Monday, February 11, 2008

L'Importanza del Dio Pan

Pan insegue la ninfa.
A volte non la raggiunge. A volte lei si trasforma, in canna ad esempio. Da quella, prima sublime sublimazione, nasce la sirin­ga, lo zufolo fatto di sette canne dalla diversa lunghezza, da mettere sotto alle labbra, e soffiare.

Ama mai Pan, o è solo istinto, foia, desiderio che s’avvera, s’invera o si sublima?

Sì, ama. Ha amato almeno una volta, la ninfa Eco, che sempre gli è vicina. Che gli risponde, sempre, quando lui lancia il suo grido terribile, che scuote monti e valli e foreste. Lui la insegue sempre, la cerca tra le colline, ma non la prende mai. Perché lei, o è davanti a lui, o a volte dietro a lui, che ~li restituisce il suo grido acutissimo. Mai, mai si fa prendere. E Eco, la ninfa inafferrabile, l’unica vera compagna di Pan, il solitario.

Che quando è troppo solo, s’addolcisce da solo, in un atto for­tissimo, primordiale, di furioso violento scuotimento che si stempera nella dolcezza dello schizzo di sperma-gioia finale. E masturbazione.

E il suo membro di capro e la sua mente cornuta, che insieme alla sua mano, sdipanano l’arcano che già il primate scopre quando s’erge sulle sue gambe e si mette ritto col corpo.

L’uomo-dio capro ha inventato la masturbazione, o l’ha solo enfatizzata, fatta come lui divina? O è solo un problema di la­na caprina?

Nella masturbazione (puro istinto o puro gioco?) di Pan c’è la voglia (pansessuale, panteista, pantagruelica, panica?) di esplo­dere, come nell’urlo, in un gesto che non ha per scopo che sé stesso. La masturbazione non procrea, e solamente dà sfogo al desiderio? E desiderio di un altro, o desiderio di sé stessi, o de­siderio d’un desiderio?

E liberazione, scatenamento della fantasia che, senza un ogget­to, un altro soggetto se volete, può scatenarsi come vuole.

E fantasia che libera dall’angoscia, dicono gli Junghiani ancora. Quando, da sempre, esorcizziamo il malocchio, la malasorte, ci tocchiamo i genitali (operazione maschile, per la verità, e le femmine?) come gesto antidoto, come propiziazione a Pan, dio del panico, dio che ha inventato la masturbazione. Tutto in lui, a ben guardare, è masturbazione. È insomma gio­co di ninfe non raggiunte e di grotte, di altissimi silenzi e di grida lancinanti, di soli montani e meriggi dal declinare sonno­lento e arcano.

E Pan masturbatore porta l’uomo (e la donna?) ancor più indie­tro del periodo matriarcale, quando ormai era il coito a regna­re, con le sue femminili magie legate alla terra-femmina. Alla riproduzione. Al godimento finalizzato.

Il dio capro viene da ancor più lontano, dal periodo preceden­te, quando probabilmente ancora il nesso sesso-riproduzione non era così chiaro, e la istintualità nell’uomo era un diffonder sperma, uno schizzare al cielo. Che Pan, figlio divino di pasto­re e di capra, ritualizzò, mitizzò, divinizzò.

Poi saranno i Cristiani a chiamarla onanismo, da Onan, che, come si sa, fu colpito a morte dal Dio dei Cristiani, e amen.

Con Pan, i Cristiani si trovano il diavolo bello e fatto. Con le sue ninfe, ecco belle e fatte le streghe.

Lui, aveva il primo dono della mantica, della profezia.

È da Pan che Apollo la apprende. E il giovane pastore da lui amato, Dafnis, che è ‘promantis’ nel più antico di tutti gli ora-coli delfici, quello di Gaia.

Ed è già Il, tra la mantica di Pan, e quella delle ‘sue’ ninfe, che avviene la prima divisione. La mantica di Pan è profetica. Quella delle ninfe è terapeutica. Lui vede nel ribollire del san­gue nero i moti inevitabili delle creature, e dei mondi.

