulteriore
alla tesi che gli antichi costruttori avessero trovato
superfluo disporvi riferimenti da utilizzare durante
l'inverno.

Tuttavia, era la domanda che Eddy si poneva, come
potevano conoscere, gli stregoni-osservatori, il
giorno del solstizio con precisione sufficiente, senza
trascorrere un periodo più o meno lungo sulla vetta
del Big-Horn, occupati ad osservazioni celesti,
diciamo così, preparatorie e di contorno? La
perspicacia dello studioso ottenne il giusto
riconoscimento: il tumulo di pietre disposte su.
ridosso interno del recinto ricopriva in effetti un
ruolo specifico. Traguardando da esso attraverso altri
tre tumuli prospicienti, e senza passare per il picco
centrale si perveniva a fissare sull' orizzonte i
punti ove sorgevano, rispettivamente, Aldebaran, Rigel
e Sirioall'epoca nella quale la "Ruota" veniva usata.

Abbiamo già fatto notare, nelle parole introduttive,
come il sorgere eliaco di Aldebaran precedesse di solo
qualche giorno il solstizio estivo; ventotto giorni
dopo seguiva la levata eliaca di Rigel e, dopo altri
ventotto giorni, quella di Sirio. Il sorgere di queste
stelle cospicue in concomitanza al Sole doveva
racchiudere, nell'opinione dell'Eddy, un qualche
significato pratico per le consuetudini delle tribù.
Ma Quale?

È probabile che il numero 28, caratteristico di quelle
cadenze temporali, abbia soltanto una casuale
corrispondenza col numero dei raggi della "Ruota". Dei
quali, fra l'altro, a parte i sei contrassegnati con i
monticoli di massi, non è affatto chiara la, funzione,
È anche verosimile che la levata eliaca di Sirio,
verificantesi circa due mesi dopo il solstizio,
servisse di avvertimento affinché nei villaggi ci si
cominciasse a predisporre all'autunno incipiente. E
opportuno ricordare, a questo punto, che nel gruppo
degli allineamenti riconosciuti, il sesto cumulo
periferico sembra privo di significato. Ma, ecco, che
uno studioso dell'Università della Florida,
appassionatosi anch'egli all'enigma contenuto sul Big
Hom, avrebbe trovato che dal cumulo in questione, 35
giorni avanti il solstizio, sarebbe stato possibile
assistere al sorgere eliaco di Fomàlhaut, il
luminosissimo astro di prima grandezza che risplende
nella costellazione del Pesce Australe.

Tuttavia, misurazioni più accurate, hanno dimostrato
che, sempre a causa del movimento di precessione, la
corrispondenza esatta, a partire dal XV secolo, non si
sarebbe potuta più verificare. Nella fattispecie,
l'età della "Ruota " risulterebbe allora accresciuta
di diversi secoli rispetto a quanto si era finora
supposto. Interrogativi, ai quali la Ruota Magica;
ormai immobile nel tempo, soltanto con difficoltà è
disposta a rispondere ...


Ulteriori conferme

Alla ricerca di più ampie informazioni sul significato
"solare" delle Ruote della Medicina, Eddy ha rivolto
la propria attenzione a molti altri esemplari
consimili; Taluni non mostrano alcuna relazione con
allineamenti celesti di qualche significato: le loro
raggiere si dispongono a caso, oppure mancano del
tutto, dimostrando che le pietre (come appare in molte
strutture circolari di dimensioni modeste abbandonate
in territori una volta abitati dai pawnee) servivano
solo per scopi utilitari, come quello di fissare le
pelli di copertura negli attendamenti temporanei. In
altri casi, i tumuli stanno a segnare, forse, le tombe
dei capi o di altri personaggi eminenti delle
comunità.

Nondimeno, le investigazioni portate avanti dall'Eddy
nelle pianure occidentali del Canada con l'ausilio
della prospezione aerea, hanno consentito di
rintracciare significative affinità fra recinti
risalenti a epoche molto diverse e, soprattutto,
realizzati da popoli di radici eterogenee. Va
ricordato, a tale riguardo, il Contributo notevole
dato dalla coppia di archeologi canadesi Alice e
Thomas Kehoe, del Museo Nazionale del Canada, i quali
nel 1975 sono stati in grado di dimostrare che anche
un altro recinto di pietre, situato sulla sommità del
Monte delle Alci, nel Saskatchewan, mostrava degli
allineamenti a raggiera accordantisi singolarmente con
quelli del Big Horn, distante 700 km.

Anche in questo caso le linee di pietra si dipartono
da un grosso cumulo centrale per finire in altrettanti
monticelli periferici; ma le differenze di aspetto
sono considerevoli. La larghezza del picco al centro è
maggiore (9 metri) , anche la sua altezza è di una
volta e mezza superiore, e la massa delle pietre
raggiunge forse le 80 tonnellate. Il recinto è però
molto più ristretto; è costituito da un modesto
disegno eseguito con pietre piatte, secondo una figura
ovoidale la cui massima larghezza non raggiunge i 20
metri. Vi compaiono soltanto cinque raggi destinati a
portare le postazioni degli osservatori; le loro
lunghezze sono ineguali, e quello che si riferisce al
solstizio estivo (levata del Sole), con la misura di
37 metri, risulta essere il più lungo.

I coniugi Kehoe, grazie alle piccole divergenze di
orientamento rilevate fra gli allineamenti del Big
Horn e del Monte degli Alci, hanno concluso che,
tenendo conto degli effetti dovuti alla precessione,
la datazione del secondo va posta ad età molto
anteriori. La tecnica del radio- carbonio ha, da parte
sua, indicato il 450 a.C. e pertanto il recinto non
deve possedere meno di 20 secoli di vita.

La connessione nel tempo e nello spazio fra codeste
due "ruote magiche " indica con chiarezza come vi sia
stata un'ininterrotta continuità di tradizioni e di
consuetudini fra gli amerindi delle prime età e i loro
successori.

Numerosi altri esempi di "strumenti" litici di analoga
fattura, potrebbero venir addotti. Assai curioso, per
la forma singolare, è il recinto ritrovato a Minton
Turtle, sempre nel Saskatchewan. Colà la disposizione
delle pietre ricorda l'aspetto di una grande
tartaruga, e i sei mucchi di massi destinati a far
prendere posto all'osservatore, rappresentano testa,
zampe e coda dell'animale.

Un enigma svelato?

Chi costruì le Ruote della Medicina? In realtà non è
possibile dare una risposta precisa. Sicuramente la
loro applicazione pratica risale ai precursori lontani
degli Indiani delle Praterie, il cui scopo era quello
di progettare pratiche rituali, alle epoche dovute,
onde esorcizzare demoni o placare dei. Questa esigenza
servì loro per sviluppare una certa abilità
all'osservazione del cielo, e a tramandare alcune
cognizioni astronomiche delle quali - in mancanza di
ogni tradizione scritta - solo mute pietre oggi ci
parlano. Nel luglio del 1975 i coniugi Kehoe, di cui
abbiamo già detto, ebbero l' occasione di assistere
alla dimostrazione di una "danza solare" organizzata
dagli Indiani Corvi nella riserva di Sweetgrass Cree
Saskatchewan. Al termine dello spettacolo, essi
rilevarono, con un interesse che può facilmente essere
immaginato, come i percorsi dei passi di danza che gli
esecutori dovevano seguire fossero stati
preventivamente segnati da una disposizione di pietre
che ricordava, in tutto e per tutto, quella mostrata
dalle Ruote Magiche! Uno spazio centrale, una
direzione d'ingresso rivolta a mezzogiorno, un
circuito anulare lungo il quale erano segnate le
stazioni in cui il danzatore doveva temporaneamente
arrestarsi.

Interrogati nei riguardi delle Ruote, i vecchi della
comunità non seppero dire altro che "esse erano state
abbanonate da un popolo che preesisteva a quello dei
Corvi". Quel popolo aveva le proprie cerimonie ed ebbe
origine in un'altra creazione. Il suolo consacrato
entro i recinti di pietra, dove ancor oggi molti
Indiani pregano, appartenne a quella stirpe ormai
estinta».

NOTE

(1) Eliaco: termine riferito ad astro che sorge e
tramonta rispettivamente prima e dopo il sole,
nell'istante in cui risulta appena percepibile nelle
luci del crepuscolo.

