Corriere della Sera 6.10.08
Incontri Il famoso psicoanalista e filosofo racconta il crollo dei poteri tradizionali (economico e militare) e il fascino duraturo dello stile di vita
Pop e hamburger salveranno l'America
James Hillman: la crisi della storia produce un risveglio delle coscienze, soprattutto sui temi ambientali
di Ranieri Polese
SIRACUSA — Quante volte è stato a Siracusa, professore? «Con questa, sono quattro volte ». Una in più di Platone. «Sì, in effetti una volta in più, ma — James Hillman ride — Platone era venuto qui con grandi ambizioni, voleva creare in questa città il governo perfetto. Pensava che i tiranni di Siracusa fossero pronti a realizzare il suo ideale di Stato. Le cose andarono diversamente, e ogni volta il grande filosofo dovette scappare dalla città, tremendamente deluso. Io no. Sono qui per una lezione sull'architettura ("L'anima dei luoghi. Il corpo nello spazio", con il professor Carlo Truppi, oggi a Palazzo Vermexio, ndr), non sono qui per imporre un modo di governare, per cambiare il mondo. Certo, vedo il mondo come va, dico quello che penso su quanto sta succedendo, suggerisco un modo di pensare a quello che accade.
Insomma, chiedo a tutti di non sottovalutare certi segnali. Che oggi mi sembrano talmente forti, difficili da ignorare… ».
E Siracusa? «C'ero venuto l'ultima volta sei anni fa (da quella conferenza-incontro, sempre con il professor Truppi della Facoltà di Architettura, è nato il libro L'anima dei luoghi, uscito da Rizzoli nel 2004, ndr). È una città mirabile, per questo mescolarsi di epoche, l'antica Grecia, il cristianesimo, il Barocco: l'isola di Ortigia è un posto unico al mondo. Purtroppo, arrivando, mi è sembrato che le raffinerie lungo la costa siano aumentate. Danno occupazione e lavoro, certo, ma mettono anche in pericolo la bellezza del luogo». E di questo Hillman ha parlato all'ex sindaco della città Titti Bonfardici, ora vicepresidente e assessore al turismo della Regione Sicilia.
Ottantadue anni, con sempre una inesauribile voglia di viaggiare, lo psicoanalista e filosofo James Hillman è uno degli autori più amati e più letti in Italia. Libri come Saggio su Pan
o Il codice dell'anima (entrambi Adelphi) sono dei longseller; ogni sua apparizione in pubblico (Mantova, la Milanesiana ecc.) registra il tutto esaurito. Della sua conferenza tenuta a Capri, nel settembre 2007, l'editore La Conchiglia ha appena pubblicato il testo col titolo La giustizia di Afrodite, traduzione a fronte di Silvia Ronchey.
Lei parla di segnali. Nel suo Codice dell'anima
diceva che il daimon invia dei segnali a ciascuno di noi per farci capire cosa non fare. Poi noi decidiamo come agire. È una teoria che vale non solo per gli individui e le loro scelte private, ma anche per le collettività e i grandi problemi? «Certo. Guardiamo un po' il crollo del capitalismo finanziario che si è consumato in questi giorni in America. Da tempo c'erano segnali. Cominciando dagli anni Novanta, con le bubbles
giapponesi e il crac della borsa di Tokyo. A seguire ci sono stati i disastri delle economie asiatiche, del Brasile eccetera.
Ma sembra che nessuno ne abbia tenuto conto… Nemmeno Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, uno che pure ha studiato le grandi crisi economiche del Novecento».
Vuol dire che la storia si ripete, nonostante tutto? «È un'idea radicata e diffusa, uno dei modi con cui si guarda al futuro. Certi avvenimenti ricordano fatti precedenti, la crisi di oggi non può non richiamare quella del 1929. Anche se poi ci sono molte differenze, per esempio il nuovo sistema globale, o la rapidità con cui oggi, con un clic sul computer, possiamo trasferire miliardi di dollari. Un grande pensatore americano del Novecento, Georges Santayana, diceva che solo chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Ma poi, oggi, anche chi conosce la storia — Bernanke, per esempio — ripete gli stessi errori. Non solo nella politica economica. Prendiamo per esempio John McCain e la guerra in Iraq».