Loro, le ninfe, spiriti delle sorgenti, ‘delle polle d’acqua, dei luoghi agli uomini ristoratori, loro sono ‘genius loci’, e portan la guarigione. A volte portano anche follia, profezia, o en­trambe.

Ma non crediate che tutta la sua crudezza lo facesse solo dio d’Arcadia, lo tenesse lontano dalla Grecia e dalla grecità. No. Lui è a parte, certo. E altro, ma è anche parte integrante parte­cipante del tutto.

Lui è nella battaglia campale, quando la Grecia si gioca il suo destino, contro le forze preponderanti dei Persiani. A Marato­na, nel 490 a.C. Pan appare, nella grande mischia, e mette il panico ai nemici di Grecia, con il suo grido altissimo. Li sgomi­na. Atene gli sarà riconoscente.

Un’altra volta ricompare, anche quella nel momento più duro, più cruciale per la grecità, quando sono i Celti ad invadere, nel 227. Anche lì lui apparirà, metterà il panico tra i ‘barbari’ e salverà la Grecia.

Quasi un’ultima carta della grecità insomma, a mostrare come, oltre il patto di civiltà che ha creato e ‘polis’ e Olimpo, c’è lui, il figlio di capra, lui, il capro. In ‘Pan in America’ di D.H. Lawrence, Pan e il suo amore per Pinis, la ninfa che poi sarà pigna di Pan che è irto, duro come pino, lui e le ninfe sono tutt’uno, sono yin e yang insieme. Una ninfa Pan ama con un qualche risultato, perché da lei, da Eufe­me, che è la nutrice delle Muse, ha un figlio, Krotos. Sarà fra­tello di latte delle Muse, e con loro giocherà.

Pan e le sue ninfe sono progenitori-progenitrici delle Muse stesse. Le ninfe come ‘genius loci’ delle bellezze della natura, aura di quelle bellezze, diventan forse poi l’espressione della bellezza che gli uomini voglion produrre loro stessi. Dalla natu­ra all’arte, e saranno le Muse a guidarci.

Eufeme è loro nutrice. E la radice di ‘eufemismo’, il nome che abbellisce la cosa.

È qui che Pan, il capro (anche lui, perfino lui!) trascende sé stesso.

Nella iconografia della grecità, lui è sempre fuor di mischia, lui contempla, lui è altro dal resto della scena olimpica.

Però c’è. Qualche volta soltanto, fa a lotta con Eros, per gioco. Gioco-lotta è il loro rapporto. Perché Eros è la faccia solare dell’amore, e Pan il suo sole nero. Sono opposti, complementa­ri. Tocca a Lawrence, sull’argomento trovare la sintesi:

“... negli dei compositi, la tensione tra castità e passione o tra pe­nitenza e piacere, che viene in generale ricollegata al conflitto tra cristianesimo e paganesimo si rivelava una fase insita nel paganesi­mo stesso “.

Trascende spazio e tempo, Pan il capro, che, figlio di dio o uo­mo, di ninfa o bestia non si sa, può forse morire.

Morirà. Morirà con la grecità.

Era il tempo che a Roma regnava Tiberio. Il tempo in cui na­sceva Cristo. La Roma imperiale avea le sue corti, più d’una, oltre a quella di Tiberio, e una aristocrazia fatta di senatori e nuovi ricchi, attorno ai quali cultura greca e romana, mescola­te, rivaleggiavano.

Accanto agli antichi culti etruschi, diventati ormai un guscio vuoto, rivaleggiavano, nel vasto Pantheon, tre divinità.

Mitra, il dio duro e sanguinano dei legionari dell’impero, Isi­de, l’antica ed eterna, colei che è stata, è, e sarà, e Cristo, il dio del riscatto dei servi, dei miserabili, avrebbe presto fatto proseliti a frotte.

Un capitano di lungo corso Greco, dal nome di Epiterse (ci racconta Plutarco) navigava le coste dell’Acarnania. La nave era partita dalla Grecia, diretta verso l’Italia, che era ancora Magna Grecia, nonostante il dominio politico e militare dei Romani.