*Astrofisico

Monday, October 22, 2007

Anche gli alberi hanno un cervello

Anche gli alberi hanno un cervello
di Damiano Fedeli - 09/10/2005

Fonte: panorama.it


Ricercatori del dipartimento di ortoflorofrutticoltura
dell'Università di Firenze, uno dei centri ad avere
dato il via allo studio della neurobiologia delle
piante.
Le piante hanno una «testa pensante» con la quale
comunicano, prendono decisioni, ricordano perfino.
Alcuni ricercatori italiani sono stati tra i primi a
scoprirlo.



La prossima volta che vi capiterà di osservare un
albero, o anche solo un cactus della terrazza, certo
li guarderete con occhio diverso. Perché le piante,
dalla quercia più imponente al fiore più esile, hanno
una «testa pensante»: riflettono, si scambiano
informazioni o avvertimenti, prendono decisioni. E il
loro cervello segreto è nelle radici.

Una verità che Charles Darwin aveva già sospettato e
che viene confermata dalla scienza. Su ogni singola
punta delle radici (il nome è apice radicale) c'è un
gruppo di cellule che comunica usando
neurotrasmettitori, proprio come i nostri neuroni; e
queste cellule elaborano e rispondono alle
informazioni che arrivano qui da tutta la pianta.

Ciascun apice è autonomo, ma può anche coordinarsi con
gli altri. Un vero e proprio cervello diffuso il cui
funzionamento a rete ricorda quello di internet, e che
permette agli alberi non solo di comunicare, ma
persino di avere una memoria e una sorta di
autocoscienza.

La scoperta è di un gruppo di ricercatori delle
Università di Firenze e di Bonn e rappresenta una
svolta in ciò che finora si sapeva sui vegetali. È
nata persino una nuova scienza, la neurobiologia
vegetale, di cui si è tenuto di recente a Firenze il
primo congresso internazionale.

Gli studiosi della nuova disciplina hanno dato vita
alla Society for plant neurobiology e a una rivista,
Plant signaling & behavior (comunicazione e
comportamento delle piante). Nel capoluogo toscano sta
poi per nascere il primo laboratorio al mondo per
questa materia, destinato a diventarne centro di
riferimento.

«Le ricerche degli ultimi quattro anni hanno portato
prove che le piante si comportano come esseri
intelligenti. Il rischio per noi è stato che si
equivocasse una ricerca scientifica solida con
credenze popolari che hanno diffuso una serie
incredibile di sciocchezze» avverte Stefano Mancuso,
del dipartimento di ortoflorofrutticoltura
dell'Università di Firenze.

«La neurobiologia vegetale è nata qui e all'Università
di Bonn, con il team di Frantisek Baluska,
dell'Istituto di botanica molecolare e cellulare.
Abbiamo scoperto che in ciascun apice radicale c'è una
zona, detta di transizione, le cui cellule hanno
caratteristiche neuronali. Mettono cioè in atto una
trasmissione sinaptica identica a quella dei tessuti
neurali animali».

L'impulso scorre nel cervello della pianta attraverso
molecole, i neurotrasmettitori, molti dei quali sono
gli stessi con cui comunicano i neuroni animali. «In
questi apici troviamo glutammato, glicina,
sinaptotagmina, gaba, acetilcolina. Ci siamo chiesti:
che cosa ci stanno a fare, se le piante non hanno una
trasmissione sinaptica?» racconta il ricercatore. Se
era noto che i vegetali producono sostanze attive
neurologicamente, come caffeina, teina o cannabina, la
scoperta di neurotrasmettitori ha evidenziato
l'attività neurale.

Anche il ruolo del più importante ormone vegetale
finora conosciuto, l'auxina, è stato ridefinito.
Baluska: «Permette alla pianta di accrescersi o di
emettere nuove radici ed è un neurotrasmettitore
specifico dei vegetali, molto simile alle nostre
melatonina o serotonina».

«È tempo di dare il benvenuto alle piante nel novero
degli organismi intelligenti» afferma Peter Barlow,
della School of biological science dell'Università di
Bonn. Una prova di «intelligenza vegetale», del resto,
è il comportamento in caso di difficoltà. Le piante
agiscono infatti con lo stesso sistema prova-errore
degli animali: davanti a un problema procedono per
tentativi fino a trovare la soluzione ottimale di cui,
poi, si ricordano quando si presenta una situazione
simile.
Se per esempio manca acqua, aumentano lo spessore
dell'epidermide, ne chiudono le aperture, gli stomi,
evitando la traspirazione. Riducono poi il numero di
foglie aumentando quello delle radici per esplorare
zone vicine.

Viene da chiedersi, però, se non si tratti di stimoli
puramente meccanici. «No, si tratta di un
comportamento intelligente» sostiene Mancuso. «Se le
radici dovessero solo trovare acqua, potrebbe essere
automatico. Ma devono anche cercare ossigeno,
nutrienti minerali, crescere secondo il senso della
gravità, evitare attacchi.

E valutare quindi contemporaneamente le comunicazioni
chimiche che le piante si scambiano attraverso l'aria
e la terra: messaggi sullo stato di salute o sui
parassiti. Se sono attaccate da patogeni, comunicano
alle simili della stessa specie con gas e sostanze
volatili che c'è un pericolo, invitandole ad aumentare
le difese immunitarie. I vegetali, così, dimostrano di
essere anche sociali».

Sociali ma non necessariamente socievoli. Essendo
esseri territoriali, le piante si mandano segnali del
tipo «qui ci sono io», emettendo sostanze disciolte
nel terreno. Le radici intercettano le comunicazioni,
capiscono se hanno vicino una pianta della stessa
specie, e in tal caso la reazione è blanda, oppure se
è un'avversaria, e allora diventano aggressive fino a
lanciare sostanze velenose.

La risposta estetica come azione politica

La risposta estetica come azione politica
di James Hillman - 02/10/2005

Fonte: Moretti e Vitali


Coniugare estetica e politica, o bellezza e città, può
sembrare un'idea decisamente azzardata, ai giorni
nostri, mentre era comune e fondamentale nella vita
della Grecia antica. Despoti orientali e prìncipi
europei dilapidarono i loro patrimoni per far erigere
monumenti di imperituro splendore, in gloria dei loro
Dei - e naturalmente di loro stessi - ma anche per
allietare la gente che governavano - e che tassavano.
Una popolazione turbolenta veniva placata dalla
bellezza e dalla edificazione della bellezza: giardini
d'acqua, palazzi d'estate, padiglioni stravaganti,
cattedrali, mausolei, memoriali; cosa che ancora oggi
continua, con i grandi viali e gli imponenti edifici
delle nazioni repubblicane. Le opere estetiche
guadagnavano al sistema politico 1'orgoglio e il
consenso della gente, e questo sia nella Mosca
comunista che nella Pietroburgo zarista, sia nella
Roma fascista che a Washington, con templi di marmo
bianco per i suoi eroi secolari.

Questo modo di coniugare estetica e città lascia però
la psiche insoddisfatta. L'estetica è ridotta a
politica, mentre la bellezza serve uno scopo
ulteriore: la manifestazione tangibile, concreta,
della dottrina. La propaganda fissata nella pietra.

lo credo invece che la relazione fra estetica e
politica sia più personale e psicologica. Sta nelle
nostre reazioni nei confronti del mondo in cui
viviamo. Ogni giorno il nostro senso del bello gira
per il mondo, ci accompagna in macchina, nei negozi,
in cucina. Nell' arco della giornata è un continuo,
sottile rispondere esteticamente al mondo. Vediamo le
sue immagini, sentiamo gli odori che ci trasmette, e
impercettibilmente ci aggiustiamo al suo volto. Ed è
in questi aggiustamenti, proprio perché subliminali,
che oggi è nascosto "l'inconscio". Siamo inconsci
delle nostre risposte estetiche. E anche se il compito
della terapia resta essenzialmente quello che è stato
per tutto il ventesimo secolo, e cioè il tentativo di
risvegliare la coscienza, è invece cambiato il focus
di questa coscienza risvegliata. Adesso, diventare
coscienti significa non soltanto diventare coscienti
dei nostri sentimenti e dei nostri ricordi, ma
soprattutto risvegliare le nostre risposte personali
al bello e al brutto. Siamo diventati inconsci
dell'impatto del mondo, le nostre anime come murate
nei suoi confronti.