Anche lui ripete qualcosa di già visto? «Assolutamente sì. Quando il candidato repubblicano alla Casa Bianca ci dice che questa guerra dobbiamo vincerla perché non possiamo perderla; che, se ci ritirassimo ora, lasceremmo Al Qaeda libera di impadronirsi di tutto il Medio Oriente fino all'Afghanistan e al Pakistan, ecco quando dice queste cose ripete quello che diceva il presidente Lyndon Johnson sulla guerra del Vietnam. Usava, Johnson, la stessa teoria del domino: se molli una pedina, tutte le altre cadono. Allora si diceva in mano ai comunisti, oggi si parla di Al Qaeda. Ma il ragionamento è lo stesso». Qualcuno dice che il crac finanziario segna il crollo dell'America. «Ci sono due idee dell'America da considerare, come ho scritto in un articolo apparso mesi fa su Liberal, scritto dunque prima della caduta di Wall Street. C'è l'America della forza, dell'impero, l'America secondo Bush; e c'è l'America dell'immaginario, dell'American way of life, della cultura. La prima, sì, è crollata. La seconda invece resiste nonostante la crisi, ed è ancora forte. Se 300 milioni di cinesi studiano l'inglese, se tutto il mondo consuma hamburger, se i giovani giapponesi rifiutano il riso per mangiare il pane americano (che è terribile); se tutti gli emigranti del mondo sognano solo di venire a vivere in America, se la cultura pop è, insieme alla lingua, la cultura universale, tutto ciò vuol dire che questa idea d'America non è morta. Anzi, continua a prosperare. Forte com'è del fatto — prenda il pop americano, musica, cinema eccetera — che ha saputo inglobare, mischiare contributi del mondo intero, dal Brasile al Giappone, e formare un qualcosa che tutto il mondo consuma e apprezza. Il problema è che oggi l'America, arroccata com'è nella sua idea di potenza, non sa, non vuole cooperare con il resto del mondo, per esempio con la Russia».
C'è scontro, in effetti, tra Washington e Mosca. «Anche se, nella questione dei pirati in Somalia, Stati Uniti e Russia stanno collaborando. Ma poi, sulla crisi del Kosovo, sulla Georgia, torna a predominare la logica della contrapposizione ». Banche che falliscono, miliardi di dollari bruciati, il rischio della catastrofe: qual è il suo stato d'animo? «Non si scandalizzi, ma io, politicamente parlando, le dico che sono felice. Certo, vedo la gente che teme per i propri risparmi, non ce la fa a pagare i mutui eccetera. Però, per me, questo è un allarme salutare. Una sveglia per tutti, non solo per i padroni della finanza o gli uomini di Stato. Ci vuol dire, questo segnale, che bisogna ripensare tutto, vedere che il capitalismo avanzato non genera solo utili ma anche grandi problemi, che il cosiddetto mercato libero in realtà libero non è. Insomma, per me oggi siamo come nel novembre 1989, quando la caduta del Muro di Berlino ci fece aprire gli occhi sul comunismo. E la crisi del comunismo, a ben vedere, ha molti tratti simili con la crisi odierna del capitalismo».
In che senso? «Entrambi cadono per collasso, per implosione, insomma per fattori interni e non per l'azione di nemici esterni. Per il regime sovietico la minaccia veniva sempre da fuori. Non voleva vedere il sistema di corruzione, avidità, intrighi che lo minavano internamente; era un sistema che dichiarava anche con i suoi capi, Brezhnev per esempio, la sua senilità, l'impossibilità di un ricambio. Mi pare che questa diagnosi si possa ripetere per il capitalismo americano. Che non ha voluto vedere i giochi speculativi, le avidità degli uomini della finanza. Poi, anche in America, c'è la propensione a pensare che il pericolo viene sempre dagli altri, da fuori. Siamo, noi americani, convinti che i nemici ci minacciano sempre, siano essi i comunisti, Al Qaeda, i neri, i messicani che premono per entrare. È un tratto paranoico del nostro carattere nazionale. Come la convinzione che noi e solo noi siamo depositari del bene e della verità».
Un segnale d'allarme, un risveglio per la coscienza della common people, la gente comune, dunque. «Certo, non come gli attentati dell' 11 settembre, che generarono solo paura con le conseguenze che tutti conosciamo, guerre e tutto il resto. Oggi, questa crisi ci spinge a ripensare il modo di vivere generale, a cominciare dall'uso delle risorse energetiche. Ci spinge a pensare "verde", a non rischiare più la salute di questo pianeta».
Tra poche settimane, ci saranno le elezioni in America. James Hillman, per chi voterà? «Obama».
