Corriere della Sera 23.2.08
Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa
Generosi per obbligo, i geni non c'entrano
di Massimo Piattelli Palmarini
Studi effettuati su alcune specie di insetti sociali (e altri animali) aprono nuovi scenari su uno dei rompicapi della teoria evoluzionista
Un giorno del lontano 1939, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania e la conseguente mobilitazione generale, il grande genetista J. B. S. Haldane, eroe della prima guerra mondiale, già troppo anziano per essere richiamato sotto le armi, con un suo collega umanista, osservava con tristezza, alla stazione ferroviaria di Cambridge, tanti giovani partire per il fronte, consapevoli che molti non sarebbero tornati.
Il letterato sbottò: «Caro Haldane, come può la tua teoria evoluzionistica spiegare tutto questo?» Haldane ci pensò un attimo e rispose, lapidariamente: «Nessun problema, se con il loro sacrificio salvano la vita ad almeno due fratelli o otto cugini ».
Molti anni dopo, nel 1964, questa brillante intuizione venne sviluppata da un altro genetista inglese, William Donald Hamilton, in una teoria detta della selezione parentale (kin selection). Le sue equazioni prevedono che un comportamento altruista sia evolutivamente efficace, se il costo riproduttivo di tale comportamento è inferiore ai vantaggi riproduttivi ottenuti da un buon numero di stretti consanguinei. In altre parole, quello che conta non è la trasmissione dei geni fisici, portati da un singolo individuo, ma quella di tutte le copie di quei geni, portati da individui imparentati. Questo aprì la strada all'idea del «gene egoista», resa famosa da ancora un altro genetista ed evoluzionista ingles e, Richard Dawkins.
Gli individui, secondo questa teoria, sarebbero macchine riproduttive al servizio dei propri geni. Una lunga storia, quindi, quella dei comportamenti altruistici, un perenne rompicapo per la teoria dell'evoluzione darwiniana. Fu, infatti, lo stesso Darwin a confessare esplicitamente che essi potevano essere «fatali» per la sua teoria. Perché? Beh, supponiamo che esista un gene, o un complesso di geni, che predispone un individuo ad essere altruista nel senso ristretto contemplato dalla teoria dell'evoluzione. Con quel comportamento, il portatore di quei geni diminuisce la propria probabilità di lasciare discendenti, aumentando invece, la probabilità di altri individui di lasciarne. Il meccanismo ortodosso della selezione naturale prevede che tale corredo genetico debba scomparire piuttosto rapidamente.
Invece, si osservano in natura molteplici comportamenti, in specie diverse, che sono altruisti proprio in questo senso. Scimmie che emettono un caratteristico grido, avvertendo le altre scimmie dell'approssimarsi di un predatore, ma rendendosi così più facile preda. Sempre all'avvicinarsi di un predatore, alcune specie di gazzelle saltellano cospicuamente sul posto e alzano la coda, scoprendo così un cospicuo sotto-coda bianco, dando così un segnale di fuga al branco, ma ritardando la loro propria fuga. Il comportamento altruista per eccellenza, il più studiato e il più discusso, è quello delle femmine «nutrici» in svariate società di insetti, per esempio le api e le formiche. Le nutrici non si riproducono affatto, accudendo invece le uova delle loro sorelle, figlie della regina.
La scena si sposta ora a Harvard, nel 1976, quando Hope Hare e Robert Trivers spiegano in dettaglio, adottando le equazioni di Hamilton, le ragioni evolutive del comportamento delle nutrici.
La particolare conformazione dei cromosomi negli insetti sociali fa sì che due sorelle abbiano il 75% dei geni in comune, contro il 50% di geni in comune tra madri e figlie, e appena il 25% tra sorelle e fratelli. Quindi è evolutivamente per loro più vantaggioso accudire le sorelle che non avere discendenti propri. Non solo, ma i conteggi genetici di Hare e Trivers prevedevano che le nutrici allevassero, in media, tre uova femmine per ogni uovo maschio. I dati sperimentali lo confermavano e il loro articolo, pubblicato in «Science», divenne un classico.