I primi accenni a questa soluzione più privata,
psicologica, alle implicazioni politiche
dell'estetica, fecero la loro comparsa nella
conferenza che tenni a Eranos, sul Lago Maggiore,
nell'estate 1976. In quell'occasione proposi una
psicologia del profondo dell'estroversione. Il
"profondo", anziché concepirlo soltanto come interno
al soggetto, poteva essere trovato anche nell'
oggetto, nelle immagini che il mondo ci offre. Anche
queste sono facce da leggere come manifestazioni dell'
anima.

Allora cercavo di liberare la psicologia del profondo
dalla sua tendenza introversa e soggettivistica,
introducendo un concetto che è fondamentale nella
fenomenologia e nella psicologia della percezione
diretta: entrambe sostengono infatti che il profondo è
dato nella superficie, che il mondo, cioè, si offre
esteticamente.

Questa svolta in direzione del profondo "là fuori" ,
fu di lì a poco rinforzata dal mio trasferimento, nel
gennaio 1978, dall'Europa a Dallas, nel Texas. In
questa città, così fortemente estroversa, era in corso
la costruzione dei più importanti luoghi pubblici, e
le relazioni fra politica, bello e brutto, erano negli
occhi di tutti, nella mente di tutti.

Fu però soltanto nell'ottobre del 1981 che iniziò a
prendere forma un'intuizione psicologica più profonda,
sotto gli auspici ispiratori di Francesco
Donfrancesco, che ha curato questo libro, e di Paola
Donfrancesco, che con passione lo ha tradotto. In
Palazzo Vecchio, a Firenze, mi fu offerta infatti la
possibilità di elaborare abbastanza distesamente
quell'intuizione che ha finito per diventare Politica
della bellezza. In quell' occasione cercai di fondare
la psicologia del profondo, e anche la terapia,
sull'idea neoplatonica rinascimentale dell' anima
mundi.

Se l'anima, come dice Plotino, «è sempre un'
Afrodite», allora essa ha sempre a che fare con la
bellezza, e le nostre risposte estetiche sono la prova
dell'attiva partecipazione dell'anima al mondo. Il
nostro senso del bello e del brutto ci porta fuori,
nella polis, attivandoci politicamente. Il solo fatto
di accorgerci di quello che ci sta intorno, e di
rispondervi con un moto di istintivo disgusto o di
desideroso trasporto, fa sì che veniamo coinvolti. La
nostra psiche personale è sintonizzata con il
presentarsi dell' anima del mondo. La risposta
estetica è immediata, istintiva, animale, e precede
nel tempo e nell' ontologia i gusti che rendono
elaborata la risposta e i giudizi che la giustificano.

Ogni repressione di quella risposta non soltanto è
deleteria per la nostra natura animale, ma è anche una
ferita istintuale nociva al nostro benessere, come è
nociva la repressione di qualunque altro istinto. Ma
la risposta estetica negata, questo ignorare l'impulso
estetico della psiche, è anche un arrogante insulto
alla presenza del mondo. Passeggiare accanto a un
edificio maldisegnato, vedersi servire del cibo
preparato in modo sciatto e accettarlo, mettere sul
proprio corpo una giacca tagliata e cucita male, per
non parlare del non sentire gli uccelli, del non
accorgersi del crepuscolo... tutto questo significa
ignorare il mondo. Eppure, questo stato di ignoranza,
questa an-estesia, è in larga misura la condizione
umana attuale. Ed è sostenuta e favorita dalla nostra
economia, dal nostro modo d'impiegare il tempo libero,
dall'uso che facciamo della refrigerazione, dai nostri
mezzi di comunicazione e di trasporto e, naturalmente,
dai nostri modi di curarci.

Dal momento che questa anestesia, questo "ottundimento
psichico" - come la chiama Robert J. Lifton, che ha
studiato a fondo le catastrofi collettive - è così
diffusa ai giorni nostri, ho il sospetto che favorisca
la passività politica del cittadino euro-americano, e
quindi aiuti i poteri dominanti a proseguire, senza
impedimenti, sulla loro rotta rovinosa. Se noi
cittadini non facciamo caso all'assalto del brutto,
restiamo psichicamente ottusi, ma siamo ancora
affidabilmente funzionali come lavoratori e come
consumatori. Possiamo ancora affrettarci a lavorare, a
comprare, a tornare a casa alla TV, quotidianamente,
diligentemente, faticando come bestie - come cavalli
da tiro con i paraocchi - nella convinzione errata che
le nostre sofferenze personali abbiano la loro
esclusiva origine nelle nostre relazioni personali. E
le psicoterapie colludono con queste convinzioni
errate, insistendo che la depressione e l'aggressività
che proviamo derivano dai rapporti umani del passato e
non dalle inumane violenze che il nostro istinto
estetico riceve nel presente. La terapia fallisce il
suo scopo quando perde di vista l'importanza
quotidiana che Afrodite riveste per l'anima.

Non riconoscendo la realtà dell'anima mundi e il
riflesso che ha sulla nostra anima personale,
prendiamo ogni sofferenza su di noi -mea culpa - e
restiamo inconsapevoli della sofferenza dell' anima
del mondo, di come siano torturate le sue strutture,
di come essa sia esiliata in una nichilistica natura
selvaggia, e di come aneli a tornare a una cosmologia
che dia il primo posto alla sua bellezza.

Tutti noi sappiamo come impegnarci nell'azione
politica: partecipare a campagne, a marce, protestare,
resistere. Sappiamo il coraggio che l'azione richiede
e il rischio che comporta, ma non sappiamo di avere
anche altri mezzi di azione, mezzi che richiedono
anch'essi coraggio: il coraggio del cuore di battersi
per le sue percezioni. E se non ci battiamo, se non ci
esprimiamo in favore del nostro senso estetico, quel
velo funebre che è la conformità ottundente finirà per
togliere ogni forza al nostro linguaggio, al nostro
cibo, ai luoghi dove lavoriamo, alle strade delle
nostre città.

Piccoli atti di protesta e di apprezzamento aprono
delle brecce nella condizione di ottundimento.
Ciascuno di noi può essere un eroe del cuore, perché
questo tipo di risposta personale, per quanto semplice
possa sembrare, va ancora più in profondità delle
consuete proteste sui generi, sul razzismo, sull'
ambientalismo. Qui non ci sono "ismi", non c'è
ideologia: siamo al servizio dell'inestinguibile
desiderio di bellezza che ha l'anima. Non dobbiamo
dimenticare che, nel racconto di Apuleio, Psiche era
immaginata come il personaggio più bello di tutto il
mito classico.

Sono fermamente convinto che se i cittadini si
rendessero conto della loro fame di bellezza, ci
sarebbe ribellione per le strade. Non è stata forse
l'estetica, ad abbattere il Muro di Berlino e ad
aprire la Cina? Non il consumismo e i gadget
dell'Occidente, come ci viene raccontato, ma la
musica, il colore, la moda, le scarpe, le stoffe, i
film, il ballo, le parole delle canzoni, la forma
delle automobili. La risposta estetica conduce all'
azione politica, diventa azione politica, è azione
politica.

Friday, October 19, 2007

Se la psicoanalisi volta le spalle a Edipo

il manifesto 19.10.07
Se la psicoanalisi volta le spalle a Edipo
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce
lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici
finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini
conflittuali legate all'oggetto del desiderio
di Fausto Petrella

Il grande mitografo Karol Kerényi mostra, in due
importanti saggi del 1966 e del 1968, la persistente
presenza del mito di Edipo nella cultura occidentale,
a partire dalla più illustre tra le sue espressioni
che l'antichità ci ha rimandato, la tragedia di
Sofocle, Edipo re. A subire il fascino di un mito le
cui origini si perdono nell'oscurità del passato più
remoto, e a garantirne la continuità, sono stati
moltissimi scrittori e poeti ai quali Kerényi fa
riferimento: da Seneca a Hölderlin, sino a
Hofmansthal, Cocteau e Gide nel '900. Ma furono
profondamente attratti da Edipo anche Thomas Mann,
Borges, Dürrenmatt, ognuno introducendo nuove
varianti, adattando il mito al proprio tempo e al
proprio sentire. Naturalmente, nel lungo tragitto
percorso dal mito edipico nei secoli, lo spartiacque
fondamentale resta l'incontro di Sigmund Freud con la
tragedia di Sofocle: era questo il «classico» che
studiò nel suo ultimo anno di liceo e dal quale
avrebbe sviluppato, dopo una gestazione
straordinariamente laboriosa, la nozione di «complesso
edipico», formulata nella sua versione completa a ben
dieci anni di distanza dall'Interpretazione dei sogni.
Slittamento di attenzione
La mossa freudiana fondamentale fu quella di vedere
nel mito edipico l'esteriorizzazione e la messa in
scena narrativa di quelle vicissitudini emotive che
rispecchiano i desideri infantili, sia amorosi che
ostili, presenti nei rapporti inconsci che governano
la famiglia e le generazioni. La psicoanalisi ha
insomma psicologizzato il mito, facendolo diventare
l'espressione di processi e affetti presenti, in gran
parte inconsciamente, in ogni bambino, e quindi in
ogni genitore.
Nella seconda metà del '900, tuttavia, la grande
narrazione edipica, con il suo potenziale emancipante,
ha lasciato il posto a micronarrazioni locali, a
oggetti parziali frammentari e all'iconografia
relativa, evidenziando la tendenza a dimenticarsi
dell'Edipo o a attribuirgli un valore scontato. Le
ragioni di questo progressivo oblio sono molteplici, a
partire dall'evidenza per cui la crisi del modello
familiare non impedisce che i genitori - queste «due
sfingi presenti alle soglie della vita», come scriveva
Peter Weiss nella sua autobiografia - continuino a
svolgere le loro funzioni strutturanti nella crescita
del bambino, ma in un registro svalutato e incerto,
spesso distorto e meno appariscente di quanto non lo
fosse in passato.
Del resto, fa parte del mito di Edipo, e del suo
crudele antefatto, anche il nostro destino di «navi
lasciate all'abbandono» in acque gelide, come cantava
Metastasio, nell'aria di un suo libretto d'opera.
Resta vero, comunque, che gli psicoanalisti farebbero
bene a non allontanare Edipo dalla loro cittadella
teorica e clinica, perché anche se rischiamo di non
vederlo, accecati come lui, il complesso che ne porta
il nome è ancora presente fra noi.
E se è evidente che il superamento della fase edipica
comporta ancora oggi il suo attraversamento, la sua
messa in scena nei sogni e il suo rendersi attivo
nelle dinamiche della vita, altrettanto chiaro è il
fatto che la sua mancata o abortita costituzione
caratterizzano molte personalità patologiche gravi e,
tipicamente, le perversioni. D'altra parte, il
deperimento odierno dell'Edipo nella teoria e nella
clinica psicoanalitica impedisce di vedervi il
complesso nucleare delle nevrosi.
Da vari decenni, come è noto, ci si concentra più
volentieri sulle fasi pre-edipiche e pregenitali,
nonché sul funzionamento della coppia madre-bambino -
sulla diade, dunque, e non sul triangolo tipico del
complesso edipico - quando si analizza la costruzione
del sé del bambino e la formazione del suo senso di
realtà. Ma questa unità rappresentata dalla coppia
madre-bambino è continuamente esposta a una cesura
obbligata, entro la quale fa la sua comparsa il
fantasma del terzo, che sia o meno il vero padre.
Più che uno spostamento di accento, i modelli
psicoanalitici hanno dunque subito uno spostamento del
loro fulcro: dalla considerazione primaria attribuita
all'eros e al soddisfacimento pulsionale sono passati
alla valorizzazione dei processi relazionali che
mirano a mitigare la distruttività emergente,
sacrificando la vita amorosa e la relazione con
l'altro.
Un compito ineludibile
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce
lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici
finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini
conflittuali legate all'oggetto del desiderio.
Infatti, sembra sia tramontata quella valorizzazione
del piacere che corrispondeva a una concezione dello
sviluppo umano nata nella sicurezza del contenimento
familiare e nella costanza dell'«ambiente» morale;
questo processo era ritenuto essenziale per potere
procedere alla identificazione di sé con esempi
positivi, per fondare la calma interiore, per
ritrovare la quiete dopo le tempeste. E mentre, nel
corso del secolo passato, simili sicurezze sono andate
perdute, nella teoria e nella pratica della
psicoanalisi si è fatta strada l'idea che piacere e
sicurezza (due funzioni garantite, per il bambino
piccolo, dalle figure dei genitori) non trovino più
una chiara integrazione, anzi divorzino. La
psicoanalisi odierna ha una vocazione spiccata per
tutto ciò che è elementare, per i momenti più
infantili dello sviluppo, mentre rischia di far
mancare il suo impegno nell'analisi e nello smontaggio
dei dispositivi del carattere, che si concretano dopo
l'età della latenza e nella ripresa adolescenziale del
conflitto edipico.
Patologie identitarie
Salutiamo con gioia i momenti in cui nell'analisi si
fa strada un'idea di sé più libera, una superiore
visione dell'amore, capace di opporsi al super-Io
sociale e al senso di colpa: è qualcosa che si può
sviluppare tanto nell'analisi individuale quanto in
quella di gruppo, è un bene difficile da conquistare
nella realtà, ma che è anche facile perdere per via.
Però, la necessità di pensare sempre più profondamente
l'ingranaggio psicologico e sociale che ci circonda
impone alla psicoanalisi il compito, non più
eludibile, di ripensare l'Edipo, perché la sua
latitanza non significa che sia scomparso, bensì che
viene evitato, sia dal paziente che dal terapeuta. Ne
deriva, se ci guardiamo intorno, il proliferare di
disturbi dell'identità e di grandi fenomeni di
patologia collettiva.
Forse questo cuore pulsante della vita emotiva non
batte più, o più probabilmente nessuno lo prende in
considerazione e lo ascolta.
---
commento:
non sono l'unico ad affermare e sostenere che Freud,
per condizioni culturali, non fosse capace di
comprendere il mito di Edipo.
Dati biografici della vita di Freud ci dicono che
venne turbato dal vedere nuda sua madre durante un
viaggio. Aggiungiamo il difficile rapporto con il
padre, derivante da un comportamento poco "virile"
durante un'aggressione verbale, possiamo così
comprendere come alcuni aspetti della psicanalisi di
Freud rappresentassero suoi problemi personali.
Purtroppo la visione religiosa monoteista in cui era
immerso ha ripodotto i suoi problemi su quasi tutta
l'umanità.
Francesco Scanagatta

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Tra musica e inconscio un legame profondo

il manifesto 19.10.07
Attualità del mito
Tra musica e inconscio un legame profondo
Cinquant'anni prima che Freud scrivesse
l'«Interpretazione dei sogni» Wagner scendeva, con la
sua Valchiria, nei meandri dell'esperienza emotiva
dominata dal non-detto
di Pietro Bria

