Corriere della Sera 13.6.09
ParmaPoesia Festival
Ci sono autori considerati lontani dalla nostra vita. Ma un verso del passato è un miracolo della fortuna
Il cuore delle parole
Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni
di Nicola Gardini
Nicola Gardini è nato a Petacciato (Campobasso) nel 1965. Si laurea a Milano in Lettere Classiche, nel 1990 si trasferisce a New York, dove consegue il Dottorato in Letteratura Comparata. Dal 2007 vive in Inghilterra e insegna Letteratura Italiana all’Università di Oxford.
Questo testo è un ampio stralcio della lectio magistralis che Nicola Gardini terrà martedì 23 giugno alle 16.30 nell’Aula dei Filosofi dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito di ParmaPoesia Festival.
Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle parole mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l’aspetto originario. Ma l’importante è che siano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo Virgilio o Orazio, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo dimentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di riceverlo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreggiare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro, continua ad agire tra noi e nullificherà anche molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso.
I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce — diceva Lucrezio — non ha paura.
Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Ormai è raro che riusciamo a godere delle cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò che la nostra civiltà tecnologica propone come nuovo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnologica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbiamo bisogno di novità ma alla fine, attraverso i prodotti della cultura contemporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sempre variato di soddisfare la nostra sempre uguale esigenza di intrattenimento. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire.
La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completamente donata. Non soddisfa un bisogno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sapeva l’esistenza. Allora, mentre leggiamo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, perché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra mente ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una prima lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lingue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è esercizio etico; impegno a vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazione sentimentale ed emotiva. Attraverso la poesia l’individuo impara a definire i suoi sentimenti e a comprenderli in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettività, che questa si esprima in un comportamento o in una reazione psicologica. Dalla poesia sono fissati o almeno riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli eccessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tiene a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli individui sono continuamente tentati da immagini di sé che non possono adattarsi alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fascino della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle parole. Gli antichi conoscono perfino la parola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che commuoveva le stesse pietre con la bellezza del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di riportare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza della parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla luce, per accertarsi che la moglie lo seguisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissimo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infrangere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squartato proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuole anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, come nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra mente su chi siamo stati, pensiamo all’infanzia, a quel che non c’è più. Gli antichi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla nostra: perché non si abbandona ai ricordi personali, nemmeno quando esprime il massimo della soggettività, come vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di gloria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attraverso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ricordi, se da una parte può essere all’origine di molta della nostra indifferenza alla poesia antica, dall’altra dovrebbe insegnarci a sviluppare qualcosa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contemporaneo dei suoi discendenti. Il suo lavoro letterario è tutto un modo di meritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventare degno, di essere un modello. Questo apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabilità di farsi padre. Solo così ritiene di potersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio.
ParmaPoesia Festival
Ci sono autori considerati lontani dalla nostra vita. Ma un verso del passato è un miracolo della fortuna
Il cuore delle parole
Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni
di Nicola Gardini
Nicola Gardini è nato a Petacciato (Campobasso) nel 1965. Si laurea a Milano in Lettere Classiche, nel 1990 si trasferisce a New York, dove consegue il Dottorato in Letteratura Comparata. Dal 2007 vive in Inghilterra e insegna Letteratura Italiana all’Università di Oxford.
Questo testo è un ampio stralcio della lectio magistralis che Nicola Gardini terrà martedì 23 giugno alle 16.30 nell’Aula dei Filosofi dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito di ParmaPoesia Festival.
Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle parole mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l’aspetto originario. Ma l’importante è che siano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo Virgilio o Orazio, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo dimentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di riceverlo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreggiare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro, continua ad agire tra noi e nullificherà anche molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso.
I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce — diceva Lucrezio — non ha paura.
Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Ormai è raro che riusciamo a godere delle cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò che la nostra civiltà tecnologica propone come nuovo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnologica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbiamo bisogno di novità ma alla fine, attraverso i prodotti della cultura contemporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sempre variato di soddisfare la nostra sempre uguale esigenza di intrattenimento. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire.
La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completamente donata. Non soddisfa un bisogno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sapeva l’esistenza. Allora, mentre leggiamo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, perché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra mente ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una prima lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lingue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è esercizio etico; impegno a vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazione sentimentale ed emotiva. Attraverso la poesia l’individuo impara a definire i suoi sentimenti e a comprenderli in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettività, che questa si esprima in un comportamento o in una reazione psicologica. Dalla poesia sono fissati o almeno riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli eccessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tiene a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli individui sono continuamente tentati da immagini di sé che non possono adattarsi alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fascino della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle parole. Gli antichi conoscono perfino la parola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che commuoveva le stesse pietre con la bellezza del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di riportare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza della parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla luce, per accertarsi che la moglie lo seguisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissimo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infrangere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squartato proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuole anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, come nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra mente su chi siamo stati, pensiamo all’infanzia, a quel che non c’è più. Gli antichi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla nostra: perché non si abbandona ai ricordi personali, nemmeno quando esprime il massimo della soggettività, come vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di gloria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attraverso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ricordi, se da una parte può essere all’origine di molta della nostra indifferenza alla poesia antica, dall’altra dovrebbe insegnarci a sviluppare qualcosa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contemporaneo dei suoi discendenti. Il suo lavoro letterario è tutto un modo di meritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventare degno, di essere un modello. Questo apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabilità di farsi padre. Solo così ritiene di potersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio.