Monday, August 29, 2011

Polemica in Toscana per un «affresco evirato»

Polemica in Toscana per un «affresco evirato»
Marco Gasperetti
Corriere della Sera 20/8/2011

MASSA MARITTIMA (Grosseto) —Le dispute degli studiosi sull'Albero della Fecondità, enigmatico affresco del 1265 con immagini falliche, ritrovato casualmente nel 1999 sotto uno strato di rocce calcaree a Massa Marittima, fino ad oggi si sono concentrate su significato e attribuzione dell'opera. Adesso, dopo tre anni di restauri terminati una decina di giorni fa, sono gli «attributi» a far discutere e persino a spingere un consigliere comunale a presentare un esposto a Procura e ministero per una presunta «castrazione». In altre parole alcuni testicoli dei falli, che pendono dall'albero, sarebbero stati in parte ridimensionati o cancellati, una sorta di censura postuma e inspiegabile. «L'affresco appare compromesso nella sua autenticità per una campagna di restauro irrispettosa dei caratteri artistici, tipologici e formali dell'opera — ha scritto Gabriele Galeotti, consigliere per una lista civica di opposizione in municipio — molte porzioni dell'opera sono state ridipinte arbitrariamente». Accuse respinte dagli esperti. «Tutta l'operazione è stata condotta con ogni possibile accortezza — replica in una nota il soprintendente ai beni storici e artistici per le province di Siena e Grosseto, Mario Scalini — e la tecnica impiegata non può in alcun modo aver radicalmente modificato parti originali dell'opera». Scalini spiega che i testicoli non più visibili potrebbero essere quelli ritoccati nei precedenti restauri e che «comunque le infiltrazioni d'acqua hanno costretto al fissaggio delle parti pittoriche e all'asportazione dei sali e calcari: tra le parti più attaccate dai depositi potrebbero dunque esserci anche quelle che raffiguravano i testicoli dei frutti». Sul significato dell'Albero, gli studiosi si dividono. C'è chi ritiene l'opera un'allegoria della fecondità, chi invece, come George Ferzoco dell'Università di Leicester, la giudica uno straordinario manifesto politico databile tra i1 1267 e i1 1335 realizzato dai guelfi (al potere) contro i ghibellini. Le aquile nere sarebbero il simbolo del potere imperiale e le figure femminili streghe impegnate ad appendere i falli staccati ai nemici.

Wednesday, June 08, 2011

quelques dates et quelques etapes dans le retour de la coscience paienne en europe

quelques dates et quelques etapes dans le retour de la coscience paienne en europe

quelques dates et quelques etapes dans le retour de la coscience paienne en europ

Sunday, May 08, 2011

Vouloir revue culturelle pluridisciplinaire - 1988 - paganismes e neo-paganismes

Vouloir revue culturelle pluridisciplinaire - 1988 - paganismes e neo-paganismes

Vouloir revue culturelle pluridisciplinaire - 1988 - paganismes e neo-paganismes

Thursday, April 28, 2011

Come conciliare Dioniso e Apollo, ebbri e assennati

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Come conciliare Dioniso e Apollo, ebbri e assennati
Eros e Logos La lotta tra bellezza e verità che ha caratterizzato i Greci
Per Giorgio Colli, nel solco di Nietzsche, le due divinità non si contrappongono, ma coesistono
di Marco Vozza

Il debito di riconoscenza che la cultura internazionale, non soltanto quella italiana, intrattiene nei confronti di Giorgio Colli è inestimabile, innanzitutto per averci restituito un Nietzsche integro e credibile, sottratto alle reiterate manipolazioni precedenti, attraverso l’edizione critica delle sue opere condotta con Mazzino Montinari. Ma Colli era anche un grande editore e un filosofo autonomo, seppur sempre fedele alla traccia dei suoi autori prediletti, Schopenhauer e Nietzsche fra tutti, ma in particolare i primi pensatori greci, quei sapienti delle origini che si avvalevano delle forme espressive del mito, della religione e della poesia prima che si affermasse il pensiero astratto dei filosofi classici.
Ora abbiamo la possibilità di tornare su quei temi, tra antico e moderno, in virtù di una consistente, affascinante quanto rigorosa, raccolta di scritti inediti, la cui tesi assai ambiziosa considera «apollineo» e «dionisiaco» non soltanto criteri elettivi per la comprensione del mondo greco ma «principi universali e supremi della realtà», capaci di spiegare i dualismi del pensiero filosofico ma anche la musica di Beethoven. La chiave teoretica, non soltanto estetica, che introduce Colli, dell’antitesi tra dionisiaco e apollineo come connessione indissolubile, più che contrapposizione, tra interiorità ed espressione appare già prefigurata nella filologia nietzscheana dell’avvenire che indaga il fenomeno della vita secondo istanze metafisiche.
Apollo e Dioniso rappresentano il sogno e l’ebbrezza, la forma e la forza, la visione e l’impulso orgiastico, differenti espressioni del sentimento estatico dell’esistenza, quello in cui l’uomo viene trasfigurato nell’opera d’arte. Nietzsche insiste sulla coesistenza delle due divinità che si spartiscono il dominio nell’ordinamento delfico del culto, generando un equilibrio che vede alternarsi assennatezza e dismisura, moderazione e violenza. Nell’ebbrezza dionisiaca, la natura ritrova la propria potenza unitaria, dapprima dissipata nel processo di individuazione, opera altresì la redenzione di una volontà altrimenti intristita, ora rivitalizzata da una mescolanza panico-orgiastica di affetti.
Tra Dioniso e Apollo si instaurò la lotta tra verità e bellezza, che caratterizzò la grecità fino a raggiungere, depauperata e isterilita dopo Socrate, la modernità; i Greci intesero che il fine della cultura è quello di «velare la verità», di opporre la misura all’eccesso. Si trattò per la grecità apollinea di trasformare il carattere lacerante del pensiero tragico in «rappresentazioni con cui si potesse vivere», creando un mondo intermedio tra verità e bellezza, in cui il dolore, l’assurdità e l’atrocità dell’esistenza giungessero a manifestarsi in una bella parvenza, trasferendo cioè sul piano illusorio e salutare dell’apparenza la visione annichilente di quell’abisso terrificante.
L’arte rendeva possibile la creazione di «una possibilità più alta di esistenza», che consisteva nel mantenere aperta e vibrante l’espressione degli affetti, la comunicazione dei sentimenti, la condivisione del dolore, seppur trasferita «in rappresentazioni coscienti»; in tal modo, nell’esaltazione dell’essere che si avvale della danza e dell’intero simbolismo del corpo, la bellezza veniva ad accrescere «il piacere di esistere», cioè la vita ascendente.
Colli non ne fa menzione ma la più rilevante conferma della propria tesi giunge indirettamente dalla letteratura psicanalitica: Jung pone al centro dei Tipi psicologici la dicotomia tra apollineo e dionisiaco, come modello di spiegazione dei fenomeni di introversione ed estroversione. Il dionisiaco costituisce «l’espansione diastolica», pulsionale e multiforme, dell’esistenza, mentre l’apollineo rappresenta il tentativo razionale di ripristinare nella psiche un ordine unitario. Eros e Logos convivono permanentemente nella nostra vita.

Tuesday, April 12, 2011

Gesu il Superuomo

Bonifacio ordina l'abbattimento di quercia sacra dei Sassoni



Bonifacio ordina l'abbattimento di quercia sacra dei Sassoni
Illustrazione del 19 ° secolo ", abbattendo una quercia sacra dei Sassoni", disegnata da H. Leutemann. Durante l'8 ° secolo dC, missionari come Bonifacio tentarono di convertire i pagani sassoni al cristianesimo.

Friday, March 25, 2011

Le paradis perdu des Kalash 1 sur 3

Le paradis perdu des Kalash 1 sur 3


Dans une vallée reculée de la frontière pakistano-afghane, les 3000 derniers païens Kalashs vivent encerclés par la communauté musulmane et les réfugiés afghans. À l’annonce du solstice d’hiver, ils prient, chantent et dansent pour la renaissance des saisons et de leur culture. Parmi eux, la jeune Najiba se découvre femme et prend conscience des périls croissants qui menacent sa communauté. Ce printemps, les talibans ont passé les portes de son village.
En quittant l’insouciance de l’enfance, Najiba est au tournant de l’histoire Kalash. Elle doit choisir entre se convertir à l’Islam, rejoindre la modernité ou permettre à sa tradition de perdurer. C’est avec le choix de sa génération que l’éternel retour des saisons sanctifiées par les Kalash peut s’arrêter.

Wednesday, February 23, 2011

Giornata pagana della memoria, intervista a Manuela Simeoni: "Ma non siamo neopagani"

Era il 27 febbraio del 380 dopo Cristo, quando l’imperatore Teodosio promulgò l’editto di Tessalonica che sanciva il Cristianesimo come religione di stato romana, soppiantando così il paganesimo. Undici anni dopo arrivarono anche quelli che oggi chiameremmo “decreti attuativi”, che impedivano di fatto ai pagani di professare la loro religione. Il più noto fu quello del 24 febbraio 391 dopo Cristo, che sanciva il divieto di ingresso nei templi pagani, proibiva l’atto di avvicinarsi ai loro santuari e l’adorazione di statue o manufatti. Esattamente 1620 anni dopo quell’editto, domani si terranno delle celebrazioni per ricordare quei giorni drammatici per i pagani, che nei secoli successivi furono i primi “perseguitati” della neonata Chiesa dell’Amore. Sulla giornata, giunta ormai alla quinta edizione, ci parla Manuela Simeoni, della Federazione Pagana. (...)


Giornata pagana della memoria, intervista a Manuela Simeoni: "Ma non siamo neopagani"

Monday, January 24, 2011

La sopravvivenza degli antichi dei

La sopravvivenza degli antichi dei.
Jean Seznec, Jean
Bollati Boringhieri, 2008.

Alterati nel loro aspetto tradizionale e spesso costretti a servire da involucro di idee morali o speculative, gli antichi dei del politeismo greco hanno continuato la loro avventura fino al Rinascimento e anzi al XXII secolo, sia barocco sia classico. In quest'opera, pubblicata per la prima volta nel 1940 e divenuta in breve uno dei classici contemporanei della storia delle idee e della civiltà, Jean Seznec indaga le forme specifiche di questa sopravvivenza e gli ambiti particolari in cui essa si è compiuta: i sistemi interpretativi elaborati dagli antichi per spiegare l'origine e la natura delle loro divinità, e assimilati dal pensiero storico ed esegetico medievale; la tradizione iconografica, dalle miniature dei manoscritti astronomici e astrologici illustrati fino ai monumentali cicli pittorici che decorano le volte dei palazzi e le cupole delle cappelle; la tradizione mitografica, dalle enciclopedie medievali fino ai grandi trattati italiani tardocinquecenteschi sugli dei.

Tuesday, January 04, 2011

Dalla Pizia a Trasillo, quelle divinazioni sono parte di noi

Corriere della Sera 4.1.11
Dalla Pizia a Trasillo, quelle divinazioni sono parte di noi
di Eva Cantarella

Tra i tanti possibili modi di conoscere il futuro, l’astrologia è, a quanto è dato saperne, il più antico, o quantomeno uno tra i più antichi. Sviluppatasi probabilmente in modo indipendente nelle diverse civiltà, nel 3.000 a. C. era già praticata in Mesopotamia e da qui si diffuse sino a raggiungere l’Asia Minore, l’Egitto, e quindi la Grecia e Roma, dove andò ad affiancarsi ai molti sistemi ivi in uso. In Grecia, ad esempio, era praticata l’arte della «capnomanzia» , che leggeva il futuro nella forma delle spire di fumo; la «igroscopia» , che esaminava, interpretando, il corpo delle vittime dei sacrifici; la «catoptromanzia» , che leggeva i segnali per mezzo dello specchio... La varietà non mancava, insomma, anche se la pratica divinatoria più diffusa era quella oracolare, che aveva luogo in un tempio, dove il dio rispondeva alle interrogazioni che gli venivano poste. A volte, per farlo, si serviva di segni naturali, come a Olimpia la fiamma del fuoco in cui si consumavano le vittime, o, nel tempio di Dodona, lo stormire delle fronde della quercia sacra. Altre volte il messaggio giungeva attraverso la voce di una profetessa, che fungeva per così dire da megafono al dio. Il più importante fra tutti gli oracoli di questo tipo era quello di Apollo a Delfi, che continuò a essere frequentato fino al VI secolo d. C, quando tutti i culti pagani vennero vietati da Teodosio. I vaticini A consultare l’oracolo si recavano, oltre ai privati cittadini, molti uomini di stato, che chiedevano un responso sulla opportunità di istituire nuovi culti, di promulgare le leggi, di concludere alleanze politiche, e via dicendo. E a tutti il dio rispondeva con la voce della celebre Pizia, profetessa invasata di furore mistico, che pronunziava parole spesso incomprensibili, successivamente interpretate da un sacerdote (cresmologo), che le traduceva per lo più in versi, in forma così ambigua da far sì che l’oracolo risultasse comunque veritiero. Non diversamente, va detto, di quel che accadeva quando a profetare era la Sibilla cumana, di cui parla Virgilio, che secondo la tradizione avrebbe così risposto a un soldato che la interrogava sull’esito di una spedizione bellica: ibis redibis non morieris in bello, frase che, se si pone una virgola prima di «non» , significa: andrai ritornerai, non morirai in guerra; se invece si mette la virgola dopo «non» , significa: andrai, non ritornerai, morirai in guerra. Infine, in età ellenistica, alle forme più tradizionali della mantica locale si affiancò l’astrologia, che divenne particolarmente popolare a Roma, dove vissero astrologi (teorici e pratici) molto noti, molto ricchi e molto potenti. Alcuni di essi, come ad esempio il grammatico alessandrino Tiberio Claudio Trasillo, avendo pronosticato a Tiberio la futura carica imperiale come successore di Augusto, quando l’evento si verificò andò a vivere ed esercitare la sua arte a corte, ricevendo la cittadinanza romana come ricompensa dei suoi servizi. Il «no» dell’imperatore Ma non tutti gli astrologi erano teorici raffinati come Trasillo: la maggior parte si essi era di livello sociale e culturale assai meno elevato ed era vista con notevole sospetto. Nell’ 11 d. C. Augusto vietò le consultazioni private (il racconto in Dione Cassio). Durante il regno di Tiberio il senatore Libone Druso, posto sotto accusa capitale in quanto mago e astrologo, si suicidò (la storia in Tacito). Ma questo non fu che l'inizio dei problemi. A partire da Diocleziano, l’astrologia venne punita con la pena capitale, e il Codice Teodosiano, nel 367, la incluse tra i reati esclusi da ogni possibilità di grazia. Nel diritto criminale gli astrologi, definiti mathematici, erano ormai equiparati ufficialmente ai maghi. Oggi la situazione è molto diversa. Ci sono astrologi consultati in televisione, che scrivono sui giornali, nelle cui previsioni molte persone credono ciecamente. La credulità popolare, giustamente tenuta dagli antichi, è ancora forte. Comunque la sia pensi in proposito, agli oroscopi dobbiamo riconoscere di essere una parte, pur piccola, della nostra lunga storia.

Thursday, December 30, 2010

The Pagan Norse

The Pagan Norse

Perché il monoteismo biblico si autorappresenta come violento

Dio e gli dèi. Egitto. Israele e la nascita del monoteismo

Perché il monoteismo biblico si autorappresenta come violento

JAN ASSMANN

Il brano che anticipiamo in questa pagina è tratto dal nuovo libro di Jan Assmann «Dio e gli dèi. Egitto. Israele e la nascita del monoteismo», uscito per i tipi del Mulino (pp. 213, euro 15). Settantun anni, professore emerito di egittologia a Heidelberg , Assmann è uno studioso che si muove sul crinale tra archeologia e antropologia culturale, come testimonia la sua ricca bibliografia: La memoria culturale, Potere e salvezza, La morte come tema culturale (tutti tradotti da Einaudi), Mosè l’egizio (Adelphi) e Non avrai altro Dio (il Mulino) in cui ha impostato il tema del monoteismo che riprende nel libro in uscita per chiarirne il senso e la vicenda storica.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla Bibbia e soffermiamoci, tra circa seicento passaggi in cui si citano episodi di violenza che portano alla morte, su alcune delle tipiche scene di violenza che caratterizzano l’istituzione del monoteismo. \ Non sto accusando o criticando alcunché; voglio semplicemente capire. Mi sembra fuori luogo, inoltre, utilizzare tali brani contro il giudaismo o il cristianesimo, perché in queste religioni essi non giocano un ruolo significativo. Non vengono insegnati nelle yeshivot ebraiche né predicati dai pulpiti cristiani; il loro valore è puramente storico, in quanto testimoniano l’autorappresentazione della nuova religione nelle sue fasi iniziali. Il mio interesse per questi testi, tuttavia, non è storico, ma «mnemo-storico»: la domanda cui voglio dare una risposta non è «Perché il monoteismo si affermò in maniera così violenta?», bensì «Perché la storia della sua affermazione venne rappresentata e ricordata nella Bibbia con un così grande numero di scene di violenza? Perché i testi fondamentali che proclamano l’unicità esclusiva di Dio utilizzano il linguaggio della violenza?». La violenza non fa parte di una visione esterna ostile al monoteismo, ma di un autoritratto del monoteismo visto dall’interno. Ecco il problema che affronta questo capitolo. Perché il monoteismo biblico si autorappresenta come violento?

Da dove possiamo iniziare? I racconti della fuga dall’Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio, ma ancor più la conquista della terra di Canaan, dipingono l’etnogenesi israelita e l’introduzione del monoteismo – di fatto due aspetti di un unico processo – a tinte estremamente violente. La questione del loro significato si pone poi in maniera ancora più pressante se questi episodi non vengono ritenuti storici ma simbolici, e quindi considerati saghe e leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali. Apparentemente queste scene presentano una violenza esterna, una violenza diretta contro altri popoli, come gli egizi e i cananei. Una lettura più attenta dei testi biblici, tuttavia, rivela che la violenza interna, la violenza diretta contro il proprio gruppo e persino contro se stessi, gioca un ruolo di gran lunga più importante. Sotto molti aspetti (anche se non tutti) «Canaan» può essere visto come una rappresentazione simbolica del passato pagano di Israele e delle sue persistenti tradizioni pagane o sincretistiche. Il monoteismo, stando al suo autoritratto biblico, è una religione che tende alla violenza interna anziché esterna. È proprio questo a rendere lo studio dei testi di riferimento così stimolante, anche se essi hanno perduto ogni interesse nel contesto dell’esegesi giudaica e cristiana.

L’inizio è costituito dalla storia del vitello d’oro. Gli israeliti ricadono nell’idolatria: non riescono a sopportare la lunga assenza del loro capo Mosè sul Monte Sinai e lo credono morto; chiedono allora ad Aronne di fornire loro un’immagine che sostituisca Mosè, rappresentante di Dio, e che cammini davanti a loro guidandoli nel deserto. In segno di espiazione e castigo, Mosè avvia un’azione punitiva che viene descritta nei seguenti termini nel libro dell’Esodo (Es 32, 26-28): «Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: “Chi sta con il Signore, venga da me!”. Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: “Dice il Signore, il Dio d’Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente”. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo».

Decisive sono le parole: «ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente». Qui la violenza è rivolta esplicitamente all’interno, allo scopo di infrangere i vincoli umani più stretti e intimi. La dedizione richiesta da Dio a ciascun individuo, come pure l’alleanza da lui offerta, superano e spezzano tutti i legami e doveri umani. A questo passo se ne può accostare un altro, non meno celebre, tratto dal Deuteronomio: «Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso, t’istighi in segreto, dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuti, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da una estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo; il tuo occhio non lo compianga; non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi la mano di tutto il popolo; lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio».

In questo caso è possibile sapere con certezza da dove proviene questo linguaggio della violenza: dai giuramenti di fedeltà assiri. L’impero assiro richiedeva una lealtà assoluta ai suoi vassalli, che dovevano essere disposti ad attuare forme di controllo come spiare amici e vicini denunciandoli e perseguendoli inesorabilmente nel caso in cui esprimessero pensieri sleali. Ma come è possibile, si chiede in un articolo recente Othmar Keel, studioso dell’Antico Testamento, collegare un simile linguaggio all’idea biblica di Dio? Come possono gli uomini immaginare che Dio pretenda la denuncia e l’uccisione dei propri amici, compagni e vicini? È facile capire come i testi e i concetti assiri vennero tradotti in ebraico ed entrarono nella Bibbia: alcuni re giudei dovevano utilizzare a loro volta questo linguaggio per giurare fedeltà al re assiro. Non è facile, invece, comprendere come questi concetti politici vennero tradotti in concetti teologici, e come Dio iniziò a ricoprire il ruolo di un despota assiro. Forse l’idea era quella di liberarsi dagli assiri e da qualunque altra forma di dipendenza entrando in un’analoga forma di dipendenza da Dio per mezzo dello stesso trattato che il re assiro aveva imposto. Forse, trasformando la politica assira in teologia biblica, gli ebrei speravano di trasformare la politica in religione e di liberarsi completamente della politica, di diventare indipendenti o almeno indifferenti a qualsiasi altra forma di oppressione politica. Ma essi non pagarono un prezzo troppo alto considerando l’idea assira di esclusività politica – non avrai altri signori al di fuori di me – come un modello di esclusività religiosa, e quindi politicizzando sia il concetto di divinità sia la nuova idea di religione?

(Fonte: www.lastampa.it)

Tuesday, December 21, 2010

Natale nel Kashmir ecco le origini pagane di Gesù Bambino

La Repubblica 20.12.10
Natale nel Kashmir ecco le origini pagane di Gesù Bambino
di Marino Niola

La festa del solstizio d´inverno della tribù dei Kalasha ha molte somiglianze con quella della natività di Cristo L´antropologo Augusto Cacopardo ha studiato il significato dell´antico rituale, che dura dodici giorni
La popolazione, che vive tra Pakistan e Afghanistan, custodisce le sue radici indoeuropee
L´attesa del dio Indr è associata ad abbuffate di lenticchie e doni per i più piccoli

Per ritrovare l´origine del Natale bisogna andare sugli altipiani dell´Hindu Kush, tra Afghanistan e Kashmir. Dove vivono gli ultimi pagani. Sono i fieri Kalasha, gelosi custodi delle loro remotissime tradizioni indoeuropee. Questi uomini che sapevano d´antico già nel 330 avanti Cristo, quando Alessandro Magno li incontrò durante la sua marcia verso Jelalabad, ci rivelano le radici della nostra storia e della nostra religione. Il loro grandioso rito solstiziale d´inverno, dodici giorni che iniziano con la discesa del dio tra gli uomini e si concludono con l´inizio del nuovo anno, è infatti l´archeologia vivente della natività. A dirlo è l´antropologo Augusto Cacopardo in un libro appena uscito per l´editore Sellerio. Il titolo, più che eloquente, è Natale pagano (Sellerio, pp. 476, euro 20). Argomento è la millenaria gestazione di una festa che non sarebbe stata inventata dal cristianesimo ma comincia molto prima.
In realtà sono stati in molti a sostenere che la madre di tutte le festività dell´Occidente nasce da antichi riti agrari e astronomici precristiani. Come quelli dell´Atene di Pericle, culla della democrazia occidentale, dove nell´ultima decade di dicembre si addobbava un albero sempreverde con coppe e otri in onore di Dioniso, il dio del vino che offre in pasto il suo corpo e il suo sangue. Mentre a Roma, sempre in dicembre, durante i Saturnali si ornavano le case con abeti e altri alberi perenni, simboli della vita che continua. Il tutto culminava nella festa di Mitra, il dio solare nato in una grotta e rappresentato come un bambino risplendente di luce. La sua nascita coincideva con il solstizio d´inverno, quando le giornate cominciano ad allungarsi e il sole ha il sopravvento sulle tenebre. Stessa cosa facevano i Celti dell´Europa del Nord che nello stesso periodo offrivano alle divinità della luce composizioni di vischio e rami di abete.
Il libro di Cacopardo aggiunge a queste ipotesi storiche una prova vivente. I Kalasha, che hanno resistito a ogni tentativo di cristianizzazione e di islamizzazione, continuano infatti a professare una religione sorprendentemente simile a quella dell´antichità. Questi montanari variopinti che Fosco Maraini trovava più antichi che esotici, appaiono come l´eco presente di un tempo lontanissimo, il riverbero di un passato remoto miracolosamente conservato in una bolla della storia. Sospesa a duemila metri sulle alture rarefatte di Birir, a due passi dai teatri di guerra dell´Afghanistan. Questi portatori sani di un´origine altrove scomparsa ci fanno toccare con mano lo spirito della religione prima dell´arrivo dei monoteismi. E soprattutto ritrovare il politeismo degli antichi popoli indoeuropei, spesso ancora presente sotto traccia nel nostro folklore. E perfino nelle nostre grandi solennità religiose.
La grandiosa festa del solstizio d´inverno, che i Kalasha chiamano Chaumos, è a tutti gli effetti un natale prima del Natale. È la matrice ideale della nostra notte incantata. Con il dio luminoso Indr - parente stretto di Indro, nome locale dell´arcobaleno, nonché di Indra, signore della folgore nel pantheon induista - che discende a visitare gli uomini nel periodo più buio dell´anno e dispensa loro la sua energia come un dono benefico. Se si aggiungono i rami di vischio, le abbuffate rituali di lenticchie di montagna, la notte di vigilia in attesa dell´avvento del dio, i doni ai bambini e i fuochi che rischiarano la notte innevata, gli ingredienti del nostro Natale ci sono tutti. A parte "Jingle Bells". Ma non è poi così grave.
Non sarebbe Gesù bambino a fare il Natale, dunque, ma il natale a fare Gesù bambino. Sembra questo il messaggio degli ultimi pagani. Che pare fatto apposta per dar ragione a Sant´Agostino il quale diffidava i cristiani dal celebrare il sole a dicembre perché era roba da idolatri. O a quei sacerdoti francesi che, alla fine degli anni Cinquanta, bruciarono il fantoccio di Babbo Natale sul sagrato della cattedrale di Digione considerandolo un simbolo perverso di paganesimo e al tempo stesso di consumismo. Che sono, a pensarci bene, il prima e il dopo della modernità. Due estremi della storia mescolati insieme. A conclusione di un cammino millenario di cui gli ultimi pagani continuano ancora oggi a celebrare l´inizio.

Monday, December 13, 2010

"Sono gli studiosi a sbagliarsi: il cranio di Grotta Guattari è la prova di riti primitivi"

La Repubblica 13.12.10
Antonio Pennacchi replica al paleontologo Giorgio Manzi
“Perché difendo il mio Neandertal”
"Sono gli studiosi a sbagliarsi: il cranio di Grotta Guattari è la prova di riti primitivi"
intervista di Dario Pappalardo

«Ma quali iene? In quella grotta, sono entrati per ultimi gli uomini». Antonio Pennacchi non ci sta. E replica al paleontologo Giorgio Manzi che, intervistato da Repubblica, ha "attaccato" Le iene del Circeo (Laterza), il libro in cui lo scrittore ricostruisce la storia del cranio neandertaliano di Grotta Guattari, rinvenuto al Circeo nel 1939.
Per l´autore, che si rifà alle tesi dell´archeologo Alberto Carlo Blanc, scomparso nel 1960, quel reperto testimonierebbe la cerebrofagia rituale degli uomini di Neandertal (sempre e solo senz´acca). Per Manzi e per altri illustri colleghi (tra cui Tim White, uno dei maggiori paleontologi viventi) non è così: il teschio sarebbe stato portato da una iena in quella grotta, poi sigillata da una frana per 55 mila anni.
«Con tutta onestà – racconta l´autore, quest´anno vincitore del premio Strega per Canale Mussolini (Mondadori) – sono un tipo ansioso: prima di cominciare a leggere l´intervista a Manzi, pensavo mi avessero fatto tana. Invece poi, alla fine della lettura, mi sono tranquillizzato».
Come mai, Pennacchi? Gli studiosi non le danno certo ragione.
«Intanto è curioso che mi rispondano solo ora che ho vinto il premio Strega. Sono vent´anni che porto avanti questa battaglia e non mi hanno mai preso sul serio».
La tesi che sostiene nel libro è stata smentita da tempo. La paleosuperficie dove fu rinvenuto il cranio non contiene tracce umane, ma solo di iena…
«Non è vero. Chi depositò il cranio nella grotta perse un raschiatoio, che fu ritrovato nel 1989. È come se ci avesse lasciato un rolex… non è una prova da poco. Insomma, in quel sito gli strumenti litici umani c´erano ed è stato scritto negli studi pubblicati in passato. Se ora quegli strumenti sono spariti, qualcuno dovrebbe spiegare perché. Per quale motivo si sono incaponiti sulla iena? Lo chieda a loro».
Gli studiosi escludono la cerebrofagia. Il cranio ha un foro praticato alla base.
«Ma chi l´ha detto che se voglio mangiare un cervello devo rompere il cranio dall´alto? I saggi di antropologia sostengono il contrario. E lo dimostra anche la collezione di crani della Melanesia conservata alla Sapienza di Roma. Chiunque pratichi la cerebrofagia rituale lo fa dal basso, utilizzando il cranio come coppa. Da cui "Bevi, Rosmunda dal teschio di tuo padre!". Un´altra prova del rito è il cerchio di pietre…».
I paleontologi mettono in dubbio anche quello.
«Io stesso lo chiesi a White: "Ma il cerchio di pietre? Insinuate che l´abbia costruito a bella posta Blanc, lo scopritore del cranio?". Lui mi fece capire di sì. Io invece non ci credo. Quel cerchio col cranio era isolato da tutto il resto. In quella grotta si celebrava un rito. E non è escluso che sia stata sigillata dagli uomini e non da una frana».
Ma come si è appassionato alla paleontologia?
«Ero più interessato alla storia romana, in realtà. Prevedendo di scrivere sulle bonifiche dell´agro pontino, mi sono messo a studiarla. Poi mi sono imbattuto nei cocci, mi sono iscritto all´università: ho preso 30 e lode a "Metodologia e tecnica dello scavo". Gli scienziati credono che non ne sappia niente di tutto questo, eppure ho all´attivo due campagne archeologiche. Non pensavo di risalire al Neandertal, ma quando ho scoperto questa storia ci ho visto poco chiaro e ho voluto approfondire».
Ha approfondito pure il Neandertal senz´acca.
«Se permette, sulla lingua almeno, l´autorità scientifica sono io. Anche in Germania, Neandertal si scrive senz´acca. Comunque, i nemici fanno bene. Un po´ di provocazione serve sempre. Mannaggia, quando ho vinto il premio Strega, i paleontologi devono essere sbiancati…».

Con la forza del pensiero si sposta il cursore del pc

Corriere della Sera 30.11.10
Con la forza del pensiero si sposta il cursore del pc
di Minnie Luongo

D'ora in poi i cursori si potranno controllare con dei semplici pensieri: questo l'annuncio della Society for Neuroscience di San Diego (Usa). «Un nutrito gruppo di volontari ha imparato in soli sei minuti come spostare un cursore sullo schermo grazie alla forza del pensiero» dice l'autrice della ricerca, Anna Rose Childress della University of Pennsylvania School of Medicine. Lo studio consisteva di due parti: la formazione informatica e l'effettivo controllo del cursore. Durante l'addestramento, i computer hanno riconosciuto due distinti schemi cerebrali: nel primo, i partecipanti sono stati invitati a pensare di colpire una palla da tennis; nel secondo, hanno immaginato di spostarsi da una stanza all'altra. Ogni insieme di pensieri veniva collocato, in corrispondenza con l'attività immaginata, in una specifica parte del cervello. I volontari hanno quindi ripetuto i medesimi modelli di pensiero, spostando un cursore sullo schermo. Conclusione: «Tutti sono stati capaci di spostare il cursore, alternando i pensieri e creando veri schemi cerebrali, subito riconosciuti dal computer».

Wednesday, December 08, 2010

Nel nome di Ipazia immagini e simboli di una vita d´artista

Nel nome di Ipazia immagini e simboli di una vita d´artista
RENATA CARAGLIANO
DOMENICA, 28 NOVEMBRE 2010 LA REPUBBLICA - - Napoli

Un percorso espositivo sulle tracce della scienziata assassinata nel IV secolo dopo Cristo

Antico e contemporaneo si incontrano al Museo archeologico. Oggi alle 11, nella sala conferenze del servizio educativo, "Ipazia secondo Mathelda Balatresi". Un appuntamento, realizzato in collaborazione con l´associazione culturale "A voce alta", che rientra nel programma di "Incontri di archeologia" organizzati dal servizio educativo della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei. Con l´artista Mathelda Balatresi, che presenta il suo recente lavoro espositivo su Ipazia, si confronteranno Mariantonietta Picone Petrusa, Angela Tecce e Marco De Gemmis. Mentre Patrizia De Martino e Nico Ciliberti, introdotti da Marinella Pomarici, leggeranno alcune pagine da "Ipazia - Poemetto drammatico" di Mario Luzi.
E´ un mondo che si divide tra il bene e il male quello raffigurato da Mathelda Balatresi, che da anni si racconta attraverso Ipazia, l´astronoma e filosofa di Alessandria del quarto secolo dopo Cristo che ha di recente ispirato il film "Agorà", con Rachel Weisz. Un´eroina ante litteram, forse meno conosciuta di quanto meriti. Una martire del paganesimo e del libero pensiero, punita per le sue idee e i suo comportamenti poco "cristiani". Una vita conclusasi tragicamente. Ipazia fu torturata e assassinata dalla guardia armata del vescovo Cirillo: tra storia e leggenda, si tramanda che il suo corpo fu straziato prima di essere disperso.
«Nella figura e nella vicenda di Ipazia - scrive Marco De Gemmis - la Balatresi vuol forse leggere di sé e di tutto il femminile: cervello, capacità, fierezza e tenacia, fragilità e bellezza. In molti dei disegni ci sono soltanto Ipazia e la conchiglia, secondo alcuni l´arma del delitto dei cristiani che la fecero fuori».
Fino al 16 dicembre la Balatresi, autrice tra l´altro di "Mine in fiore", esposto nella fermata di Materdei delle Stazioni dell´arte della linea 1 della metropolitana, presenta al Museo archeologico alcuni dei lavori ispirati alla donna-scienziata: disegni a china, dipinti in gessetti colorati e due grandi teli a olio. Un lavoro quasi inedito che l´artista vede come emblema dell´intelligenza negata alla donna. Ipazia viene evocata in mantelli, come quelli che indossavano i filosofi greci, tuniche dai colori tenui e diafani, privi di figura. Sono abiti senza corpo. Nel disegnarla a china i capelli s´intrecciano a conchiglie, le armi causa della sua morte crudele.
Ipazia, uno dei simboli di forza, intelligenza e coraggio, ma anche fragilità, di parte della cultura femminista, diventa un tutt´uno con Mathelda. L´artista, che nel 1977 aveva disegnato polemicamente una donna con un capo diviso in sezioni, per opporsi all´idea che «ha la testa troppo piccola per l´intelletto, ma sufficiente per l´amore», parla questa volta attraverso Ipazia dipingendo pagine di letteratura visiva tentando di restituire dignità al personaggio. «Ho deciso di dedicarle una costellazione - racconta la Balatresi - perché Ipazia studiava le stelle e così ho dipinto delle mantelle da filosofa con le stelle comete, il sole e la luna». In mostra anche due lunghi teli che accolgono il corpo nudo di Ipazia/Mathelda, frontalmente e di schiena. «Ho pensato di fare un sudario di Ipazia che è anche il mio - conclude l´artista - Un miscuglio del suo sangue con il mio».

L´oroscopo della scienza "Carattere deciso dal sole"

La Repubblica 6.12.10
L´oroscopo della scienza "Carattere deciso dal sole"
di Elena Dusi

E la scienza ammise: la data di nascita influenza il carattere
I test americani sui topolini di laboratorio svolti in diversi mesi dell´anno

IL MESE di nascita influenza il carattere. Era ovvio per l´astrologia, ora lo è anche per la scienza. Ma lungi dal dare il suo avallo alla lettura degli astri, la ricerca della Vanderbilt University ottiene l´effetto contrario. In uno studio su Nature Neuroscience i ricercatori dimostrano che la quantità di luce assorbita nelle prime settimane di vita produce effetti indelebili sui neuroni ancora vergini dei bebè.
La lunghezza delle giornate che è diversa in estate e in inverno si imprime sul cervello dei bambini appena nati, influenzando per sempre il loro ritmo circadiano e producendo effetti futuri - deboli ma misurabili - su umore, propensione alla depressione e alla schizofrenia.
Gli esperimenti americani sono stati condotti sui topolini in laboratorio, regolando la durata dell´illuminazione artificiale. Ma il fatto che le prove siano state ripetute in diversi mesi dell´anno, e che test simili sull´uomo in passato si siano svolti contemporaneamente nell´emisfero nord e in quello sud (dove agli stessi mesi corrisponde un livello di illuminazione capovolto), dimostrano che è la quantità di luce, non la data di nascita a influenzare il carattere. E che l´unico astro la cui posizione in cielo conti per il nostro futuro è il Sole.
«Ci teniamo a dirlo, anche se il nostro lavoro assomiglia all´astrologia, non lo è affatto. Si tratta di biologia stagionale» precisa Doug McMahon che ha condotto lo studio. La ricerca Usa si è concentrata sugli effetti della luce su una piccola area del cervello ribattezzata "orologio biologico". È questo grappolo di neuroni situato dietro agli occhi a dettare all´organismo i ritmi circadiani, regolando sonno, veglia, appetito, pressione sanguigna, voglia di quiete, movimento e molto altro. Nei topolini vissuti per le prime 4 settimane a un ritmo di 16 ore di luce per 8 di buio, l´orologio biologico si è tarato sul regime estivo, e su questo è rimasto tutta la vita. Il contrario è accaduto ai topolini tenuti al buio per 16 ore al giorno. «Questi ultimi - spiega McMahon - hanno dimostrato di risentire molto dei cambiamenti stagionali. Questo spiega come mai gli uomini nati in inverno siano più spesso affetti da depressione invernale», causata dalla riduzione delle ore di luce.
Gli effetti di questo imprinting riguardano ritmi circadiani e tono dell´umore, ma non solo. «Il mese di nascita influenza anche la tendenza a diventare gufi o allodole» spiega Vincenzo Natale, docente di ritmi del comportamento e ciclo veglia-sonno all´università di Bologna, che da anni si dedica a questo campo di studi. «Per chi è nato in estate le giornate non finirebbero mai. Ecco da dove nasce la tendenza a diventare gufi. I nati in inverno sono invece mattutini doc. Ovviamente si tratta di statistiche e all´interno dei vari gruppi le differenze sono grandi». Nessun risultato invece è stato mai ottenuto dai ricercatori che si sono sforzati di legare data di nascita a tratti della personalità più complessi, come estroversione, socievolezza o addirittura livello di intelligenza.

Sunday, November 14, 2010

Non solo dea dell’amore, anche genitrice e portatrice di pace

Corriere della Sera 11.11.10
Poeti, condottieri, prostitute Ognuno aveva la sua Venere
Non solo dea dell’amore, anche genitrice e portatrice di pace
di Eva Cantarella

I festeggiamenti in onore di Venere, a Roma, avevano inizio il primo aprile. Quel giorno, raccontano Plutarco e Ovidio, le matrone usavano inghirlandarsi di mirto, per ricordare un episodio legato alla nascita della dea, nata — si raccontava — dalla schiuma del mare. Identificata a partire dal II secolo a. C. con la greca Afrodite, infatti, Venere aveva preso la personalità e le leggende di questa: tra le quali, appunto, quella della nascita, legata alla lotta tra il dio Crono e suo figlio Urano. Temendo che il figlio lo detronizzasse, Crono lo aveva castrato, gettando i suoi organi genitali nel mare, dalle cui acque un ben giorno era nata la bellissima Afrodite. Ovviamente nuda, e quindi costretta, appena emersa dai flutti, a nascondersi dietro il mirto per sottrarsi allo sguardo di una turba di satiri. Ma torniamo alla festa in suo onore: coronate di mirto, le matrone libavano alla dea con un liquore fatto di succo di papaveri, latte e miele, che Venere — si diceva — aveva gustato il giorno in cui era andata sposa. Dopo di che — è Ovidio a dircelo — spogliavano il simulacro della dea da collane e ornamenti, la lavavano, la asciugavano e, dopo averla di nuovo agghindata, le offrivano fiori e rose fresche.
Ma i culti in onore di Venere non si limitavano a quei riti, né a quel giorno. Le feste in suo onore erano tante, perché i romani non onoravano una sola Venere. Ne onoravano tante, diverse, ciascuna delle quali aveva una sua personalità e, per così dire, una sua competenza.
Prima di essere identificata con la dea dell’amore, infatti, la Venere latina veniva già celebrata il 1° aprile come Fortuna ed era, per i romani, la personificazione del momento generativo. Era la dea alla quale si doveva la vita, Venere genitrice: «Alma Venus, genitrix, hominum divomque voluptas», scrive Lucrezio: «Alma Venere, genitrice degli Eneidi (secondo una delle leggende sulle origini della città, i romani discendevano da Enea, figlio di Venere) delizia degli uomini e degli dei, tu che sotto gli astri erranti nel cielo fecondi il mare che porta le navi e la terra carica di messi, per te tutti gli esseri viventi sono concepiti e, nascendo, vedono la luce del sole; quando tu appari, o dea, fuggono i venti, fuggono le nubi del cielo, sotto i tuoi piedi la terra fertile produce fiori soavi, a te sorride la distesa del mare e il cielo, placato, versa un torrente di luce…» ( De rerum natura, incipit).
Ma Venere non dava solo la vita, dava anche pace e gioia: quando Marte, il dio della guerra, si abbandonava fra le sue braccia «vinto da eterna ferita d’amore», il mondo poteva godere, finalmente, di un periodo di pace. Attenzione, però: Marte, non era il marito di Venere, era il suo amante. Non a caso, dunque, Venere non proteggeva solo l’amore coniugale. Scrive Agostino ( De civitate dei, 4, 10) che a Roma c’erano due Veneri, quella onesta e quella disonesta: la prima, quella onesta, onorata da vergini e donne sposate, era onorata il 1° aprile; la seconda, quella disonesta, veniva celebrata dalle prostitute il 23 aprile, in un tempio che doveva essere eretto al di fuori delle mura cittadine. Ecco perché a Roma esisteva un tempio dedicato a Venere Obsequens, vale a dire obbediente, rispettosa, costruito nel 295 a. C. con le multe inflitte ad alcune matrone condannate per comportamento licenzioso. Venere era la protettrice di tutti gli amori. Era la madre di tutti, Venere Genitrice. Ma di qualcuno era genitrice in modo del tutto speciale. A un certo punto della storia di Roma, Venere si trovò a essere oggetto di una contesa politica. Al ritorno dalla guerra contro Mitridate, Pompeo aveva fatto costruire un teatro (il primo teatro romano in marmo), e in mezzo della cavea, alla sommità dei gradini, aveva fatto erigere un tempio dedicato a Venere Victrix (vincitrice), alla quale riconosceva così il merito della sua vittoria. In questo modo, aveva dichiarato Venere sua speciale protettrice. Ma non era il solo ad aspirare a un simile privilegio. Cesare, per non essere da meno, la celebrava come progenitrice della gens Iulia, alla quale apparteneva: lui non era solo protetto da Venere, discendeva da lei. E a lei promise un nuovo tempio, quello a Venere Genitrix, che fu poi eretto nel Foro al quale Cesare diede il nome, affidato a un collegio di sacerdoti incaricato di continuare i giochi e le feste indette per la consacrazione. E quando, dopo essere state interrotte alla morte di Cesare, le celebrazioni vennero riprese per iniziativa di Augusto, nel cielo apparve una grande cometa: l’anima di Cesare, dissero i romani.

Thursday, October 21, 2010

Santo Spirito in Sassia. Il "membro" della discordia, coperta la statua del dio Pan

Santo Spirito in Sassia. Il "membro" della discordia, coperta la statua del dio Pan
Chiara Pellegrini
Libero Roma 20/10/2010

In un mondo in cui, per dirla alla Christian De Sica, "se tolgono le mutande e te le tirano in faccia" stupisce la pudicizia di qualche buontempone che, da diversi giorni, copre il membro troppo vistoso di una statua. Il curioso episodio accade a Santo Spirito in Sassia dove, fino a domenica 24, si svolge la mostra "Antiquari nella Roma rinascimentale". Qui, tra busti e bassorilievi, spicca una statua del dio Pan, figura mitologica mezzo uomo e mezzo caprone. Pan, flauto alla mano, del caprone non ha solo le cosce irsute. Alto due metri, Pan, ha un po' "tutto" proporzionato. Sarà dunque per lo spirito realistico dell'opera o per un eccessivo senso della decenza che un novello Catone censura, ogni mattina, il fallo del dio greco. In quattro giorni di mostra già quattro diverse coperture. Prima una benda bianca attorcigliata proprio "lì", poi un berretto, anch'esso bianco, infine due bandane rossa ed un'altra azzurra. È mistero sull'autore del gesto. Intanto i galleristi si sono divisi in due fazioni, chi è perla visione integrale delle abbondanti nudità della statua, chi invece, protende per la copertura. «Certo, in un'edizione passata abbiamo avuto una mostra collaterale di arte erotica», conferma l'organizzatore Paolo Rufini, «ma era allestita in un percorso a parte, vietato ai minori di 14 anni». Morale: mentre si cerca di capire chi quotidianamente copre il "membro della discordia", la statua di "Antichità Grand Tour" di Guido Martini è stata posizionata un po' più indietro rispetto al corridoio centrale. Pan è soltanto una delle tremila opere di "Antiquari nella Roma rinascimentale". Un'esposizione che conserva pezzi italiani ed europei di alto antiquariato, mobili francesi, inglesi ed italiani, tappeti orientali, dipinti e ogni altra opera ricercata da professionisti del settore. Un nitidi antico e moderno, basti pensare alla presenza di opere di Andy Warhol e Giorgio De Chirico. Quest'anno l'evento si arricchisce di una grossa novità: l'alta gastronomia. Mercoledì 20 ottobre, ad esempio, si terrà l'anteprima di "Mete Divine", con una vetrina dei migliori agriturismi di Italia scelti in collaborazione con Agriturist. Poi, dal 21 al 24 sarà la volta di "Gourmet Hotel Collection", un evento di respiro nazionale volto a valorizzare la formula del "Bed&Dinner". Le strutture che saranno presenti, tra le migliori d'Italia, potranno a rotazione offrire al pubblico un saggio-assaggio delle loro capacità culinarie (www.witaly.it - www.porzionicremona.it).

Thursday, August 19, 2010

Congresso Mondiale Pagano – Bologna 26-29 agosto 2010

Congresso Mondiale Pagano – Bologna 26-29 agosto 2010.

WCER (World Congress of Ethinc Religions) Congresso Mondiale delle religioni etniche .
Il Wcer vuole rappresentare llee religioni etniche, indigene, autoctone e/o tradizionali d'Europa e delle altre regioni del mondo.
Quest'anno il congresso, si svolgerà per la prima volta in Italia, grazie all'associazione religiosa Gentilitas che organizza l'evento.

Si terrà dal 26 al 29 agosto 2010 a Bologna, visita a Roma il giorno 27 ai luoghi di culto pagani.

Sono tre le associazioni italiane che rappresentano il Wcer in Italia, una quarta è candidata ad aderirvi.

Numerose i rappresentanti da: Germania, Lituania, Regno Unito, Stati Uniti d'America, Grecia, Svizzera, Ungheria, India, Russa, Ucraina...
per un totale di oltre 100 rappresentanti.

Sarà possibile seguire il convegno anche attraverso il web grazie a paganesimo tv, canale Web della Federazione pagana.
Ogni congresso è legato ad una particolare tematica, quello di questo convegno è l’etica pagana.