«Come, dunque, si volge via il dio da te, così bacia
via dai tuoi occhi la divinità»: sono le parole piene
di commozione con cui il dio Wotan - nel finale della
Valchiria - si congeda dalla figlia Brunilde, che è
costretto ad allontanare da sé e a privare del suo
essere divino. Ma è anche la frase che per Giuseppe
Sinopoli traduce quello splendido ossimoro con cui
Wagner tenta di descrivere e di mettere in musica la
ferita degli affetti che si è aperta nell'animo del
dio: Wotan, infatti, è spinto a recuperare l'unione
perduta con la figlia e, al tempo stesso, a
separarsene, a prendere commiato da lei. Proprio in
questo momento drammaturgico di così forte impatto
emotivo può riassumersi il senso più profondo della
vocazione psicoanalitica di Sinopoli, che lega la
musica all'inconscio delle passioni umane.
La logica degli affetti
Mettere l'inconscio in musica implica, comunque, un
assunto di base che va condiviso: quello secondo cui
la musica non è un puro gioco di forme sonore
sprovvisto di una semantica propria; perché nasce,
invece, come fatto o evento espressivo che trova la
sua materia prima nelle profondità degli affetti umani
a contatto con sensazioni ancora oscure e nebulose:
quelle sensazioni che, come voleva Gustav Mahler,
«aprono la strada all'altro mondo, in cui le cose non
hanno tempo e spazio» e attendono di essere messe in
forma di pensiero.
È stato Matte Blanco, il grande psicoanalista cileno
da alcuni anni scomparso, a dotare, sulla scia di
Freud, questo «altro mondo» - il mondo dell'inconscio
- di una logica propria, che è logica degli affetti e
logica dell'infinito. Ebbene, Sinopoli ha raccolto
questa lezione e l'ha realizzata in musica attraverso
un altro incontro straordinario, che lo ha impegnato
come compositore, come interprete e come uomo: la
musica con cui Wagner - cinquant'anni prima che Freud
scrivesse l'Interpretazione dei Sogni - si era
avventurato, prefigurando le scoperte della
psicoanalisi, nei labirinti dell'inconscio, laddove la
coscienza umana si stratificava e si scopriva
determinata dai livelli del «non-detto» (il rimosso
freudiano) o, più fondamentalmente, dall'
«in-dicibile» che è proprio dei livelli
dell'esperienza emotiva.
Ho vissuto con Sinopoli questa grande avventura che
l'ha portato a intuire come la «discesa»
nell'inconscio avvenga in Wagner tramite quello
straordinario dispositivo - che è tecnica compositiva
ma anche procedura conoscitiva - costituito dal
Leitmotiv o tema conduttore, vero motore della
drammaturgia wagneriana. Il Leitmotiv ha la funzione
non solo di rimandare o richiamare l'attenzione su un
personaggio o su una specifica situazione
psicodinamica (come è il caso della perdita o
dell'amore o della redenzione) ma anche quella più
fondamentale di attrarre o trascinare a sé motivi e
tempi musicali, stabilendo associazioni o contrasti
con altri temi o altri motivi, oppure subendo
trasformazioni più o meno profonde della propria
struttura che lo rendano irriconoscibile.
Ciò dà luogo a una rete o ibrido musicale che
determina una perpetua instabilità armonica e timbrica
e permette di accedere - come una sonda psicoanalitica
- a diversi livelli di coscienza dei personaggi e
delle situazioni: «percorsi labirintici, viaggi
prospettici nella mente e nelle emozioni dove ai
leitmotive più evidenti si intrecciano altri nascosti,
sfuggenti, pronti a segnalare aspetti inconsci».
Il risultato straordinario di questa procedura
continuamente «compromissoria» è che lo spazio lineare
e discreto della narrazione, così come lo spazio della
coscienza in Freud, viene - attraverso la musica dei
Leitmotive - continuamente immerso in un altro spazio,
multidimensionale, che è spazio dell'inconscio e
matrice di emozioni su cui il racconto appare sospeso.
In questa matrice albergano non solo violenti
conflitti pulsionali - di cui la Tetralogia wagneriana
è tutta intessuta - ma anche massicce proiezioni di
desideri e dissoluzioni più o meno ampie
dell'identità, che nessuna realizzazione scenica
tridimensionale avrebbe potuto portare in piena luce;
compresa la raffigurazione onirica sebbene, per Freud,
essa fosse la «via regia verso l'inconscio». Questa
impossibilità strutturale aveva convinto Wagner a
auspicare per il suo dramma musicale, dopo l'orchestra
invisibile, una scena invisibile finalmente liberata
dal sensibile per raggiungere una «comprensione più
esaltante, più visionaria del tutto».
Pierre Boulez, introducendo la sua ormai storica
esecuzione di Bayreuth, disse al riguardo - e in
sintonia con Sinopoli - che il concatenarsi dei motivi
nel tessuto strumentale «viene a creare un mondo la
cui indipendenza nei confronti della scena si
manifesta in modo crescente», fino al punto in cui è
possibile osservare «quasi una dualità fra l'universo
drammatico e quello musicale, poiché quest'ultimo
diviene infinitamente più ricco dell'altro e tende,
con la sua stessa proliferazione, ad accaparrare tutta
la nostra attenzione».
La musica sopprime il tempo
Nella Valchiria - afferma Sinopoli - questo sviluppo
del Leitmotiv trova il suo acme espressivo «grazie a
una tecnica meravigliosa di variazione aperta,
continua, cellulare, tipica del Wagner maturo, che
consente alla memoria di interagire con il presente:
un «procedere multiforme di passato e presente» che ha
portato un grande studioso di Wagner come Ernst Bloch
a parlare di «psicoanalisi del Leitmotiv onnisciente».
Tecnica, questa, che si realizza in modo assai
significativo nel finale dell'opera, quando la musica
sublime che Wagner costruisce intrecciando i motivi
dell'addio di Wotan con quelli del sonno e del suo
incantesimo permette di dare espressione a
quell'indicibile antinomia di affetti che agita
l'animo del dio-padre nel momento in cui, in
obbedienza alla legge istituita, egli deve separarsi
dalla figlia Brunilde: la figlia che incarna (e
incarnerà) il suo più profondo desiderio di amore.
E così la musica, arte del tempo, ritrova la sua
funzione originaria che è, come afferma Levi-Strauss,
quella di sopprimere il tempo. Un legame con
l'in-divisibile e con l'infinito che è anche
all'origine della sua capacità di influenzare gli
animi, così come le riconosceva Platone, e che si
attualizza nel momento dell'ascolto.

Thursday, October 18, 2007

Cassazione: «Rifiutare le cure non è eutanasia»

l'Unità 17.10.07
Cassazione: «Rifiutare le cure non è eutanasia»
di Anna Tarquini

ELUANA forse ce la farà a morire. Ci sarà un nuovo
processo e il giudice, questa volta, potrà dare l'ok a
staccare la spina senza il timore della galera, senza
che nessuno la chiami eutanasia. Quindici anni di
tormento e soprattutto di delusioni. Ma ieri la Corte
di Cassazione ha dato la spallata che tutti si
aspettavano. Ha detto che no, il rifiuto delle terapie
non può essere scambiato per eutanasia (che è poi il
punto forte di chi si oppone strenuamente alla legge).
E ha ordinato ai giudici di Milano di tornare in
giudizio perché i due no alle richieste del tutore di
Eluana Englaro a staccare la spina, cioè a suo padre,
non erano congrui visto che i togati avevano omesso di
ricostruire la reale volontà di Eluana. E dice di più,
dice: «Il diritto all'autodeterminazione terapeutica
del paziente non incontra alcun "limite" anche nel
caso in cui ne consegua il sacrificio del bene della
vita e uno Stato come il nostro organizzato, per
fondamentali scelte vergate nella Carta
costituzionale, sul pluralismo dei valori non può che
rispettare anche quest'ultima scelta».
La sentenza è la numero 21748 e il collegio che ha
redatto il nuovo orientamento segnando una tappa
storica era presieduto da un giudice donna, Gabriella
Luccioli, il primo magistrato donna ad entrare in
Cassazione. Sessanta pagine dove la parola eutanasia
viene usata una volta sola, e non a caso, per chiarire
appunto che il rifiuto delle terapie non può essere
scambiato per eutanasia, ma la scelta (libera scelta)
del malato a che la malattia prosegua il suo corso.
Dicono i giudici che il magistrato può autorizzare il
distacco della spina di un apparecchio che tiene in
vita un paziente solo in due casi: quando «tale
istanza sia realmente espressiva, in base a elementi
di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce
del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal
suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima di
cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di
dignità della persona», e quando «la condizione di
stato vegetativo sia, in base a un rigoroso
apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia
alcun fondamento medico, secondo gli standard
scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre che la persona abbia la benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero
della coscienza e di ritorno a una percezione del
mondo esterno». Solo in questi due casi, ma in questi
due casi deve, dice la Cassazione, pure in assenza di
leggi, rispettare una volontà che è un diritto
espressione stessa del nostro Stato e della nostra
Costituzione.
Sarà ora una diversa sezione della Corte di Appello di
Milano a riaprire l'istruttoria che potrebbe portare
al rispetto dei desideri di Eluana. I giudici di
merito - ha spiegato l'avvocato Vittorio Angiolini,
legale degli Englaro - potrebbero sia disporre che un
pool di medici certifichi le condizioni di
irreversibilità dello stato della ragazza, sia
riascoltare le testimonianze delle amiche di Eluana
sulla sua volontà. Il medico che ha curato Eluana,
Carlo Alberto Defanti, si dice pronto a intervenire se
e quando gli sarà chiesto. Ma contro la Cassazione già
muove la sua protesta la Chiesa: «Noi vescovi
ribadiamo la difesa della vita sempre - ha detto il
segretario della Cei monsignor Giuseppe Betori - fino
alla sua naturale conclusione e il riconoscimento
dell'idratazione indotta come diritto della persona
alla vita e non come accanimento terapeutico».
----
commento:
come sempre i cattolici sono impegnati nell'impedire
che i diritti delle persone siano tutelati, fanno di
tutto perchè la volontà delle persone non venga
considerata.
Per i cristiani la vita non appartiene alle persone.
Per i cristiani solo il loro dio ha il diritto di vita
e di morte delle pecorelle.
Francesco Scanagatta

