Saturday, April 12, 2008

La spedizione baltica contro i miscredenti del Nord nel racconto di Enrico di Lettonia, soldato cronista

Ettore Cinnela - Il Foglio, 13-8-2005
La spedizione baltica contro i miscredenti del Nord nel racconto di Enrico di Lettonia, soldato cronista
E’ uscita la prima traduzione italiana del “Chronicon Livoniae”, nel quale si descrive la conversione forzata alla fede cristiana dei popoli di quelle terre lontane


Tutti sanno che l’Europa come oggi la conosciamo, con le sue etnie e nazioni, è venuta formandosi nell’Alto Medioevo, all’epoca delle grandi migrazioni di popoli (le cosiddette “invasioni barbariche”) e della propagazione del cristianesimo nel nostro continente. Molti pensano che quel secolare e travaglioso e grandioso processo storico si sia concluso, prima del fatidico anno Mille, con la fine delle incursioni ungare e vichinghe e con la conversione della Polonia (966) e della Russia di Kiev (988) alla religione cristiana (che, a quei tempi, aveva bensì due centri propulsori, Roma e Bisanzio, ma poteva considerarsi ancora unitaria). Questa è, infatti, l’immagine che la maggior parte dei libri di storia trasmette a studenti e lettori. Poche avarissime righe, solitamente, vengono dedicate al vasto e variegato mondo baltico il quale, per qualche secolo, restò ancora pagano ed entrò assai più tardi nel concerto degli Stati cristiani dell’Europa medievale.
Un malinconico destino ha segnato le vicende storiche di questa parte del nostro continente la quale, pur possedendo anch’essa una propria vigorosa ancorché multiforme identità, ha sempre dovuto difenderla con eroici sforzi dalla minaccia di vederla cancellata e ignorata. Del resto, ancor oggi, le piccole e vivaci nazioni baltiche sono misconosciute e neglette. Eppure, la costruzione dell’unità europea, da salvaguardare contro i gretti pregiudizi e interessi che contro di essa cospirano, si consolida anche scoprendo le peculiari fattezze delle tante nazioni (grandi o piccole che siano), riconoscendo a ciascuna di loro pari dignità e rinunciando all’imperialismo e al provincialismo culturali, l’uno non meno ottuso e nefasto dell’altro.
Un libro meritorio uscito da poche settimane getta luce su un’antica, ma oltremodo significativa, vicenda storica che vide protagoniste la Lettonia e le limitrofe regioni del Baltico (Enrico di Lettonia, “Chronicon Livoniae. La crociata del Nord (1184-1227)”, a cura di Piero Bugiani, prefazione di Pietro U. Dini, edito da Books & Company ). Si tratta d’una cronaca medievale, scritta in latino quasi otto secoli fa e adesso offerta per la prima volta al pubblico italiano nel testo originale e in traduzione, nonché con il corredo d’un solido apparato critico e storico. Come scrive nella premessa il baltista Pietro U. Dini, “questa cronaca, scritta verso il 1225 da Enrico di Lettonia, sarebbe banalmente attuale ­ considerato il recente ingresso delle tre Repubbliche baltiche nell’Unione Europea ­ se non fosse avvenuto che, sulla scorta delle vicende politiche del Novecento, proprio questi popoli e nazioni furono private, e per oltre mezzo secolo, del loro passato, prossimo e remoto, tale che ancor oggi esse sono oggetto di confusione reciproca o comunque di approssimativa conoscenza”.
Chi era Enrico di Lettonia e perché la sua Cronaca è, dopo tanti secoli, un testo fresco e avvincente, oltre che una fonte storica di primaria importanza? Su di lui scarsissime sono le notizie in nostro possesso, per lo più desunte dal testo stesso. Gli studiosi dibattono ancora se l’ecclesiastico autore del “Chronicon Livoniae” fosse tedesco oppure originario della Lettonia; chi è curioso di sapere su quali argomenti si basino le due ipotesi, non ha che da leggere, in questa eccellente edizione italiana, l’ampia introduzione e l’erudito commento storico-filologico di Piero Bugiani (un latinista, che è anche tra i pochissimi in Italia ad aver contezza del mondo ugrofinnico). Certo si è che lo scrupoloso e sveglio cronista conosce bene i fatti narrati, per avervi partecipato o per averne avuto notizia da protagonisti e testimoni. E’ lo stesso Enrico a dircelo: “Non è stato aggiunto nient’altro, se non quelle cose che quasi per intero abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che non abbiamo visto con i nostri occhi lo abbiamo appreso da coloro che lo videro e furono presenti”.
Allora come oggi, sono i cronisti e i giornalisti (quelli seri e bravi, s’intende) che, come segugi, vanno a caccia dei fatti del mondo, facendo incetta di palpitanti testimonianze e raccogliendo una documentazione diretta (che gli storici accademici poi rielaborano, a tavolino, mescolandole spesso con le proprie passioni e ubbie). Sempre essi svolgono un umilissimo e fruttuoso lavoro di scoperta e d’indagine; e, talvolta, sanno ergersi sopra i fatti narrati con un’originale visione critica. In fondo, gli storici migliori sono i testimoni e i cronisti i quali, oltre a metter insieme un vasto e attendibile materiale, sono altresì in grado di riflettere sulle cose viste e vissute, fondendo mirabilmente racconto e interpretazione. Non sono forse Tucidide e Polibio i più grandi storici contemporaneisti di tutti i tempi? E, per rammentare alcuni esempi a noi più vicini, pregevolissimi e ammirevoli (oltre che narrativamente felici) sono lo studio del giornalista americano William H. Chamberlin sulla rivoluzione russa, il libro di Angelo Tasca sulla nascita e avvento del fascismo, e l’affresco del grande reporter William L. Shirer sull’ascesa e caduta del Terzo Reich.
Anche i cronisti migliori sono, inevitabilmente, uomini di parte con le loro inclinazioni e simpatie politiche e ideologiche; importante è che riferiscano con scrupolo, senza nulla celare, i fatti ai quali essi assistono o dei quali vengono a conoscenza. Uomo di parte Enrico di Lettonia lo era senz’altro: nella crociata contro i pagani del Nord, da lui vissuta e narrata, egli non aveva dubbi sulla necessità di convertire ­ con le buone o con le brutte ­ i popoli baltici alla fede in Gesù Cristo. La sua Cronaca è, dalla prima all’ultima pagina, pervasa d’empito missionario e di reverente ammirazione per il vescovo di Brema Alberto, ch’era il grande ispiratore e regista della crociata contro i miscredenti del Baltico. Ma se si fosse limitato a infiorare la sua prosa di prediche e fervorini, così diffusi nella letteratura edificante del Medioevo, Enrico avrebbe lasciato ai posteri l’ennesima testimonianza della peculiare fede di quei tempi di forti passioni religiose. Egli ha invece scritto una cronaca insieme minuziosa e appassionante, capace di far rivivere al lettore d’oggi i crudelissimi fatti d’arme (nonché i complicati giochi politici) svoltisi, otto secoli or sono, sullo sfondo dei maestosi e lividi paesaggi del Baltico.
Enrico non nasconde la verità sull’inaudita ferocia con la quale furono condotte le crociate contro i popoli ancora pagani delle plaghe nordiche. Ecco come egli descrive la spedizione cattolica contro la provincia estone di Saccala (1208): “Trovarono uomini, donne, bambini nelle loro case in ogni villaggio e paese. Uccisero da mattina a sera quelli che incontravano, anche donne e fanciulli, oltre a trecento tra i migliori uomini e capi della provincia di Saccala, senza contarne innumerevoli altri, finché le mani e le braccia degli uccisori, stanche per la straordinaria strage di popolo, non furono esauste. Con tutti i villaggi colorati dal sangue copioso dei pagani, il giorno seguente si ritirarono e da ogni borgo, raccogliendo molteplici prede, portarono via numerose bestie da soma, diverse greggi e tantissime fanciulle: gli eserciti in quelle terre risparmiano solo loro”. Al tempo dell’incursione sopra descritta, la Livonia (com’era allora chiamata l’odierna Lettonia assieme ad altre terre limitrofe) era stata, sia pure da pochissimo, cristianizzata e guidava le campagne contro i bellicosi popoli pagani (anzitutto lituani ed estoni), i quali non riconoscevano l’autorità religiosa e politica della Chiesa di Roma (e neppure di quella di Bisanzio). L’energico promotore della cristianizzazione del Baltico era stato il “venerabile Alberto” che, appena consacrato vescovo di Brema (nel 1198 o nel 1199), arruolò centinaia di uomini per la spedizione in Livonia. Fu deciso, per rimarcare l’importanza della spedizione, che i beni dei pellegrini diretti nelle terre baltiche fossero poste sotto la protezione del Papa il quale, “comandando il pellegrinaggio in Livonia per la remissione plenaria dei peccati, lo equiparò al viaggio verso Gerusalemme”. Alberto fondò poi, nel 1201, la città di Riga “in un pianoro spazioso, presso il quale ci poteva essere un porto per le navi”; e, come apprendiamo ancora dal Chronicon, “dedicò la sede episcopale e tutta la Livonia a Maria, Madre santissima di Dio”. Se Alberto fu la mente ispiratrice delle campagne contro i pagani, il braccio armato della violenta cristianizzazione fu l’Ordine dei cavalieri Portaspada (i Fratelli della milizia di Cristo), ai quali (sono sempre parole di Enrico) “il papa Innocenzo diede come regola quella dei Templari e, come segno da portare sulla veste, la spada e la croce” legandoli “in obbedienza al loro vescovo”. Della crociata del Nord si discusse anche durante il concilio Laterano IV del 1215, durante il quale Alberto perorò la causa della Livonia, “la terra della Madre”, ricevendo l’approvazione e la benedizione di papa Innocenzo III. All’inizio del Tredicesimo secolo il mondo baltico era assai diverso da come oggi lo conosciamo. Le numerose e variegate etnie ugrofinniche e baltiche occupavano uno spazio immenso, che andava dalla Germania nordorientale ai territori intorno alla città russa di Novgorod; e anche la regione della Volga era popolata da tribù ugrofinniche. Nell’odierna Europa solo in tre nazioni (Finlandia, Estonia e Ungheria) si parlano idiomi ugrofinnici; e in Russia sopravvivono, soprattutto lungo il medio corso della Volga, piccole minoranze etniche (come i mordvini e i mari) appartenenti al ceppo ugrofinnico. Quanto alle lingue baltiche (queste, sì, appartenenti alla famiglia indoeuropea), esse si possono ascoltare solo nelle piccole Lituania e Lettonia. Eppure, basta aprire un buon atlante storico del Medioevo per scoprire che baltici erano anche i prussiani, prima che fossero annientati e germanizzati dai cavalieri dell’Ordine teutonico. I lituani occupavano allora un territorio ben più vasto di quello ch’essi oggi abitano; e, fino agli albori dell’età moderna, il granducato di Lituania avrebbe costituito un’importante formazione storico-politica (la più importante e interessante dell’Europa orientale), dando vita a uno Stato multietnico e multireligioso (di sudditi sia cattolici sia ortodossi) improntato alla più lungimirante (per quei tempi) tolleranza. Studiare questo mondo ignoto e affascinante non è solo un dovere intellettuale per chi voglia scoprire e conoscere (al di là delle frasi fatte e delle immagini oleografiche) la complessa e variegata e originale civiltà europea; è altresì un atto di giustizia verso popoli che, pur contribuendo tanto all’edificazione europea, sono stati per secoli espropriati della loro storia e della loro identità.