Arrivano, però, questo mese di Febbraio 2008, due guastafeste: l'inglese Francis L.W. Ratnieks e il belga Tom Wenseleers. In un dettagliato articolo appena pubblicato su «Trends in Ecology and Evolution », rivedono le bucce alla teoria di Hamilton e di Hare e Trivers. Dopo aver ben calcolato tutti i coefficienti di correlazione genetica in molte specie di insetti sociali, concludono, cifre alla mano, che la parentela stretta non spiega completamente il fenomeno delle femmine nutrici. La spiegazione risiede anche nella «coercizione» sociale (letteralmente).
La colonia nel suo insieme punisce severamente, non di rado con la morte, le femmine che tentano di accoppiarsi ed avere discendenti propri. Il motore dell'altruismo delle nutrici, quindi, non è solo la correlazione tra i geni, ma anche un severo e spietato controllo sociale. Questi autori usano i termini «coercion» e «policing» (controllo poliziesco), estendendolo anche ai comportamenti in società di pesci. Nasce, adesso, il problema della spiegazione evoluzionistica della coercizione, legata ai coefficienti di parentela, ma non completamente spiegata da questi. Il quadro si fa più complicato. Trivers, Hare, il loro maestro E. O Wilson e Dawkins, tra altri, non si erano peritati di trarre «lezioni » dalla loro «kin selection» per le società umane. Il sacrificio dei piloti kamikaze, ci dissero, si spiegava con l'altissimo grado di imparentamento del popolo giapponese.
Ratnieks e Wenseleers indulgono anche loro, brevemente, in diverse estrapolazioni sulle società umane. Lasciamole da parte, perché non penso avranno miglior destino delle precedenti. Il genetista americano Theodosius Dobjansky è famoso per aver detto: «In biologia niente ha un senso se non alla luce dell'evoluzione». Ma io concordo con il genetista inglese Gabriel Dover, in passato amico e collaboratore di Steven J. Gould e Richard Lewontin: non c'è molta luce da ricavare dall'evoluzione, per le società umane.
Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa
Generosi per obbligo, i geni non c'entrano
di Massimo Piattelli Palmarini
Studi effettuati su alcune specie di insetti sociali (e altri animali) aprono nuovi scenari su uno dei rompicapi della teoria evoluzionista
Un giorno del lontano 1939, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania e la conseguente mobilitazione generale, il grande genetista J. B. S. Haldane, eroe della prima guerra mondiale, già troppo anziano per essere richiamato sotto le armi, con un suo collega umanista, osservava con tristezza, alla stazione ferroviaria di Cambridge, tanti giovani partire per il fronte, consapevoli che molti non sarebbero tornati.
Il letterato sbottò: «Caro Haldane, come può la tua teoria evoluzionistica spiegare tutto questo?» Haldane ci pensò un attimo e rispose, lapidariamente: «Nessun problema, se con il loro sacrificio salvano la vita ad almeno due fratelli o otto cugini ».
Molti anni dopo, nel 1964, questa brillante intuizione venne sviluppata da un altro genetista inglese, William Donald Hamilton, in una teoria detta della selezione parentale (kin selection). Le sue equazioni prevedono che un comportamento altruista sia evolutivamente efficace, se il costo riproduttivo di tale comportamento è inferiore ai vantaggi riproduttivi ottenuti da un buon numero di stretti consanguinei. In altre parole, quello che conta non è la trasmissione dei geni fisici, portati da un singolo individuo, ma quella di tutte le copie di quei geni, portati da individui imparentati. Questo aprì la strada all'idea del «gene egoista», resa famosa da ancora un altro genetista ed evoluzionista ingles e, Richard Dawkins.
