Gli uomini e gli Dei
Il monoteismo ha vomitato il suo squallido rapporto con il
divino in ogni luogo. C’è chi si
accorge del fetore che il cristianesimo emana e si pone ad una distanza di
sicurezza, c’è chi ne rimane stordito. Il cristianesimo pone il divino al di
fuori del mondo. Le pecorelle del suo gregge vivono con gli occhi al cielo,
vuota la loro speranza di scorgere una qualche manifestazione del loro dio. C’è
chi ha raffigurato questa misera condizione con l’immagine del dio cristiano
come un insetto che vola fuori dal mondo, ogni tanto scende a pungere; quando
questo fenomeno si concretizza lo definiscono apparizione.
Divertente è la condizione di alcuni che si definiscono
“pagani”, questi ritengono che gli Dei non siano nel mondo, che non possiedano
un corpo, che vadano “immaginati” in quanto privi di forma e sostanza, viene da
chiedersi se questo sia paganesimo.
Sul rapporto uomini e dei leggiamo quanto scrive Angelo
Brelich nel suo libro “i greci e gli nei” nel capitolo intitolato “il
politeismo greco”:
“
Solo la netta coscienza delle insopprimibili differenze tra
dèi ed uomini consente ai Greci di accentuare, in misura altrove sconosciuta,
quell’affinità che rende possibile una comunicazione straordinariamente viva
tra mondo umano e mondo divino. Esiodo racconterà come — in seguito al misfatto di Prometheus — le vie degli uomini si siano separate da quelle degli dèi. Da
allora l’uomo soggiace al suo destino di mortale ed è tenuto a sacrificare agli
dèi: ma il mito esiodeo, mentre fonda l’abissale distacco, mette in rilievo
anche la comune origine di dèi ed uomini, una comune natura anteriore alla
separazione. Essa verrà riaffermata da Pindaro (Nem. 6): «una è la specie degli
uomini e degli dèi; da una madre traiamo respiro entrambi; ciò che ci separa è
un potere interamente distinto, di modo che l’una (= la specie umana) è nulla, l’altra resta sempre (sorretta da)
l’incrollabile sede bronzea, il cielo ».
Certo, l’uomo, questa nullità, questo (sempre per Pindaro) « sogno
d’un’ombra » non può neppure avvicinarsi al livello dell’esistenza divina; ma
questa gli si manifesta in forme così trasparentemente umane che il modo di
essere e le azioni umane sembra possano porsi nella luce del suo riflesso.
Soltanto a prezzo di una grossolana semplificazione si potrebbe
tentare di dare, in poche parole, almeno una rudimentale idea di questo
rapporto. Allora potremmo dire che il giovane greco vedeva davanti a sé come
ideale lo splendore dell’eternamente giovane Apollon, la vergine intatta e non
ancora sottomessa poteva trasfigurare la propria condizione ritrovandone il
modello in Artemis, la sposa nella sposa divina per eccellenza, Hera; l’abilità
del commerciante, del viaggiatore o di chiunque dovesse avventurarsi in luoghi
e circostanze imprevedibili, trovava un modello imperituro in Hermes;
l’autorità, in tutte le sue forme più alte, si richiamava a quella del sovrano
degli dèi, Zeus, ecc., ecc. Ma una dettagliata analisi delle figure divine e
dei loro inesauribili rapporti reciproci, quali ci si presentano nei loro miti,
riti, nelle feste, o in occasione delle invocazioni e delle dediche loro
rivolte, nella posizione dei loro templi, ecc., rende vane e futili siffatte
semplificazioni. Le divinità greche non sono riducibili a singole funzioni, a
singole formule: esse sono complesse, e anche la loro complessità si nutre — in maniera « antropomorfa » — di quella dell’esistenza umana:
perché se per i Greci stessi le divinità erano modelli immutabili per l’uomo
effimero, lo storico non deve dimenticare che, in realtà, esse sono proiezioni
sublimate dei valori che una società complessa come quella greca ha espresso da
sé, ponendoli ai riparo da ogni contingenza.
“