Per chi fosse interessato ad assistere al convegno l'ingresso è libero, per maggiori informazioni:

Sito dell'evento: www.wcer2010.it

Friday, April 23, 2010

La scienza di Ipazia e la violenza cristiana

l’Unità 23.4.10
La scienza di Ipazia e la violenza cristiana
Il film di Amenabar sulla filosofa del IV secolo trucidata da San Cirillo Non è Hollywood: è uno splendido affresco sull’intolleranza religiosa
di Alberto Crespi

Non capitava da secoli. Si è parlato molto, in questi giorni, di Ipazia: filosofa e matematica, nonché donna attiva in politica nell’Egitto del IV secolo dopo Cristo provincia romana che, prima dell’Impero, era stata non a caso governata da una donna, Cleopatra. La memoria di Ipazia è da sempre parte integrante del «pantheon» femminista, ma stavolta il motivo scatenante è un film: Agorà, fuori concorso a Cannes 2009, solo ora sugli schermi italiani. E se da un lato il dibattito filosofico e scientifico ferve, dall’altro l’uscita del film è accompagnata da un assordante silenzio della Chiesa, che ha deciso di boicottare Agorà sui suoi mezzi di comunicazione.
Bisogna capirli, poveretti: hanno già troppi problemi, di questi tempi, per commentare un film che per altro racconta un’incontrovertibile verità storica. Ipazia, «pagana» non convertita, fu uccisa dai parabolani, la guardia armata del vescovo Cirillo. Costui, poi fatto santo e tutt’ora venerato come tale, era uno spietato uomo di potere i cui sgherri ammazzavano allegramente tutti coloro che rifiutavano di adeguarsi ai nuovi costumi. Nel film, i parabolani ricordano i talebani, e possiamo capire che per la Chiesa avere simili criminali fra i propri «padri» sia fonte d’imbarazzo.
ORBITE ELLITTICHE
Il film di Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro) è molto bello. È un raro esempio di film spettacolare e speculativo al tempo stesso. Non date retta a chi lo liquida come un prodotto hollywoodiano: non lo è. Ipazia è interpretata dall’inglese Rachel Weisz, figlia di genitori austro-ungheresi, e la produzione è quasi totalmente spagnola. Negli Usa, per la cronaca, non è nemmeno uscito. Lavorando sulle immagini ricorrenti del cerchio e dell’ellissi (Ipazia potrebbe aver intuito, qualche secolo prima di Keplero, le orbite ellittiche dei pianeti), Amenabar realizza una «falsa biografia» di un’eroina sulla cui vita ben poco sappiamo. Più che di Ipazia, Agorà parla di un’epoca in cui le religioni si combattono con violenza per assicurarsi il dominio sulle menti dei semplici. Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione.

Wednesday, April 14, 2010

Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza

l’Unità 13.4.10
Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza
di Mariateresa Fumagalli

Il convegno Due giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero
L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva «insegnare a pensare»
Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della filosofia, che anticipa i temi dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia il prossimo 20 aprile a Milano.

Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo.
Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto. Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio. Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa». Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia
e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo. Quanto alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di Costantino e Teodosio – la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare). Da dove nasceva allora il conflitto che opponeva filosofi e cristiani?
«La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente, Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e assimilavano la virtù alla ragione.
UOMINI COLTI, UOMINI SEMPLICI
Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti, mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o «illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni , annullava le speranze di quei tempi duri. Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una età segnata dall’angoscia. Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura. Ipazia parlava in pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato essere un uomo «diminuito» e inferiore...
La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia, ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.

Friday, April 09, 2010

Ipazia. La donna che sfidò la Chiesa

La Repubblica 9.4.10
Ipazia. La donna che sfidò la Chiesa
di Roberta De Monticelli

Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell´antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte
Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise
La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi

"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po´ frenetico deliquio…". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell´impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l´azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l´intimazione della verità è un´arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un duro atto d´accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d´aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E´ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. "Non c´è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."
Ma non c´è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo".
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un´idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".

Tuesday, April 06, 2010

Martire del pensiero il ritorno di Ipazia sotto i riflettori

La Repubblica Roma 6.4.10
Martire del pensiero il ritorno di Ipazia sotto i riflettori
La filosofa del IV secolo torna alla ribalta Con un convegno alla Treccani il 14 la ripresa della pièce e l´uscita del film
di Maria Pia Fusco

La martire laica del pensiero sotto i riflettori dello spettacolo

Alla scoperta di Ipazia, la filosofa e scienziata di Alessandria, figlia di Teone, ultimo direttore della Biblioteca alessandrina, massacrata nel marzo del 415 perché era una donna che credeva nella libertà di pensiero e nel valore della ragione e che avrebbe voluto una vita dedita allo studio, alla scienza, all´insegnamento. E nel IV secolo il Potere - l´impero romano in decadenza legato al cristianesimo in ascesa – proibiva alle donne l´accesso alla scienza, all´arte, all´attività pubblica. Se al nome di Ipazia l´Unesco ha dedicato un progetto mondiale per favorire lo sviluppo scientifico al femminile, la sua figura ha ispirato il cinema e il teatro. Presentato al festival di Cannes, il film è Agora di Alejandro Amenabar, uscirà in Italia il 23 aprile, distribuito dalla Mikado e preceduto da due convegni: a Roma il 14 all´Istituto Treccani e a Milano il 20, presente il regista. Il sogno di Ipazia è il lavoro teatrale di Massimo Vincenzi, che torna per la quarta ripresa al teatro Belli da giovedì 8 aprile. «Il testo di Vincenzi sorvola sull´impegno scientifico di Ipazia per soffermarsi sui sentimenti e le riflessioni delle sue ultime ore di vita, con momenti molto commoventi. Ci sono voluti 1200 anni perché le donne conquistassero la libertà di pensiero di Ipazia», dice Francesca Bianco, protagonista della pièce. «L´ho scoperta grazie al teatro, mi stupisce che di una persona così importante nella storia dell´astronomia e della scienza non si parli nei libri di scuola. E mi colpiscono fortemente i personaggi dell´epoca, come il vescovo Cirillo che usava dire "Dio è con noi", la stessa frase di Hitler e dei nazisti».
L´attrice inglese Rachel Weisz è Ipazia in Agora, un film che, spiega il regista, «non è contro le religioni, ma contro i fondamentalismi che cancellano la tolleranza e il dialogo, si esprimono solo con distruzione e morte. Ci siamo resi conto che niente è cambiato, oggi come allora si uccide in nome di un dio». Il film racconta Ipazia che assorbe dal padre l´amore per la scienza, i tentativi disperati di salvare la Biblioteca alessandrina condannata dalla Chiesa, la passione con cui comunicava ai discepoli le sue scoperte astronomiche e matematiche, il rifiuto di convertirsi dal paganesimo al cristianesimo, perché significava "vendersi e perdere la libertà". E racconta la feroce repressione di pagani e di ebrei ad opera dei cristiani fanatici. A loro il vescovo Cirillo – poi diventato san Cirillo ed eletto tra i Padri della Chiesa – ordinò l´uccisione di Ipazia e la dispersione dei resti. Rachel Weisz ha scoperto Ipazia grazie al film e, dice, «è una donna meravigliosa e inusuale che ha dedicato la sua vita alle sue convinzioni. E pur essendo bellissima, ha rinunciato alla seduzione, all´amore, alla maternità. Mi sono chiesta perché il cinema non l´abbia scoperta prima, ma mi rendo conto che non è un personaggio facile, è più rassicurante Cleopatra che una donna come Ipazia. E ci vuole coraggio a parlarne, perché la condanna della Chiesa cattolica è ancora un peso molto forte».

Saturday, February 13, 2010

SAN VALENTINO: LA FESTA VOLUTA DA UN PAPA CONTRO LE ORGE PAGANE

SAN VALENTINO: LA FESTA VOLUTA DA UN PAPA CONTRO LE ORGE PAGANE

(AGI) - Roma, 13 feb. - E’ la festa degli innamorati, fatta di romanticismo, cuoricini, cioccolatini e rinnovate promesse d’amore. Ma San Valentino non nasce dal nulla, e non ricorre il 14 febbraio per caso: lo stesso giorno, per secoli, gli antichi romani celebravano una delle loro feste piu’ sentite, i Lupercali. Una festa della fertilita’, collegata probabilmente al mito della lupa che allatto’ Romolo e Remo, che si tingeva di forti connotazioni erotiche, e spesso scivolava in veri e propri momenti orgiastici. I luperci, sacerdoti del dio luperco che proteggeva le greggi, coperti solo di uno straccio di pelle ai fianchi, correvano alle pendici del Campidoglio percuotendo i passanti con brani di pelle degli animali sacrificati, e garantendo cosi’ loro la fertilita’. Le donne, in particolare, offrivano il ventre nudo ai colpi, per rimanere presto incinte. Il clima che si creava era spesso ad alto tasso di erotismo, tanto piu’ che, secondo la tradizione, quel giorno le ragazze vergini potevano essere iniziate da qualunque pellegrino. Festa della fertilita’ e del sesso, dunque, che resistette anche dopo l’avvento del cristianesimo: ancora nel 496, quando ormai da oltre un secolo e mezzo i riti pagani erano stati banditi, i Lupercali si celebravano a Roma. Proprio quell’anno papa Gelasio I decide di chiudere per sempre con una tradizione cosi’ marcatamente pagana e dionisiaca, rimpiazzandola con una piu’ “inoffensiva” ricorrenza dedicata a un santo martire, Valentino, decapitato nel 269. Tuttavia l’associazione specifica tra San Valentino e l’amore romantico e gli innamorati e’ quasi certamente posteriore, e la questione della sua origine e’ controversa. Una delle tesi piu’ note e’ che l’interpretazione di San Valentino come festa degli innamorati si debba ricondurre al circolo di Geoffrey Chaucer, che nel Parlamento degli Uccelli associa la ricorrenza al fidanzamento di Riccardo II d’Inghilterra e Anna di Boemia. La piu’ antica “valentina” di cui sia rimasta traccia risale al XV secolo, e fu scritta da Carlo d’Orleans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra. L’uso di spedire “valentine” nel mondo anglosassone risale almeno al XIX secolo. Gia’ alla meta’ del secolo negli Stati Uniti alcuni imprenditori iniziarono a produrre biglietti di San Valentino su scala industriale. Fu proprio la produzione su vasta scala di biglietti d’auguri a dare impulso alla commercializzazione della ricorrenza e, al contempo, alla sua penetrazione nella cultura popolare. Il processo di commercializzazione continuo’ nella seconda meta’ del XX secolo, soprattutto a partire dagli Stati Uniti. Finche’ la tradizione dei biglietti amorosi inizio’ a diventare secondaria rispetto allo scambio di regali come scatole di cioccolatini, mazzi di fiori, o gioielli. E alla fine, forse, per buona parte degli innamorati il 14 febbraio e’ tornato ad essere una festa pagana. (AGI)