Gli individui, secondo questa teoria, sarebbero macchine riproduttive al servizio dei propri geni. Una lunga storia, quindi, quella dei comportamenti altruistici, un perenne rompicapo per la teoria dell'evoluzione darwiniana. Fu, infatti, lo stesso Darwin a confessare esplicitamente che essi potevano essere «fatali» per la sua teoria. Perché? Beh, supponiamo che esista un gene, o un complesso di geni, che predispone un individuo ad essere altruista nel senso ristretto contemplato dalla teoria dell'evoluzione. Con quel comportamento, il portatore di quei geni diminuisce la propria probabilità di lasciare discendenti, aumentando invece, la probabilità di altri individui di lasciarne. Il meccanismo ortodosso della selezione naturale prevede che tale corredo genetico debba scomparire piuttosto rapidamente.
Invece, si osservano in natura molteplici comportamenti, in specie diverse, che sono altruisti proprio in questo senso. Scimmie che emettono un caratteristico grido, avvertendo le altre scimmie dell'approssimarsi di un predatore, ma rendendosi così più facile preda. Sempre all'avvicinarsi di un predatore, alcune specie di gazzelle saltellano cospicuamente sul posto e alzano la coda, scoprendo così un cospicuo sotto-coda bianco, dando così un segnale di fuga al branco, ma ritardando la loro propria fuga. Il comportamento altruista per eccellenza, il più studiato e il più discusso, è quello delle femmine «nutrici» in svariate società di insetti, per esempio le api e le formiche. Le nutrici non si riproducono affatto, accudendo invece le uova delle loro sorelle, figlie della regina.
La scena si sposta ora a Harvard, nel 1976, quando Hope Hare e Robert Trivers spiegano in dettaglio, adottando le equazioni di Hamilton, le ragioni evolutive del comportamento delle nutrici.
La particolare conformazione dei cromosomi negli insetti sociali fa sì che due sorelle abbiano il 75% dei geni in comune, contro il 50% di geni in comune tra madri e figlie, e appena il 25% tra sorelle e fratelli. Quindi è evolutivamente per loro più vantaggioso accudire le sorelle che non avere discendenti propri. Non solo, ma i conteggi genetici di Hare e Trivers prevedevano che le nutrici allevassero, in media, tre uova femmine per ogni uovo maschio. I dati sperimentali lo confermavano e il loro articolo, pubblicato in «Science», divenne un classico.
Arrivano, però, questo mese di Febbraio 2008, due guastafeste: l'inglese Francis L.W. Ratnieks e il belga Tom Wenseleers. In un dettagliato articolo appena pubblicato su «Trends in Ecology and Evolution », rivedono le bucce alla teoria di Hamilton e di Hare e Trivers. Dopo aver ben calcolato tutti i coefficienti di correlazione genetica in molte specie di insetti sociali, concludono, cifre alla mano, che la parentela stretta non spiega completamente il fenomeno delle femmine nutrici. La spiegazione risiede anche nella «coercizione» sociale (letteralmente).
La colonia nel suo insieme punisce severamente, non di rado con la morte, le femmine che tentano di accoppiarsi ed avere discendenti propri. Il motore dell'altruismo delle nutrici, quindi, non è solo la correlazione tra i geni, ma anche un severo e spietato controllo sociale. Questi autori usano i termini «coercion» e «policing» (controllo poliziesco), estendendolo anche ai comportamenti in società di pesci. Nasce, adesso, il problema della spiegazione evoluzionistica della coercizione, legata ai coefficienti di parentela, ma non completamente spiegata da questi. Il quadro si fa più complicato. Trivers, Hare, il loro maestro E. O Wilson e Dawkins, tra altri, non si erano peritati di trarre «lezioni » dalla loro «kin selection» per le società umane. Il sacrificio dei piloti kamikaze, ci dissero, si spiegava con l'altissimo grado di imparentamento del popolo giapponese.
Ratnieks e Wenseleers indulgono anche loro, brevemente, in diverse estrapolazioni sulle società umane. Lasciamole da parte, perché non penso avranno miglior destino delle precedenti. Il genetista americano Theodosius Dobjansky è famoso per aver detto: «In biologia niente ha un senso se non alla luce dell'evoluzione». Ma io concordo con il genetista inglese Gabriel Dover, in passato amico e collaboratore di Steven J. Gould e Richard Lewontin: non c'è molta luce da ricavare dall'evoluzione, per le società umane.