Il Paradiso non c'è

Corriere della Sera 18.10.07
Nel nuovo libro, «Oltrepassare», il filosofo lancia
l'ultima provocazione: la morte non esiste
Il Paradiso non c'è, ma siamo destinati alla felicità
Emanuele Severino disegna uno scenario ultraterreno
alternativo a ogni fede
di Armando Torno

Che cosa angoscia l'uomo da sempre? La risposta è
semplice: la morte. Lo sapevano già egizi, babilonesi
ed ebrei, lo compresero magnificamente i greci, a Roma
Lucrezio spiegò le conseguenze mondane e religiose di
questa paura. Ma forse tali caratteristiche le ebbe
(le ha) quella morte che non lascia una possibilità di
salvezza. Il nulla che ci avvolge, per dirla in parole
semplici. Giacché siamo fatti della stessa sostanza di
cui sono composti i sogni, e la nostra breve vita è
circondata dal sonno: così, almeno, scrisse ne La
Tempesta il sommo Shakespeare.
Emanuele Severino ha mostrato in Gloria (Adelphi,
2001) come la salvezza da questo concreto nulla non
sia una semplice possibilità ma una vera e propria
necessità, perché «l'uomo è atteso dalla terra che
salva». In altri termini, anche se non lo sa o non se
ne accorge o non ci crede, ognuno di noi è in cammino
verso un immenso che non immagina. E ora il discorso,
che si dipana attraverso scenari a dir poco
sconvolgenti, è affrontato da Severino in un'altra
opera, che esce in questi giorni e alla quale ha
lavorato negli ultimi anni: Oltrepassare
(Adelphi). In essa un messaggio forte e sintetico
colpisce il lettore: noi siamo destinati alla
felicità, per necessità e non come premio. E la vita
eterna non è quella di cui parlano le religioni.
Per talune tematiche il libro è, rispetto a Gloria,
«rischiaramento e sviluppo», il medesimo autore lo
considera come la seconda parte e la naturale
conclusione (p. 30); tuttavia in questa nuova opera si
mostra come «la terra che salva» sia «infinitamente
più ampia, cioè più salvatrice». Non soltanto: in
Oltrepassare il senso autentico del divenire rivela
una «complessità che in Gloria non viene ancora
indicata». Insomma, pagine ricchissime di spunti, da
meditare, che portano alle estreme conclusioni quel
discorso che il maestro italiano avviò nel 1958 con La
struttura originaria.
Severino ha filosofato partendo dalle istanze iniziali
del pensiero occidentale e ha sempre tenuto presente
il principio di non contraddizione insegnato da
Aristotele. Anzi, egli ha via via indicato i punti
deboli di molti edifici abitati dal nostro sapere. In
un colloquio ci ha fatto notare che all'alba della
sapienza greca si è cercato un linguaggio che non
potesse essere smentito né dagli uomini né dagli dei,
meno che mai da variazioni epocali o catastrofi o da
qualsiasi innovazione dell'anima. Eraclito di Efeso,
sei secoli prima della nostra era, raccomandava di non
ascoltare lui ma il Logos, vale a dire qualcosa da
cercarsi oltre le opinioni. Severino ha sempre
percorso tale via sino a giungere a Oltrepassare: con
questa opera apre scenari che parlano di «attesa e
gloria della gioia», invitando il lettore in quella
costellazione dove «l'essenza dell'uomo, che ora è
contesa dal destino e dalla terra morta, è destinata
alla più ampia arcata d'immenso». La domanda che ha
accompagnato la sua instancabile ricerca — che cosa si
apre al di là della contraddizione? — ora trova requie
in una risposta che si confonde con il nostro sorriso.
Detto in soldoni, a noi sembra che il messaggio di
Oltrepassare sia la conferma per il pensiero di
Severino che «l'estrema delle follie», vale a dire la
persuasione che le cose e l'uomo «sporgano
provvisoriamente dal nulla», rappresenti il più
terribile degli equivoci. Ci confida: «La gran ventura
è rendersi conto che c'è un sapere non smentibile, più
radicale di quello scientifico, che afferma l'eternità
di ogni cosa, situazione, stato del mondo». Tale
sapere è il «destino». Qualcuno ha trovato una
corrispondenza tra codesti temi e la teoria della
relatività, per la quale tutte le cose— le passate e
le future, non meno delle presenti— sono fotogrammi
che esistono già, eterni, prima dello loro proiezione.
Ma questa metafora deve essere abbandonata, giacché ci
può aiutare ma non ci consente di entrare nell'ultima
fase rappresentata in Oltrepassare.
Si può essere d'accordo o no con Severino, comunque
gli va riconosciuta una coerenza estrema nel
linguaggio e nel metodo. Gli abbiamo chiesto di
sintetizzare il suo percorso, in modo da offrirlo
senza equivoci al lettore. Ha risposto: «Ne La Gloria
si mostra che l'ombra della Notte, cioè della follia,
da cui "il destino" è nascosto, è qualcosa che
tramonterà ed è necessariamente "oltrepassata": con
essa finiranno anche le opere, le civiltà e le epoche
ad essa appartenenti. Si fa innanzi il Giorno che
salva dalla Notte. In Oltrepassare si mostra che il
Giorno è lo stesso apparire in noi della totalità
infinita e concreta dell'essere ».
Parlare con Severino è una continua sorpresa. Mentre
risponde, alcune sue frasi si ficcano come spilli
nella memoria. Inoltre Oltrepassare conduce in scenari
a dir poco affascinanti, per i quali vale la seguente
regola: «Il linguaggio che testimonia il destino della
verità indica qualcosa che sta al di là di ogni
sapienza dei mortali». Attraverso queste pagine si
comprende come «il cambiamento — il divenire — non può
essere la creazione e l'annientamento delle cose, che
sono eterne »; anzi ogni mutare si dovrebbe intendere
come «il sopraggiungere mai compiuto degli eterni
nell'eterna luce dell'uomo». Di più, ribadisce nel
nostro colloquio, sillabando: «Nel sopraggiungere gli
eterni sono oltrepassati e insieme totalmente
conservati. Tutta questa nostra vita è destinata a
essere oltrepassata e conservata in ognuno di noi».
Chi scrive, più semplicemente, rivede in Oltrepassare
un foglietto volante inserito nella dispensa
dell'Università Cattolica di Ritornare a Parmenide.
In esso le ultime righe — che poi non saranno riprese
ne L'essenza del nichilismo — recitavano: «Tutte le
vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che ho
deciso o decido, l'ho già eternamente deciso...». Ora
ci accorgiamo che quelle parole erano l'inizio di
un'odissea alla ricerca di quanto si svela in questo
ultimo libro, nel quale, tra l'altro, Severino
affronta il tema dello «smembramento del Dio», atto
essenziale perché «se ne mangino le carni e se ne beva
il sangue». Ma qui il discorso si fa ampio: occorre
evocare il mito, comprendere la violenza e
l'isolamento delle cose, il loro divenire altro.
Accanto a questi e a ulteriori scenari, troverete
alcune commoventi riflessioni sulla nostra fine. Con
una conclusione che in molti giudicheranno
paradossale: la morte, così come la intendiamo, non
esiste. Ma non si tratta di un'affermazione assurda,
se vista nella luce che si apre dopo il tramonto della
follia attuale dell'uomo.

Monday, October 15, 2007

Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?

