Corriere della Sera 22.3.08
Film e letteratura horror: perchè hanno tanto successo
Il nostro cervello ha bisogno di mostri. Ci crediamo? E' un fenomeno etologico
di Danilo Mainardi
La prima volta che si parlò del mostro di Loch Ness fu nel 1871, quando un certo signor Mackenzie credette d'aver visto, sulla brumosa superficie del Loch omonimo, un lago scozzese, qualcosa muoversi stranamente e a differenti velocità, e da ciò suppose che un essere mostruoso si nascondesse in quelle acque fino ad allora praticamente sconosciute. Fu questa l'origine della leggenda che ha poi goduto sempre d'un'ottima salute in quello che si definisce come l'immaginario collettivo. E il mostro (Nessie per gl'intimi) piace sempre di più. A riprova di ciò è il successo che ha accolto la recente proiezione negli Usa dell'ennesima pellicola, intitolata appunto «The Water Horse: legend of the deep» (Sony Columbia Pictures), film che da pochi giorni è presente anche nelle nostre sale cinematografiche. E siccome piacerà anche da noi, è prevedibile che ciò rinfocoli anche in Italia il dibattito tra quelli che all'esistenza del mostro vogliono assolutamente credere e quelli che, al contrario, non ci credono per niente.
La storia di Nessie è, a ogni modo, scientificamente interessante, o per lo meno istruttiva. Essendomi capitato (avendo partecipato a una puntata dedicata all'argomento della trasmissione televisiva «Enigma » di Corrado Augias) di analizzare con attenzione la documentazione sul presunto mistero, inizierò affermando, in tutta sicurezza, che il mostro non esiste né, verosimilmente, mai è esistito. Potrebbe, ben che vada, trattarsi d'un grosso pesce. Quanto alle cosiddette prove, esistono solo foto, in parte certamente taroccate, dove si scorgono strane macchie, un po' di schiuma, niente di più consistente. Davvero poco come evidenze concrete. Abbiamo però le testimonianze, e quelle sì che sono tante. Molte sono le persone che asseriscono d'aver visto qualcosa. Due naturalisti, Sir Peter Scott e Robert Rines, hanno immaginato che il mostro fosse una specie di foca, cui hanno regalato il nome scientifico di Nessiteras rhombopteryx. A ogni modo, a nessuna persona di buon senso non può che risultare evidente che, siccome nessun animale può perpetuarsi nel tempo stando solo, occorrerebbe ipotizzare l'esistenza, almeno, d'una piccola popolazione di mostri, questa sarebbe sicuramente stata identificata. Inoltre, nel tempo, avrebbe dovuto lasciare consistenti tracce biologiche.
Il mistero vero, pertanto, sta soprattutto nel perché tante persone (anche non considerando quelle interessate agli ovvi vantaggi per il turismo locale) continuino a credere all' esistenza del mostro e, soprattutto, perché molti abbiano sostenuto d'averlo addirittura visto. Aiuta un fenomeno etologico che si chiama «costruzione dell'immagine di ricerca» che consiste nel fatto che, se un predatore si specializza nel catturare una preda, poi è in grado di percepirla anche in un ambiente dove un essere non specializzato mai la coglierebbe. Bastano pochi segni, pochi tratti emergenti, e quel predatore è come se la vedesse, come se l'estraesse dal contesto, completandola poi di suo. Ebbene, noi umani sappiamo fare altrettanto. Così, se per ipotesi andassimo speranzosi al lago provvisti di una immagine culturalmente ereditata, basterebbe una macchia un po' strana, un'altra un po' più in là, e quel mostro potremmo senz'altro pensare di vederlo, perché il suo disegno si concretizzerebbe automaticamente nel nostro cervello. A tutti d'altronde è capitato di credere di vedere una cosa che poi, avvicinandoci, era invece tutt'altra.
Detto ciò, si potrebbe perfino affermare che il mostro, in un certo senso, esiste, e che l'errore sta piuttosto nell'habitat dove insistiamo a volerlo piazzare. In quel loch, cioè, mentre la sua vera casa altro non è che il nostro teatrino mentale. Se poi i teatrini sono tanti, tanto meglio. Come infatti ha scritto Iris Murdoch: «Una storia è vera se ci sono abbastanza persone disposte a crederci». La nostra specie è fatta così, e pertanto anche questa è etologia umana.
Film e letteratura horror: perchè hanno tanto successo
Il nostro cervello ha bisogno di mostri. Ci crediamo? E' un fenomeno etologico
di Danilo Mainardi
La prima volta che si parlò del mostro di Loch Ness fu nel 1871, quando un certo signor Mackenzie credette d'aver visto, sulla brumosa superficie del Loch omonimo, un lago scozzese, qualcosa muoversi stranamente e a differenti velocità, e da ciò suppose che un essere mostruoso si nascondesse in quelle acque fino ad allora praticamente sconosciute. Fu questa l'origine della leggenda che ha poi goduto sempre d'un'ottima salute in quello che si definisce come l'immaginario collettivo. E il mostro (Nessie per gl'intimi) piace sempre di più. A riprova di ciò è il successo che ha accolto la recente proiezione negli Usa dell'ennesima pellicola, intitolata appunto «The Water Horse: legend of the deep» (Sony Columbia Pictures), film che da pochi giorni è presente anche nelle nostre sale cinematografiche. E siccome piacerà anche da noi, è prevedibile che ciò rinfocoli anche in Italia il dibattito tra quelli che all'esistenza del mostro vogliono assolutamente credere e quelli che, al contrario, non ci credono per niente.
La storia di Nessie è, a ogni modo, scientificamente interessante, o per lo meno istruttiva. Essendomi capitato (avendo partecipato a una puntata dedicata all'argomento della trasmissione televisiva «Enigma » di Corrado Augias) di analizzare con attenzione la documentazione sul presunto mistero, inizierò affermando, in tutta sicurezza, che il mostro non esiste né, verosimilmente, mai è esistito. Potrebbe, ben che vada, trattarsi d'un grosso pesce. Quanto alle cosiddette prove, esistono solo foto, in parte certamente taroccate, dove si scorgono strane macchie, un po' di schiuma, niente di più consistente. Davvero poco come evidenze concrete. Abbiamo però le testimonianze, e quelle sì che sono tante. Molte sono le persone che asseriscono d'aver visto qualcosa. Due naturalisti, Sir Peter Scott e Robert Rines, hanno immaginato che il mostro fosse una specie di foca, cui hanno regalato il nome scientifico di Nessiteras rhombopteryx. A ogni modo, a nessuna persona di buon senso non può che risultare evidente che, siccome nessun animale può perpetuarsi nel tempo stando solo, occorrerebbe ipotizzare l'esistenza, almeno, d'una piccola popolazione di mostri, questa sarebbe sicuramente stata identificata. Inoltre, nel tempo, avrebbe dovuto lasciare consistenti tracce biologiche.
Il mistero vero, pertanto, sta soprattutto nel perché tante persone (anche non considerando quelle interessate agli ovvi vantaggi per il turismo locale) continuino a credere all' esistenza del mostro e, soprattutto, perché molti abbiano sostenuto d'averlo addirittura visto. Aiuta un fenomeno etologico che si chiama «costruzione dell'immagine di ricerca» che consiste nel fatto che, se un predatore si specializza nel catturare una preda, poi è in grado di percepirla anche in un ambiente dove un essere non specializzato mai la coglierebbe. Bastano pochi segni, pochi tratti emergenti, e quel predatore è come se la vedesse, come se l'estraesse dal contesto, completandola poi di suo. Ebbene, noi umani sappiamo fare altrettanto. Così, se per ipotesi andassimo speranzosi al lago provvisti di una immagine culturalmente ereditata, basterebbe una macchia un po' strana, un'altra un po' più in là, e quel mostro potremmo senz'altro pensare di vederlo, perché il suo disegno si concretizzerebbe automaticamente nel nostro cervello. A tutti d'altronde è capitato di credere di vedere una cosa che poi, avvicinandoci, era invece tutt'altra.
Detto ciò, si potrebbe perfino affermare che il mostro, in un certo senso, esiste, e che l'errore sta piuttosto nell'habitat dove insistiamo a volerlo piazzare. In quel loch, cioè, mentre la sua vera casa altro non è che il nostro teatrino mentale. Se poi i teatrini sono tanti, tanto meglio. Come infatti ha scritto Iris Murdoch: «Una storia è vera se ci sono abbastanza persone disposte a crederci». La nostra specie è fatta così, e pertanto anche questa è etologia umana.