“La storia è la più crudele di tutte le dee”, amava dire il vecchio Frierdich Engels, che accettava come ineluttabile l’esoso prezzo del progresso e dell’incivilimento, i quali esigerebbero sempre caterve d’innocenti vittime sacrificali. Senza sposare l’amara visione trionfalistica dell’amico di Marx, possiamo prender atto del fatto che l’ingresso dei popoli baltici nell’Europa cristiana avvenne in modo violento e traumatico (come risulta anche dalla rievocazione di Enrico di Lettonia, cronista insieme scrupoloso e partigiano, veritiero e focoso, onesto e passionale). Ma, una volta entrati in Europa, quei popoli non ne sortiranno più, malgrado l’arcigno destino storico che, tante volte, li metterà a durissima prova.
Se mi è consentito fare un’osservazione che va al di là del Chronicon, di cui ho finora parlato, vorrei rimarcare un tratto distintivo del mondo baltico in senso lato il quale, pur costituito da realtà etnolinguistiche e storico-culturali fra loro diversissime, può considerarsi una grande realtà unitaria. I tre Stati che da poco sono entrati nell’Unione europea (Estonia, Lettonia e Lituania) hanno avuto esperienze storiche differenti l’una dall’altra; e in essi si parlano idiomi baltici e ugrofinnici. Eppure, questi Stati fanno parte d’una comune civiltà, che si discosta in maniera nettissima dalla limitrofa e invadente Russia. Ma anche nel reame di Vladimir Putin, erede mutilato dell’impero zarista e di quello sovietico, sorge oggi non lontano dalle rive del Baltico un moto di protesta e d’opposizione, che dobbiamo seguire con trepidazione e speranza. Negli ultimi mesi Novgorod ha fatto sentire la sua voce lanciando un’aperta sfida alle autorità di Mosca: “Noi, cittadini della libera Repubblica di Novgorod che fu annessa illegalmente dagli zar moscoviti nel 1471-1479, dichiariamo di non riconoscere il regime d’occupazione moscovita quale che esso sia, zarista, sovietico, “democratico” o presidenziale”.
Ai tempi in cui Enrico di Lettonia scriveva la sua cronaca, l’ortodossa repubblica di Novgorod si estendeva su un’area immensa ed era, tra l’altro, in guerra con gli ordini cavallereschi cattolici che stavano assoggettando le terre baltiche. Ma aveva libere istituzioni e magistrature (somiglianti, per certi versi, a quelle delle nostre repubbliche marinare) e manteneva fiorenti relazioni commerciali con le città tedesche della Lega anseatica. Inoltre, al pari delle terre baltiche, Novgorod fu risparmiata dalle feroci orde mongole, che portarono stragi e devastazioni nei principati russi. Insomma, pur difendendosi ­ nel bellum omnium contra omnes dell’epoca ­ dalle mire espansionistiche di scandinavi e tedeschi, la fiera repubblica del Nord ebbe un destino ben diverso dal resto della Russia, fino a quando venne conquistata e umiliata dal sovrano moscovita Ivan III il Grande (1478). Proprio le sue secolari e peculiari tradizioni di politica interna ed estera spiegano l’odierna proclamazione d’autonomia, che a qualche osservatore superficiale sarà parsa buffa e folcloristica.
Porterà “l’alternativa di Novgorod” (come vien detta) ad un rinnovamento democratico della Russia? Non è qui il caso di far profezie. Ma una cosa è certa. Quest’alternativa, che potremmo anche chiamare “alternativa baltica”, affonda le sue radici storiche in un’epoca e in un mondo che giova a tutti conoscere.

Ettore Cinnella
Docente di Storia contemporanea e Storia dell’Europa orientale all’Università di Pisa