Repubblica 10.1.07
LE IDEE
Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?
di GUSTAVO ZAGREBELSKY

Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato
tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in
negativo, come i non-cattolici), presuppone una
condizione: che le parti si riconoscano pari, in
razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto
che l´altro non è solo uno che pensa diversamente, ma
è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o un
immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà
tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige
questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si
potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega
che procrastina lo scontro e rafforza intanto le
posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà.
Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva
perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi
è colto in errore, si libera di un male e quindi
riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per
comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e
apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua
strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate.
Onde, se sinceramente si dice: "Il dialogo, così
necessario, tra laici e cattolici" (J. Ratzinger,
L´Europa nella crisi delle culture, Il Regno –
documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo
riconoscimento di razionalità e moralità sia
acquisito. Ma è così?
Nei pubblici interventi della gerarchia cattolica
sulla condizione della fede cristiana nel mondo
attuale, domina un dubbio angoscioso circa la fine
imminente di un ciclo storico, iniziato
millesettecento anni fa, con l´unione della fede
cristiana e della potenza politica, rappresentata
allora dall´Impero romano. Il dubbio non è che la fede
religiosa, e tanto meno la fede cristiana, in quanto
tali, siano destinate a scomparire: l´evidenza mostra
il contrario.
Il dubbio serpeggiante è invece che la fede cattolica
sia destinata a essere assorbita nella sfera puramente
soggettiva delle essenze spirituali individuali,
perdendo così valore oggettivo e vincolante di
coesione sociale. In una formula: credere senza
appartenere. Così si spiega l´insistenza, mai stata
così accentuata, sulla dimensione necessariamente
pubblica o politica della religione cristiana
cattolica (e solo di questa). L´Europa, si ripete
all´infinito, è in decadenza e, si aggiunge, ciò
deriva dal fatto che l´oggettività sembra essere
diventato il privilegio esclusivo della scienza. Tutto
ciò che scienza non è, sarebbe irrimediabilmente
sottoposto al relativismo delle credenze individuali
che, nella sfera pubblica democratica, si esprimono
illimitatamente e arbitrariamente con la forza del
numero.
Nihil sub sole novum. Se leggessimo oggi la Quanta
cura, l´Enciclica del Sillabo (1861), troveremmo molte
ragioni di riflessione comparativa tra lo spirito di
allora e quello che domina oggi nelle alte sfere. In
quella «tristissima età nostra», scriveva Pio IX, si
trattava di difendersi dalla secolarizzazione
politica, dal liberalismo, dalla libertà di coscienza,
dalla riduzione dell´autorità a forza del numero,
dalla filosofia senza teologia; in breve: dalla
«moderna civiltà». Oggi molte cose sono cambiate, a
iniziare dal linguaggio, onde non si parla più, ad
esempio, di uomini empi «che schizzano come i flutti
di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e
promettono libertà, mentre sono schiavi della
corruzione» (una citazione tra tante). Ma la
sensazione cattolica dell´assedio in «una Europa –
diciamo così (così dice il papa Benedetto XVI) – in
decadenza» non è diversa. Le cause sono ancora quelle
di allora, attualizzate: non più il liberalismo ma la
democrazia «insana», cioè basata sull´onnipotenza del
numero; non più la libertà di coscienza ma il
«relativismo etico»; non più la filosofia atea ma la
scienza che non conosce limiti. Allora come oggi, la
radice del male è il rifiuto di riconoscere nel
magistero della Chiesa, in ultima e decisiva istanza,
il fondamento vincolante della civiltà europea, un
rifiuto che sottoporrebbe l´Europa di oggi a una
"prova di trazione" fuori della tradizione cristiana.
Ciò che sembra diverso è l´atteggiamento: allora, alla
denuncia del male, seguiva il rifiuto del mondo
ostile; oggi, l´apertura al mondo. I nemici di allora
sono diventati «i nostri amici che non credono», con i
quali si cerca meritoriamente non solo di convivere,
ma anche di collaborare. Non si lanciano anatemi, ma
si danno consigli (come quello di «vivere e
indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse») e
si partecipa intensivamente a quelle procedure
politiche della democrazia che, un tempo, erano
condannate come opera del demonio (v. L. Zannotti, La
sana democrazia. Verità della Chiesa e principi dello
Stato, Torino, Giappichelli, 2005). Insomma: la Chiesa
vuole essere "dialogante".
Purtroppo però, adottato un atteggiamento esteriore
amichevole, non sembra mutato quello interiore. Gli
interlocutori continuano a essere considerati non come
dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale
e razionale.
La morale. La questione non si pone – speriamo – nei
termini triviali di una graduatoria di meriti e
demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare
un primato di questo genere. Non può esserci una
competizione come questa, da cui tutti rischierebbero
di uscire malconci. Accade però talvolta che siano
proprio alcuni non credenti autolesionisti a tributare
riconoscimenti di superiorità ai credenti; oppure, che
da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra
ancora oggi a denunce di collusioni demoniache, non
solo per modo di dire (la riduzione delle figure della
fede a simboli è condannata) onde, anche chi scrive
questo articolo potrebbe essere un adepto, nel
migliore dei casi incosciente, di Satana. La questione
è diversa; è, per così dire, di ontologia morale. Solo
i credenti – questo il Leitmotiv – sarebbero capaci di
"senso della vita". La vita eterna promessa da Dio ai
suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale.
Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni
lassù, allora una cosa vale l´altra e, per ricorrere a
Dostoevskij, «tutto è permesso». Ecco allora il
relativismo, l´indifferentismo, l´egoismo, il puro
calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione,
il non-senso della vita: in breve, l´impossibilità di
una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta
al bene piuttosto che al male. Così ragionando, però,
non si è sfiorati dall´idea che si possa dire: la vita
non ha un senso ma siamo noi a doverglielo dare e,
come si può fondare una morale sulla vita immortale
dell´al di là, così si possono cercare i fondamenti
della vita morale nell´al di qua, precisamente nel
comune destino di noi mortali. Non si considera la
possibilità che qui, nella libertà, ci possa essere
una ricerca morale – non facciamo graduatorie – degna
almeno quanto la fede in promesse di ricompense e
punizioni. Postulare una morale esterna, dispensata da
un´autorità, sia pure paterna come la Provvidenza
divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà
che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei
Karamazov, dare ragione all´Inquisitore e torto al
Cristo.
La ragione. Secondo tradizione cattolica, fede e
ragione coincidono. Entrambe procedono da Dio, e Dio
non può contraddire se stesso. Se contraddizione c´è,
è solo apparente, in quanto una «verità di ragione»
contraria alla fede è, in realtà, «totalmente falsa»
(Dei Filius, 1870, del Concilio Vaticano I). Questa
impostazione subordinava bensì la ragione alla fede
ma, almeno, ne riconosceva la distinzione, una
distinzione che oggi sembra sfumare. Il magistero
cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di
proporre un Dio avente natura razionale (logos) e
sostenere che, nella concezione cristiano-cattolica
attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano "di
ragione" è tale perché è anche "di fede", onde chi è
senza o contro la fede, è anche senza o contro la
ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta.
Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la
tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova
filogenesi greco-cristiana propone l´innesto del
Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale
ordine del mondo corrispondente alla ragione
regolatrice sovrana. La "natura", poiché nessuno può
pretendere di alterarla, diventa "diritto naturale";
logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi
custode dell´ordine natural-razionale, la Chiesa può
proporsi come custode dell´ortodossia della ragione;
non solo della ragione filosofica, come è stato per
secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della
ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di
Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati
accreditati più di tutti gli altri, perché la loro
"ragione" onnicomprensiva, che si abbevera alla
scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva
garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso
storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino,
con la sola differenza che oggi, invece d´invocare
l´autorità delle Scritture contro Galileo, si invoca
il logos divino.
Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che
si auspicava all´inizio è impossibile. L´interlocutore
non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e
razionalità, vale poco o niente; è uno che le
circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe
volentieri a meno. A ben pensarci, la "amichevole"
proposta ai non credenti di «vivere [almeno] come se
Dio esistesse» è conseguenza di questo disprezzo. Se
ci si confronta con loro, è perché le condizioni
storiche concrete non consentono di fare altrimenti.
Il dialogo non è questione di convinzione, ma di
opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni
tattiche, nell´attesa che cambi la situazione. C´è una
distinzione molto cattolica tra tesi e ipotesi, una
distinzione che consente alla Chiesa i più spericolati
adattamenti pratici anche molto distanti dalle sue
concezioni del bene e del giusto. La tesi è la
dottrina cattolica nella sua purezza; l´ipotesi è
quanto di essa le circostanze consentono di
realizzare. Il dubbio è che il dialogo, per la Chiesa,
sia solo "in ipotesi", in vista di tempi migliori,
come è per lo stratega di cui si diceva, che prende
tempo e accresce le sue munizioni.
Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte
pagine, aperte alla speranza, del Concilio Vaticano
II, nelle quali il "mondo moderno" è assunto come
interlocutore positivo, portatore di moralità ed
espressivo di segni meritevoli di ascolto. Diversa era
la concezione del rapporto tra fede e ragione, tra
fede e attività dei cristiani nel mondo. La
subordinazione al magistero della Chiesa nel campo
della fede non era vista in contraddizione con la loro
autonomia e responsabilità nei campi della ragione
pratica. Questo era il terreno sul quale la speranza
di un dialogo onesto era costruita, il terreno sul
quale anche l´accettazione piena della democrazia da
parte del mondo cattolico poteva fondarsi. Ma è ancora
così?
Nel mese di dicembre del 2005, nel pieno di accese
polemiche sulle nostre questioni di bioetica, durante
le quali si dissero parole chiuse a ogni confronto
(«principi non negoziabili», appelli all´obiezione di
coscienza, inviti al non-voto di candidati non in
linea, ecc.), il presidente della Conferenza
episcopale italiana, cardinale Ruini, denunciati
ancora una volta il «secolarismo radicale» e il
«relativismo» laico, sorprese tutti con queste parole:
«Si tratta di affidarsi, anche in questi ambiti, al
libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti
democratici pure quando non possiamo condividerli […];
è bene che tutti ne prendiamo la più piena coscienza,
per stemperare il clima di un confronto che
prevedibilmente si protrarrà assai a lungo,
arricchendosi di sempre nuovi argomenti». Sagge parole
di dialogo. Ma sia lecita la domanda: pronunciate "in
tesi" o "in ipotesi"?