“D’improvviso, dall’isola di Paxo si udì una voce, o meglio, un grido, che chiamava Tamo. Erano tutti stupiti. Tamo era il nostro pilota egizio. Per ben due volte chiamato, lui non rispose. Alla terza volta, rispose a chi lo chiamava. Questi (uomo o dio?) con tono ancora più alto gli disse: ‘Quando arrivi nei pressi di Palode, annuncia che Pan, il grande, è morto...’

Appena si giunse presso Palode, una gran calma di venti, e di flut­ti, scese sul mare. Tamo, da poppa, con lo sguardo volto alla riva, come gli era stato detto, esclamò: ‘Pan, il grande, è morto!’

Non aveva neppur chiuso bocca, che un immenso gemito, non di uno ma di tanti, s’innalzò. E con questo grida di stupore “.

Così Plutarco, che ci lascia questa testimonianza lancinante, isolata da ogni contesto, sola.

Si sa solo che notizia di quell’episodio che squarcia il velo d’u­na grecità sulla quale Roma conta, Roma s’appassiona, arriva fino all’imperatore Tiberio.

Lui ne chiede spiegazione, ragione, ai suoi ‘esperti’, ai dotti di corte. A lui fu solo detto che si trattava del figlio di Hermes e di Penelope, e tanto dovette bastare.

Ma non bastò mai, né ai Greci, né ai Romani, né ai Cristiani, né a noi. Ci fu chi ipotizzò (tra gli studiosi è il Reinach ad avanzare l’ipotesi) che Tamo, il nome del pilota della nave cui è affidato il messaggio, è lo stesso nome di Tammuz, che è l’A­done egiziano, e che nei suoi riti spesso lui è dato per morto. Che quindi si trattasse della morte del dio egizio, diventato Adone nella tarda grecità. Che spesso ha frasi, come la stessa Saffo, che proclamano: ‘O Citrea, il bell’Adone è morto!’ Ma allora piangono l’Adone-amore, il bell’Adone che è il vaso, il recipiente dell’amore.

Si, ed anche no.

Pan è morto perché il dio che s’incarna nelle ninfe, e nella istintualità della natura, muore, non può non morire quando s’afferma il cristianesimo, che grida e giura che l’uomo ha un anima si, ma che appartiene al loro dio, non alla natura. E che grida, giura ed alla fine ahimè convince il mondo (suo) che la natura non ha anima. Di questo, per questo Pan è morto. Il Pan capro, figlio di pastore e di capra, è morto.

Ma il Pan figlio della madre-terra, il Pan delle ninfe, no, lui non è morto, lui è immortale.

E stato solo rimosso, dall’Occidente in cui ha vinto Cristo.

Il figlio del dio che ha diviso il reale nel bene e nel male, ha condannato tutto il passato come male, e ha diviso il futuro di tutti in paradiso ed inferno.

Molto ha preso per sé, del Pantheon greco.

Per Pan ha trovato una stupenda, perfetta collocazione nera. Ne ha fatto il diavolo, rimuovendolo dall’Olimpo in cui lui in

fondo non era mai stato. Cacciandolo nei boschi della psiche, nelle grotte dei sogni, nelle fonti dell’immaginario, insieme alle sue ninfe, fatte streghe, dove acquattato, aspetta.

Pan con le sue ninfe, ritorna.

E tornato con l’Orfismo rinascimentale e neoplatonico, un mo­mento magico e forte, che lo ha visto rivivere, anche nelle im­magini, trionfanti.

E tornato in Nietzsche. E tornato con Lawrence. E tornato an­che con il nerissimo Alister Crowley.

Ma son solo apparizioni fugaci.

Quando la scissione così terribile, così sofferta tra uomo e na­tura, operata dai seguaci del Cristo verrà meno, e la natura umana si ricomporrà in una unità più armonica, allora un altro nocchiero, un altro Epiterse — state sicuri — tornerà. Magari da qualche schermo elettronico (cioè dall’Olimpo piuttosto nero contemporaneo) ad annunciarci che Pan è vivo.

Perché Pan è vivo, e vive insieme a noi, dentro noi."

(Angelo Quattrocchi: Miti, Riti, Magie e Misteri dei Greci. Vallardi, Milano 1993)