Corriere della Sera 10.11.08
Esce una nuova edizione della tragedia di Sofocle con un commento di Giulio Guidorizzi
Edipo, l'angoscia dell'uomo non trova una tregua
di Giorgio Montefoschi
Due sono gli enigmi che accompagnano la fine di Edipo, il peccatore innocente, nell'Edipo a Colono (Mondadori-Lorenzo Valla, a cura di Guido Avezzù, commento di Giulio Guidorizzi, pp. 428, e 27), la tragedia che Sofocle scrisse novantenne poco prima della morte. Riguardano il tema del male, il primo; il tema della «conoscibilità della morte», il secondo. Duemilaquattrocento anni di storia del pensiero occidentale non sono riusciti a risolverli.
Quando arriva nel borgo di Colono alla periferia di Atene, condotto per mano da sua figlia Antigone, cercando di fuggire con la morte al buio che lo tormenta, Edipo è l'incarnazione del male: ha ucciso suo padre Laio, è entrato nel letto di sua madre Giocasta e dall'unione incestuosa sono nati dei figli. I vecchi che stanno attorno all'altare delle Eumenidi e al santuario di Posidone, poiché sanno chi è, lo guardano atterriti, «muovendo», come scrive nella sua magnifica traduzione Giovanni Cerri, «le labbra nel pensiero silenzioso». Per lui, più che per ogni altro, vale la riflessione che ad alta voce pronunceranno più tardi («Quando uno ha passato la giovinezza con le sue leggere follie, quale pena si tiene alla larga, quale sofferenza manca?), nella quale è rappresentato il dolore del mondo. Edipo è anche innocente però. E lo vuole ricordare ai suoi ospiti. Il male che ho fatto, dice, io l'ho subito: «nulla di tutto questo fu scelto da me». In altre parole: se il male esiste, se esiste una volontà «altra» rispetto alla volontà individuale, una volontà che stabilisce il mio destino, una volontà che addirittura mi ha reso ignaro e inconsapevole, qual è la mia responsabilità? E questo non è il solo aspetto dell'enigma. Ce n'è un secondo. Edipo si è accecato per non vedere più l'orrore commesso ed è stato cacciato da Tebe come peccatore. Lui è venuto ad Atene: vuole porre fine ai suoi giorni lì. Ma Creonte, il re di Tebe, lo insegue: la città pretende il corpo del morto. Come Atene. Solo che, mentre Atene lo vuole in omaggio alle profezie e alle estreme leggi dell'ospitalità (dunque, per motivi «giusti»), le ragioni dei tebani rimangono incomprensibili. A meno di non considerare codesta resipiscenza come una salvifica consapevolezza dell'inevitabilità del male, della inevitabile imperfezione dell'uomo.
Veniamo, così, al secondo enigma: quello che riguarda la morte. Quando si ode il primo tuono e il dio chiama Edipo («Edipo, Edipo...»), annunciandogli che è venuta l'ora, lui dapprima congeda le figlie (con le medesime parole del Vangelo di Giovanni: «Nessuno vi ha amato più di me»), poi si allontana con il solo Teseo, il re di Atene, al quale comunque ingiunge di non raccontare le cose inverosimili e misteriose alle quali assisterà. In tal modo, il racconto della morte — uno dei brani più splendidi e commoventi della letteratura di ogni tempo — è affidato al messaggero. Senonché, da questo stesso racconto, noi apprendiamo che neppure Teseo ha visto. Perché, essendosi voltato dopo l'ultimo tuono, il messaggero lo scorge con una mano davanti agli occhi: come accecato da un evento irricevibile. Edipo è scomparso: non sappiamo se la terra si è dolcemente spalancata per accoglierlo, o una guida divina è venuta a prenderlo. Teseo ha veduto e conosciuto fino al limite, fino a che gli è stato concesso. Poi su di lui, come su ogni uomo, è calato l'enigma della morte. Che, forse, in quanto inconoscibile, possiamo considerare inesistente.