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In memoria di Jean-Pierre Vernant

sono trascorsi pochi mesi dalla morte di Vernant.
Vernant è stato uno scrittore/studioso importante per
quando riguarda gli studi sulla mitologia greca. I
suoi libri sono usciti anche in edizione italiana, ma
purtroppo rimane un autore ancora poco conosciuto.
Solo per fare piccolo esempio basti pensare che al
momento della sua morte, su Wikipedia non esisteva
ancora la voce relativa a questo autore. Ho scritto
quella voce, ma se andate a vedervi la cronologia
della pagina vi renderete conto di quanto sia stata
"combattuta" la sua stesura.
Francesco Scanagatta
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l'Unità 11.1.07
Jean-Pierre Vernant il Maigret del mito
di Ugo Leonzio

LUTTI Muore, a 93 anni, il filosofo e storico francese
che ha studiato la mitologia dell'antica Grecia e che
scelse come suo «eroe» personale la figura di Edipo.
Come un detective cercava le ragioni, le spiegazioni
di quelle storie

Il mito, come la memoria, è una malattia che esige
devozione: Jean-Pierre Vernant è stato tra tutti i
devoti forse il piu tenace, fortunato e disperato. La
sua fortuna è dovuta, almeno in parte, alla
disperazione della sua impresa, entrare nel pensiero
greco, nella tragedia e nella mitologia cercando di
trovarne una ragionevole prima ancora che razionale
spiegazione. Vernant non era però un illuminista e
neppure un marxista, diffidava sostanzialmente delle
cose che amava, e questo è sostanzialmente l'origine
del fascino che emana ancora dai suoi libri: la calma,
la bonomia, la sicurezza delle indagini di un Maigret
insieme all'odore della minestra di cavolo e di
Gauloises che portano dritti al suo autore, l'enigma,
il mito Simenon. Forse, se oggi il mondo greco di
Vernant ci sembra costruito a una sola dimensione, una
specie di claustrofobica Flatlandia, è proprio questo
voler a tutti i costi trovare una ragione; come
Maigret deve braccare, stanare e alla fine scovare
l'assassino. Questo è il punto davvero difficile, il
passaggio a Nord Ovest della mitologia vista dagli
storici che non conoscono affatto la malattia che li
abita, che diventa (o è sempre stata) il loro
inconscio.
Jean-Pierre Vernant non era un malato immaginario, era
andato a trovare con arte di segugio il suo
«colpevole», il tragico Edipo, ma invece di seguirlo
nei labirinti tragici del suo destino che lo avrebbero
condotto davanti a un'immagine di se stesso, cioè
dentro i meandri della sua psiche e delle indiscrete
motivazioni che lo avevano spinto a scegliere proprio
Edipo come suo «eroe» e mito privato,
l'inesplicabilità della colpa e non del destino,
perché il genio della tragedia greca ha intuito subito
e profondamente, uno dei segreti degli uomini: che la
colpa viene molto, molto prima del destino e che
l'embrione fa già parte di un copione dove le parti
non si scelgono ma vengono assegnate. Ogni studioso di
mitologia greca dovrebbe partire da questo punto e il
suo pensiero dovrebbe forzare questo stretto passaggio
per osservare l'abisso o il mare aperto che gli si
apre davanti: Vernant, essendo uno studioso di grande
talento e un ammalato eccellente (di mitologia), aveva
capito che Edipo è la chiave di tutti i miti ma non ha
avuto la forza di guardarlo negli occhi. Questo
limite, che dopo Nietzsche diventa un vero e proprio
limite, se non un punto di vista fuorviante, è stato
il confine che consapevolmente Vernant non ha voluto
valicare perché troppo rischioso. Nessun professore
della Sorbonne potrebbe farlo, perché Edipo, per
quanto avido di verità, non l'avrebbe mai cercata in
un'aula universitaria - per quanto prestigiosa -, in
una biblioteca, o scavando rovine.
Vernant è stato il piu illustre studioso da «crociera»
del pensiero greco, il professore che tutti avremmo
voluto avere. Ma la differenza tra lui e un navigatore
solitario nell'oceano del mito, è quella che corre tra
Maigret, marito e sposo fedele, quasi buongustaio, e
l'ascetico Sherlock Holmes, tossicodipendente,
omosessuale, vegetariano e cultore delle Sonate per
violino solo di Johann Sebastian Bach.
Il mondo del mito è disponibile a qualsiasi
interpretazione, dipende solo da chi ne osserva la
messa in scena: non ci sono regole ma fenomeni a cui
dare, di volta in volta, un significato. Osservarli
significa fare un viaggio a ritroso nel tempo,
entrando nella mente di un uomo primitivo, un Sapiens
o un Neanderthal, chiusi nella loro caverna ad
osservare i fenomeni distruttivi della natura, della
caccia, della morte, del coito. Fenomeni, pulsioni,
bisogni, perversioni per cui non esiste alcuna
spiegazione, alcuna teologia, alcuna ragione, armi
deboli per grandi consolazioni. Del mito ci affascina
proprio questo permanere del «caso» e della
«necessità». Per questo, forse, il piu grande
mitografo del nostro tempo è stato il grande biologo
Jacques Monod.
Alla mitologia crediamo proprio perché toglie dagli
occhi la luce artificiale delle aule scolastiche per
darci il solo meridiano, il grido di Pan evocato da
James Hillman; toglie dalle dita il rassicurante
fruscio della carta stampata e lo sostituisce con
quello del sangue; spegne la voce tranquilla e
tranquillizzante di Jean-Pierre Vernant e dispiega il
tagliente, ambiguo dialogare dello stupro di Zeus,
dello stupro di Apollo, dello stupro di Pan, dello
stupro di Dioniso vestito da fanciulla e ebbro di vino
e di resina di papaveri bianchi. Se il mito greco è
pieno di violenza, di eros nudo, di morte, di
vendetta, è perché questi elementi sono alla base del
pensiero greco che attraverso la razionalità e la
prospettiva del pensiero, ritorna all'enigma, al
delitto irrisolto, all'assassino inconsapevole. Come
potrebbe uno storico svelare che la sua dedizione al
mito si alimenta in questo fondo torbido?
Vernant si è sempre tenuto a debita distanza da Freud
e dai suoi complessi, come tutti i mitologi, ma questo
è senz'altro un errore, dal momento che l'Olimpo è
indistinguibile dal nostro mondo, ugualmente percorso
da due pulsioni, Eros e Thanatos, che finalmente si
riducono a una sola, essendo Thanatos, la morte
semplicemente la cessazione di Eros. Sull'Olimpo degli
Dei, ma anche di Edipo, che dagli Dei è dannato, Eros
è l'unica vera potenza assoluta che domina e intreccia
destini, che fa prigioniero Zeus e se ne prende gioco,
come qualsiasi povero mortale che nella coppa, invece
dell'ambrosia, scioglie un'overdose di viagra.
Ricordo di aver visto Vernant, molti anni fa, a Piazza
del Pantheon mentre gustava una deliziosa coppa di
gelato al limone. In quella coppa, in quella coppa, in
quella delizia infantile nascondeva il suo nascosto
Edipo che ora lo guida, volando con Hermes, ai Campi
Elisi.