Monday, February 08, 2010

La battaglia del tempio di Iside

La battaglia del tempio di Iside
FEDERICA CRAVERO
La Repubblica 07-02-10, TORINO

VENT' ANNI saranno anche un' inezia di fronte alla storia. Ma possono essere un' enormità se si tratta di vent' anni di liti e contese tra una famiglia di Monteu da Po e il ministero per i Beni e le Attività culturali, a colpi di carte bollate e ricorsi al Tar. Motivo dell' astio è l' esproprio di un terreno «per motivi di pubblica utilità», a cui si oppone la famiglia Delmastro, che su quell' appezzamento ha il giardino di casa e un capannone dove ricovera gli attrezzi di un' attività edile. Il motivo per cui il ministero vorrebbe alienare quel terreno è che il capannone è letteralmente incuneato - nelle foto aeree la vicinanza è impressionante- nell' area di uno dei principali siti archeologici piemontesi, quello della città romana di Industria. Non l' avete mai sentita nominare? Purtroppo non siete i soli. Sebbene sia a una trentina di chilometri da Torino, nel comune di Monteu da Po, Industria non rientra nei circuiti battuti dai turisti, non c' è nessuna pubblicità, nessun cartello stradale che ne segnali la presenza. E questo nonostante qui si trovino gli unici resti trovati nel nord Italia di un tempio dedicato al culto egizio della dea Iside. L' area archeologica portata finora alla luce dalle campagne di scavi che si sono succedute nel tempo - le prime tra Settecento e Ottocento su impulso del conte Bernardino di Lauriano, proprietario di diversi latifondi - ha infatti scrutato solo un decimo dell' antica città, che doveva avere una forma quadrata e misurare circa 400 metri di lato. Il resto è ancora sepolto nel sottosuolo e gli archeologi - fondi permettendo - vorrebbe proseguire nell' opera di scavo. In particolare il sogno è quello di sondare la zona ad est del tempio di Iside, dove secondo gli studi dovrebbe trovarsi il foro dell' insediamento romano. Che corrisponde appunto al luogo dove c' è il capannone della famiglia Delmastro. È dal 1991 che il ministero sta cercando di espropriare il terreno, ma prima il capofamiglia, l' ingegner Franco, poi dopo la sua morte la figlia Raffaella, adesso eletta consigliera comunale di Monteu, si oppongono. Assistiti dagli avvocati Claudio Dal Piaz e Cristina Roggia, hanno presentato diversi ricorsi e adesso il Tar ha dato loro ragione perché la pratica di esproprio non era stata eseguita in modo corretto. «Dopo vent' anni, lo ammettiamo, è diventata una questione di principio - racconta la vedova Paola Delmastro - Sappiamo che la nostra casa è su un terreno vincolato, ma lo Stato ci vuole prendere per due soldi ventimila metri quadrati pagando per terreno agricolo uno spazio dove ci sono alberi secolari e un' attività imprenditoriale. Noi eravamo disposti a vendere una parte del giardino a prezzi di mercato, ma loro non hanno soldi. E allora noi non vogliamo cedere». D' altro canto, il ministero li avrebbe privati di ogni filo d' erba fino al gradino della porta, costringendoli addirittura a cambiare ingresso. Ora il ministero ricorrerà in appello o avvierà una nuova pratica di esproprio. In ogni caso i tempi per esplorare il sottosuolo di quell' area slitteranno di parecchio. Quello dei Delmastro è rimasto l' unico terreno attorno al sito non espropriato. Per questo se i forestieri non conoscono Industria, nemmeno i suoi concittadini la amano troppo. I terreni attorno all' area sono vincolati dalla Soprintendenza archeologica: non si può arare, non si possono costruire nuovi edifici, non si trovano compratori disponibili a pagarlia prezzo di mercato. Alcuni abitanti sono stati anche denunciati dai carabinieri perché per piantare il granoturco nei campi attorno al sito archeologico hanno divelto settanta centimetri di resti di mura romane. «E sono stati condannati», gridano ancora allo scandalo alcuni montuesi. «Da un po' di tempo siamo riusciti a portare le scuole a visitare i resti e ci aspettiamo che siano i bambini a portare a Industria i loro genitori - spiega il sindaco Maria Elisa Ghion - E organizziamo anche qualche evento, ma non c' è nessuno che veda questo sito come un' occasione di sviluppo e di turismo. Una volta la popolazione era addirittura ostile, oggi pare rassegnata ad avere in casa un patrimonio».

Wednesday, December 23, 2009

Macché matriarcato Quelle Veneri sono delle «Veline»

Macché matriarcato Quelle Veneri sono delle «Veline»
Ida Magli
mercoledì 23 dicembre 2009 - IL GIORNALE

In mostra a Milano statuine femminili del 27 mila avanti Cristo. Ma non si direbbero certo divinità...
L a mostra «Dal 27000 a.C. Antenate di Venere», aperta al Castello Sforzesco di Milano fino a tutto il febbraio 2010, è tanto ricca di informazioni scientifiche quanto piena di quelle «suggestioni» che immancabilmente suscitano le immagini femminili.
Notiamo subito che qui prevalgono i reperti di statuine femminili. Per quanto si tratti di una selezione voluta, non si può fare a meno di riflettere su di un fatto ricorrente e che accomuna le conoscenze che abbiamo di qualsiasi civiltà, sia del passato più remoto che di quello recente: le rappresentazioni femminili sono sempre più numerose di quelle maschili, soprattutto più significative, con l’accentuazione sessuata del loro corpo, il segreto del loro volto sotto la meticolosissima pettinatura. Sembra quasi che gli uomini della preistoria abbiano voluto, come nelle odierne guide turistiche, far apprezzare il loro mondo piazzando qua e là soprattutto immagini di donne. Questo fatto ha talmente colpito la fantasia degli studiosi da far nascere a più riprese, durante gli ultimi due secoli, le più ardite teorie su un originario periodo di matriarcato, di potere delle donne, accompagnate da ipotesi sulla Grande Madre come potentissima divinità, dando luogo a dispute accesissime fra storici e archeologi invasi da una specie di febbre femminista ante litteram. (Succederebbe lo stesso, tuttavia, agli eventuali archeologi di un lontanissimo futuro che, trovandosi davanti alle innumerevoli statue della Madonna dell’Europa cristiana e in mancanza di una documentazione scritta, sarebbero autorizzati a credere che è una donna il nostro Dio.)
Soltanto quando nel ’900 sono sopraggiunti gli antropologi, con la loro documentazione sulle società «primitive», dove il potere non è mai nelle mani delle donne, gli entusiasmi a poco a poco sono rientrati e, malgrado il femminismo abbia tentato di farli resuscitare, la ragionevolezza ha preso il sopravvento e il matriarcato è ritornato a essere quel fantasma maschile, piacevole o pauroso secondo i casi, che è sempre stato.
Del resto è evidente che è stata una ferma, sicura mano maschile a forgiare, a scolpire le statuine che ci troviamo di fronte. La nitida chiarezza dell’idea che la guidava era tale che riusciamo a percepirla, a comprenderla immediatamente anche in un solo «pezzo» di un corpo mutilato. Quel corpo è l’oggetto di un pensiero che ha voluto comprendere tutto, il mondo intero, la vita dell’uomo e la propria stessa vita attraverso la donna, attraverso il segreto nascosto nella donna, nascosto nel corpo della donna, un corpo che è tutt’uno con il suo spirito, con la sua anima. È questo capire, nella fisicità, e al di là della fisicità sessuata di quella donna che l’artista ha modellato, ciò che giunge fino a noi. Seni, natiche, vulva, vita, cosce, non sono oggetto né erotico né sessuale; non è né il desiderio maschile, né la fecondità, né la maternità il significato della loro rappresentazione. Il significato è nascosto in quello che il vir teme talmente da non parlarne praticamente mai, anche se è presente e sottinteso in ogni discorso: la propria «potenza» sessuale, quel «fallo» per il quale continuiamo a usare una lingua di rispetto e che, oggi come ieri, il maschio cerca di conoscere attraverso lo strumento-donna. Nelle statuine femminili noi, a nostra volta, dobbiamo cercare il maschio.
Davanti alla straordinaria ricerca di materiali e di tecniche per poter mettere in atto l’arte della «rappresentazione» che i reperti della più antica preistoria ci testimoniano, le abituali interpretazioni di tipo magico, rituale, religioso, misterico, appaiono sempre più povere, inadeguate. Basterebbe, forse, la figurina femminile rappresentata su di un dente di cinghiale a «sorprendere», a scuotere la nostra pigrizia mentale, l’ovvietà delle nostre convinzioni. Può darsi che la fecondità femminile fosse collegata all’agricoltura; può darsi che particolari riti servissero a garantire un buon raccolto: la capacità associativa del pensiero logico sicuramente si è applicata in questo campo come in tutti gli altri bisogni di sopravvivenza.
E d’altra parte, come dice Léroi-Gourhan, se i riti e le preghiere fossero consistiti nel camminare in processione lanciando dei fiori verso il cielo, noi non potremmo saperne nulla. Ma di una cosa dobbiamo essere sicuri: non sono stati questi bisogni a spingere un uomo-creatore, un grandissimo artista del quale purtroppo non abbiamo la firma, a selezionare un dente di cinghiale per «adattarvi» la forma femminile che voleva rappresentare.
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nostra nota. nel disegno, dal nostro archivio, Arianna raffigurazione da Pompei

Thursday, November 26, 2009

Pregiudizi e religione. Le donne e quella sacra violenza

l’Unità 26.11.09
Pregiudizi e religione. Le donne e quella sacra violenza
di Enzo Mazzi

Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che si è svolta ieri si sono sprecate analisi, denunce, propositi, programmi. Ma la violenza è stata declinata per lo più in termini fisici. Le ferite del corpo sono gravissime ma non sono le sole. Poche le analisi e le denunce e i progetti per eliminare la violenza che si annida negli snodi profondi delle culture, nei modelli consueti di comportamento quotidiani, delle strutture ideologiche rituali simboliche delle religioni compresa quella cristiana e cattolica.
Quasi un tabù è ad esempio la violenza del “sacro” contro le donne. Talvolta viene allo scoperto come quando si accusano le donne che abortiscono di essere assassine e si scomunicano e si torna a chiedere per loro il carcere. Ma più spesso è sottile, pervasiva e strisciante. I roghi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c’era dietro e cioè l’annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura e sulle coscienze.
La donna che ha potere sulla vita è in sé una concorrente pericolosa di ogni sistema di dominio, non soltanto di quello religioso.
Non solo l’Inquisizione cattolica ha acceso i roghi. I rappresentanti della nuova scienza medica contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del limite di tollerabilità biologica delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro, ma anche per strategia politica: volevano mani libere nella loro sperimentazione e puntavano al monopolio della medicina e al controllo sulla sua organizzazione, sulla teoria e sulla pratica, sui profitti e sul prestigio. Il rapporto con la natura di cui erano portatrici le streghe fu annullato dai roghi e non è stato più recuperato. La modernità ha così percorso la sua strada di divaricazione dal naturalismo femminile fino a giungere all’attuale dominio aggressivo e violento dell’individuo verso il resto del mondo, in una guerra di tutti contro tutti regolata e paradossalmente moderata dal ricatto atomico.
È indispensabile una vera e propria riparazione storica in tutte le culture e religioni, in tutti gli ambiti di vita, per i misfatti compiuti contro le coscienze femminili fin dalla più tenera età, contro la loro dignità, i loro saperi, le loro anime e i loro corpi, la loro capacità generativa e creativa, allora e solo allora sarà possibile una vera pacificazione del mondo.
Sono ancora troppo poche le realtà che come le comunità di base mirano a scoprire, sradicare e combattere la violenza contro le donne che si annida negli snodi profondi della società, della cultura e della vita e in particolare nelle strutture del sacro.

Saturday, October 24, 2009

Se a scuola ci fosse l'ora pagana

Se a scuola ci fosse l'ora pagana

La stampa del 23 ottobre 2009

di Guido Ceronetti

A leggerne sulle cronache, non pare che l’ora di islamismo depurato sia prossima sul quadrante della scuola italiana.
La lentezza dell’Italia ufficiale è Oriente, il suo tempo non conosce orario, tra la frenesia informatico-telematica s’intravvede il beduino che guarda le capre, la mula di mastro Don Gesualdo, la guerra di Troia... Basta pensare ai processi civili: passano generazioni... Però neppure l’Islam ha fretta. L’idea di convertire l’Europa cristiana in dissolvimento religioso, dopo le mura di Vienna e le lance di Poitiers, e il lungo sonno prima di Lawrence e l’apparizione come dal nulla di Israele, è sogno islamico, certamente.

Ma forse nella diaspora delle moschee vecchie e nuove si pensa di arrivarci (Ramadan puntualmente osservato da almeno metà delle famiglie italiane oggi tiepidamente cattoliche) non prima del 2101.
Quel che sarà - sarà.
La prospettiva più vicina impone due verità: a) l’Islam non è assimilabile né modificabile. Quel che è avvenuto nel tremendo dogmatismo cristiano medievale rotto dalla Riforma e inoltre dopo tre secoli di miracolosa filologia critica biblica incessante non ha neppure sfiorato la grande Muraglia coranica, e adesso abbiamo anche il confronto radicale con una guerra santa senza frontiere. b) il moltiplicarsi delle moschee non è segno di integrazione né di estensione della libertà di coscienza (che subordina tutti i dogmi alla legge di ogni vera Repubblica) ma di occupazione, che per noi è politica e data per concessione, per loro si tratta invece di spazi e spazietti urbani assunti dalla fede coranica e sottratti legalmente, in senso religioso illimitato, alla sovranità della maggioranza non mussulmana.
Islam non è buddismo né chiesa evangelica o altro. Islam è Islam. E’ sciocchino chiedergli di essere diverso. All’Opus Dei puoi chiedergli di essere liberale? Bene. A ciascuno il suo.
L’ora scolastica cattolica brucia un tempo dello Stato uguale per tutte le religioni (che in Italia sono, grandi e piccole, circa settecento); l’ora scolastica islamica azzererebbe (o renderebbe relativa) la sovranità statale assoluta su tanti frammentini di territorio pubblico quante sono le aule destinate a ospitarla. Nell’idea coranica di comunità religiosa - se non erro -, la umma, il popolo dei credenti, come ogni asfalto o tappeto di preghiera, a maggior ragione ogni aula dove s’impartiscano a un pezzetto di umma lezioni di Libro Sacro (il Kitàb) diventerebbe dar-al-islam, Casa di Islam (tradotto solitamente terra d’Islam, ma nel fondo rimane sempre il senso primario di casa propria, porzione, porziuncola del popolo credente).
Esaminandola in base al diritto religioso islamico la faccenda potrà, credo, essere chiarita meglio, e suggerisco di consultarlo prima di compiere passi incauti per incantamento dell’inafferrabile fantasma dell’integrazione per tutti e concessa a tutti.
Se l’ora fosse, utopisticamente, catto-mussulmana e addirittura maschile-femminile, la lezione di tolleranza sarebbe esemplare; ma dubito che la Chiesa e gli imam, giubilanti, la riceverebbero dal nostro Stato come una grazia.
La bio-diversità religiosa è una realtà umana come tutto ciò che è vivente, e ne va tenuto conto. L’esistenza delle balene (non esclusa Moby Dick) importa ai condominii della Bovisa o di Mirafiori, dei Parioli o di Firenze, ma per applicare alle religioni questa grande e povera verità non si può dare filosoficamente il mondo alle concezioni monoteiste: ci vuole una filosofia naturale, un pensiero dai monoteismi rigettato e perseguitato.
Un’ora scolastica e extrascolare diversa, allora? Di paganesimo puro e rigoroso? Di pitagorismo? Di stoicismo? Con letture virgiliane? Il sesto dell’Eneide come iniziazione ai regni per dove passerà Dante il cristiano? Dante frater templarius, amico di ebrei e di mussulmani, e grande condor in volo al di sopra di tutti?
Sarebbe una bella finestra, da cui potrebbero apparirci, forse, le luci remote dell’Amore infinito.

Tuesday, October 13, 2009

A lezione dagli sciamani d´Africa

La Repubblica 6.10.09
A lezione dagli sciamani d´Africa
di Filippo Tosatto

Corpo e psiche. Demoni e ombre Da Senegal e Mali guaritori in tour Per confrontarsi su un nemico comune: il male
"La malattia spezza l´armonia non solo dell´organismo ma dell´intera comunità"

PADOVA. Entrano nell´aula magna dell´università sfoggiando lunghe vesti colorate: nove uomini e una donna, tutti guaritori africani arrivati dal Mali e dal Senegal. Nessun intento folcloristico, però, da parte dell´ateneo di Padova che li ha invitati: «Un´occasione di incontro e dialogo tra medicina tradizionale africana e medicina convenzionale occidentale», la definisce la psicologa Silvia Failli coordinatrice del progetto ImmaginAfrica, e un riconoscimento istituzionale a operatori collaudati che lavorano, con successo, nell´ambito della fitoterapia e della psichiatria.
Rivolto un corale «aga poo» (bentrovati) agli ospiti veneti, gli sciamani d´Africa hanno illustrato metodi, limiti e obiettivi del loro sapere antico. Che coltiva un approccio "olistico" al paziente e alla malattia, mirato più che a curare il sintomo a prendersi cura dell´individuo sia nel suo male fisico o psichico che nell´equilibrio - o nella disarmonia - all´interno del villaggio, della comunità tribale e della famiglia. Insomma, la presa in carico del malato in quanto «membro del corpo sociale esteso».
Se le definizioni della patologia sono immaginifiche - dall´epilessia attribuita ai «demoni seduti sul cuore», alla crisi psicotica dovuta «all´ombra che si avvinghia alla persona» -, i rimedi attingono alla conoscenza sperimentata di erbe e piante terapeutiche, somministrate spesso d´intesa con il medico curante "ortodosso". I campi d´applicazione? L´ambito materno-infantile (gravidanza, parto e puerperio) per cominciare; e poi il diabete, le malattie tropicali, i problemi oculistici e i disturbi della psiche.
A colpire la platea - composta da medici, psicologi, infermieri e studenti - è stata la meticolosità del "protocollo" adottato dai guaritori: la manipolazione del corpo, la capacità di calibrare i dosaggi delle erbe, la ricerca e l´individuazione di nuove sostanze naturali benefiche. Un esempio? «Gli estratti vegetali impiegati nella prevenzione della malaria», osserva Ogobra Kodio, il medico maliano a capo della delegazione, «provengono da piante officinali autoctone».
In Africa, spiega un anziano guaritore, alla malattia viene sempre attribuito un significato e il suo insorgere spezza sia l´equilibrio interno all´organismo che quello esistente tra l´uomo e il sistema sociale. La cura e la guarigione, perciò, assumono anche il significato di un legame sociale ritrovato. Ma come distinguere i portatori di sapere dai ciarlatani? A denunciare questi ultimi sono in primo luogo i guaritori riconosciuti. Che - qualora la patologia lo consenta - operano in parallelo, e in collaborazione, con il medico e con l´ospedale. Non stupiscono, allora, le consultazioni miste già avviate tra un gruppo di medici della facoltà di Padova e la delegazione africana, né la tappa successiva che li ha visti relatori all´università romana La Sapienza.