Incontri Il famoso psicoanalista e filosofo racconta il crollo dei poteri tradizionali (economico e militare) e il fascino duraturo dello stile di vita
Pop e hamburger salveranno l'America
James Hillman: la crisi della storia produce un risveglio delle coscienze, soprattutto sui temi ambientali
di Ranieri Polese
SIRACUSA — Quante volte è stato a Siracusa, professore? «Con questa, sono quattro volte ». Una in più di Platone. «Sì, in effetti una volta in più, ma — James Hillman ride — Platone era venuto qui con grandi ambizioni, voleva creare in questa città il governo perfetto. Pensava che i tiranni di Siracusa fossero pronti a realizzare il suo ideale di Stato. Le cose andarono diversamente, e ogni volta il grande filosofo dovette scappare dalla città, tremendamente deluso. Io no. Sono qui per una lezione sull'architettura ("L'anima dei luoghi. Il corpo nello spazio", con il professor Carlo Truppi, oggi a Palazzo Vermexio, ndr), non sono qui per imporre un modo di governare, per cambiare il mondo. Certo, vedo il mondo come va, dico quello che penso su quanto sta succedendo, suggerisco un modo di pensare a quello che accade.
Insomma, chiedo a tutti di non sottovalutare certi segnali. Che oggi mi sembrano talmente forti, difficili da ignorare… ».
E Siracusa? «C'ero venuto l'ultima volta sei anni fa (da quella conferenza-incontro, sempre con il professor Truppi della Facoltà di Architettura, è nato il libro L'anima dei luoghi, uscito da Rizzoli nel 2004, ndr). È una città mirabile, per questo mescolarsi di epoche, l'antica Grecia, il cristianesimo, il Barocco: l'isola di Ortigia è un posto unico al mondo. Purtroppo, arrivando, mi è sembrato che le raffinerie lungo la costa siano aumentate. Danno occupazione e lavoro, certo, ma mettono anche in pericolo la bellezza del luogo». E di questo Hillman ha parlato all'ex sindaco della città Titti Bonfardici, ora vicepresidente e assessore al turismo della Regione Sicilia.
Ottantadue anni, con sempre una inesauribile voglia di viaggiare, lo psicoanalista e filosofo James Hillman è uno degli autori più amati e più letti in Italia. Libri come Saggio su Pan
o Il codice dell'anima (entrambi Adelphi) sono dei longseller; ogni sua apparizione in pubblico (Mantova, la Milanesiana ecc.) registra il tutto esaurito. Della sua conferenza tenuta a Capri, nel settembre 2007, l'editore La Conchiglia ha appena pubblicato il testo col titolo La giustizia di Afrodite, traduzione a fronte di Silvia Ronchey.
Lei parla di segnali. Nel suo Codice dell'anima
diceva che il daimon invia dei segnali a ciascuno di noi per farci capire cosa non fare. Poi noi decidiamo come agire. È una teoria che vale non solo per gli individui e le loro scelte private, ma anche per le collettività e i grandi problemi? «Certo. Guardiamo un po' il crollo del capitalismo finanziario che si è consumato in questi giorni in America. Da tempo c'erano segnali. Cominciando dagli anni Novanta, con le bubbles
giapponesi e il crac della borsa di Tokyo. A seguire ci sono stati i disastri delle economie asiatiche, del Brasile eccetera.
Ma sembra che nessuno ne abbia tenuto conto… Nemmeno Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, uno che pure ha studiato le grandi crisi economiche del Novecento».
Vuol dire che la storia si ripete, nonostante tutto? «È un'idea radicata e diffusa, uno dei modi con cui si guarda al futuro. Certi avvenimenti ricordano fatti precedenti, la crisi di oggi non può non richiamare quella del 1929. Anche se poi ci sono molte differenze, per esempio il nuovo sistema globale, o la rapidità con cui oggi, con un clic sul computer, possiamo trasferire miliardi di dollari. Un grande pensatore americano del Novecento, Georges Santayana, diceva che solo chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Ma poi, oggi, anche chi conosce la storia — Bernanke, per esempio — ripete gli stessi errori. Non solo nella politica economica. Prendiamo per esempio John McCain e la guerra in Iraq».