Esce una nuova edizione della tragedia di Sofocle con un commento di Giulio Guidorizzi
Edipo, l'angoscia dell'uomo non trova una tregua
di Giorgio Montefoschi
Due sono gli enigmi che accompagnano la fine di Edipo, il peccatore innocente, nell'Edipo a Colono (Mondadori-Lorenzo Valla, a cura di Guido Avezzù, commento di Giulio Guidorizzi, pp. 428, e 27), la tragedia che Sofocle scrisse novantenne poco prima della morte. Riguardano il tema del male, il primo; il tema della «conoscibilità della morte», il secondo. Duemilaquattrocento anni di storia del pensiero occidentale non sono riusciti a risolverli.
Quando arriva nel borgo di Colono alla periferia di Atene, condotto per mano da sua figlia Antigone, cercando di fuggire con la morte al buio che lo tormenta, Edipo è l'incarnazione del male: ha ucciso suo padre Laio, è entrato nel letto di sua madre Giocasta e dall'unione incestuosa sono nati dei figli. I vecchi che stanno attorno all'altare delle Eumenidi e al santuario di Posidone, poiché sanno chi è, lo guardano atterriti, «muovendo», come scrive nella sua magnifica traduzione Giovanni Cerri, «le labbra nel pensiero silenzioso». Per lui, più che per ogni altro, vale la riflessione che ad alta voce pronunceranno più tardi («Quando uno ha passato la giovinezza con le sue leggere follie, quale pena si tiene alla larga, quale sofferenza manca?), nella quale è rappresentato il dolore del mondo. Edipo è anche innocente però. E lo vuole ricordare ai suoi ospiti. Il male che ho fatto, dice, io l'ho subito: «nulla di tutto questo fu scelto da me». In altre parole: se il male esiste, se esiste una volontà «altra» rispetto alla volontà individuale, una volontà che stabilisce il mio destino, una volontà che addirittura mi ha reso ignaro e inconsapevole, qual è la mia responsabilità? E questo non è il solo aspetto dell'enigma. Ce n'è un secondo. Edipo si è accecato per non vedere più l'orrore commesso ed è stato cacciato da Tebe come peccatore. Lui è venuto ad Atene: vuole porre fine ai suoi giorni lì. Ma Creonte, il re di Tebe, lo insegue: la città pretende il corpo del morto. Come Atene. Solo che, mentre Atene lo vuole in omaggio alle profezie e alle estreme leggi dell'ospitalità (dunque, per motivi «giusti»), le ragioni dei tebani rimangono incomprensibili. A meno di non considerare codesta resipiscenza come una salvifica consapevolezza dell'inevitabilità del male, della inevitabile imperfezione dell'uomo.
Veniamo, così, al secondo enigma: quello che riguarda la morte. Quando si ode il primo tuono e il dio chiama Edipo («Edipo, Edipo...»), annunciandogli che è venuta l'ora, lui dapprima congeda le figlie (con le medesime parole del Vangelo di Giovanni: «Nessuno vi ha amato più di me»), poi si allontana con il solo Teseo, il re di Atene, al quale comunque ingiunge di non raccontare le cose inverosimili e misteriose alle quali assisterà. In tal modo, il racconto della morte — uno dei brani più splendidi e commoventi della letteratura di ogni tempo — è affidato al messaggero. Senonché, da questo stesso racconto, noi apprendiamo che neppure Teseo ha visto. Perché, essendosi voltato dopo l'ultimo tuono, il messaggero lo scorge con una mano davanti agli occhi: come accecato da un evento irricevibile. Edipo è scomparso: non sappiamo se la terra si è dolcemente spalancata per accoglierlo, o una guida divina è venuta a prenderlo. Teseo ha veduto e conosciuto fino al limite, fino a che gli è stato concesso. Poi su di lui, come su ogni uomo, è calato l'enigma della morte. Che, forse, in quanto inconoscibile, possiamo considerare inesistente.