Anche lui ripete qualcosa di già visto? «Assolutamente sì. Quando il candidato repubblicano alla Casa Bianca ci dice che questa guerra dobbiamo vincerla perché non possiamo perderla; che, se ci ritirassimo ora, lasceremmo Al Qaeda libera di impadronirsi di tutto il Medio Oriente fino all'Afghanistan e al Pakistan, ecco quando dice queste cose ripete quello che diceva il presidente Lyndon Johnson sulla guerra del Vietnam. Usava, Johnson, la stessa teoria del domino: se molli una pedina, tutte le altre cadono. Allora si diceva in mano ai comunisti, oggi si parla di Al Qaeda. Ma il ragionamento è lo stesso». Qualcuno dice che il crac finanziario segna il crollo dell'America. «Ci sono due idee dell'America da considerare, come ho scritto in un articolo apparso mesi fa su Liberal, scritto dunque prima della caduta di Wall Street. C'è l'America della forza, dell'impero, l'America secondo Bush; e c'è l'America dell'immaginario, dell'American way of life, della cultura. La prima, sì, è crollata. La seconda invece resiste nonostante la crisi, ed è ancora forte. Se 300 milioni di cinesi studiano l'inglese, se tutto il mondo consuma hamburger, se i giovani giapponesi rifiutano il riso per mangiare il pane americano (che è terribile); se tutti gli emigranti del mondo sognano solo di venire a vivere in America, se la cultura pop è, insieme alla lingua, la cultura universale, tutto ciò vuol dire che questa idea d'America non è morta. Anzi, continua a prosperare. Forte com'è del fatto — prenda il pop americano, musica, cinema eccetera — che ha saputo inglobare, mischiare contributi del mondo intero, dal Brasile al Giappone, e formare un qualcosa che tutto il mondo consuma e apprezza. Il problema è che oggi l'America, arroccata com'è nella sua idea di potenza, non sa, non vuole cooperare con il resto del mondo, per esempio con la Russia».
C'è scontro, in effetti, tra Washington e Mosca. «Anche se, nella questione dei pirati in Somalia, Stati Uniti e Russia stanno collaborando. Ma poi, sulla crisi del Kosovo, sulla Georgia, torna a predominare la logica della contrapposizione ». Banche che falliscono, miliardi di dollari bruciati, il rischio della catastrofe: qual è il suo stato d'animo? «Non si scandalizzi, ma io, politicamente parlando, le dico che sono felice. Certo, vedo la gente che teme per i propri risparmi, non ce la fa a pagare i mutui eccetera. Però, per me, questo è un allarme salutare. Una sveglia per tutti, non solo per i padroni della finanza o gli uomini di Stato. Ci vuol dire, questo segnale, che bisogna ripensare tutto, vedere che il capitalismo avanzato non genera solo utili ma anche grandi problemi, che il cosiddetto mercato libero in realtà libero non è. Insomma, per me oggi siamo come nel novembre 1989, quando la caduta del Muro di Berlino ci fece aprire gli occhi sul comunismo. E la crisi del comunismo, a ben vedere, ha molti tratti simili con la crisi odierna del capitalismo».
In che senso? «Entrambi cadono per collasso, per implosione, insomma per fattori interni e non per l'azione di nemici esterni. Per il regime sovietico la minaccia veniva sempre da fuori. Non voleva vedere il sistema di corruzione, avidità, intrighi che lo minavano internamente; era un sistema che dichiarava anche con i suoi capi, Brezhnev per esempio, la sua senilità, l'impossibilità di un ricambio. Mi pare che questa diagnosi si possa ripetere per il capitalismo americano. Che non ha voluto vedere i giochi speculativi, le avidità degli uomini della finanza. Poi, anche in America, c'è la propensione a pensare che il pericolo viene sempre dagli altri, da fuori. Siamo, noi americani, convinti che i nemici ci minacciano sempre, siano essi i comunisti, Al Qaeda, i neri, i messicani che premono per entrare. È un tratto paranoico del nostro carattere nazionale. Come la convinzione che noi e solo noi siamo depositari del bene e della verità».
Un segnale d'allarme, un risveglio per la coscienza della common people, la gente comune, dunque. «Certo, non come gli attentati dell' 11 settembre, che generarono solo paura con le conseguenze che tutti conosciamo, guerre e tutto il resto. Oggi, questa crisi ci spinge a ripensare il modo di vivere generale, a cominciare dall'uso delle risorse energetiche. Ci spinge a pensare "verde", a non rischiare più la salute di questo pianeta».
Tra poche settimane, ci saranno le elezioni in America. James Hillman, per chi voterà? «Obama».