Thursday, March 20, 2008

VOCI E RUMORI DEL MONDO ANTICO, QUANDO PARLAVANO ANCHE GLI ANIMALI

la Repubblica, mercoledì 06.02.2008

VOCI E RUMORI DEL MONDO ANTICO, QUANDO PARLAVANO ANCHE GLI ANIMALI

MAURIZIO BETTINI

La nostra vita è immersa nei suoni. Clacson di automobili, rombo di motori, grida o mormorii televisivi, musica che echeggia nei locali pubblici, un’infinità di voci, accordi, squilli o semplici rum ori della cui esistenza non ci accorgiamo neppure più, se non quando tutto questo, per un motivo o per l’altro, bruscamente cessa. La nostra vi­ta si svolge all’interno di una vera e propria fonosfera. E nel mondo antico? In che cosa consisteva la fonosfera degli antichi?

Possiamo immaginare che, anche in essa, circolassero voci o grida prodotte dagli esseri umani, come accade nel mondo con tempo­raneo, magari con intensità e frequenza anche maggiore. Parole di uomini, ossia gente che discute per strada, si chiama dalla finestra o semplicemente canta. Ma a parte questa immediata intersezione fra le due fonosfere, identificarne altre è difficile: vengono in men­te piuttosto le sonorità che il mondo antico non aveva, men­tre il mondo moderno le ha; e in misura forse minore, quelle che il mondo antico possedeva e che noi abbiamo perduto.

Di certo, per esempio, la fono-sfera antica non conteneva i ru­mori del traffico, l’urlo delle si­rene o i fragori delle fabbriche; né conosceva quel petulante mix di musica e di voci che, diffuso dagli altoparlanti, fa ormai stabilmente parte dell’arreda­mento (sonoro) di molti am­bienti contemporanei, pubblici e privati. Soprattutto nella fonosfera antica non vi era traccia di una presenza che, nel mondo moderno, si è fatta invece pervasiva. Non stiamo pensando alle campane, sonorità che dominò la società cristiana del passato, e che va ormai affievolendosi specie nelle città; ci riferiamo ovvia­mente agli squilli dei telefoni portatili. Sarà un caso se di re­cente, a Chicago, è stato esegui­to il primo «Concertino per cel­lulari e orchestra sinfonica»? Un’intera platea che, all’accen­dersi di un segnale luminoso, fa squillare le suonerie dei propri portatili, mentre sul palco archi e fiati eseguono la loro parte. Se negli anni ormai lontani del co­munismo sovietico le orchestre riecheggiavano i fragori dell’industria pesante, oggi i composi­tori vanno a caccia di sonorità più leggere, ma non meno do­minanti (anche economica­mente).

A questo punto sorge una do­manda. Dobbiamo immaginare quello antico come un mondo più silenzioso di quello odierno? Difficile dirlo, anche se, almeno in media, la fonosfera dei nostri avi avrà per forza avuto intensità minore rispetto a quella con­temporanea; insomma, era di certo una fonosfera più sottile e leggera. Soprattutto però diver­so doveva essere il suo impasto, perché in essa figuravano suoni e rumori che nel nostro mondo, a motivo dei vari mutamenti di civiltà, sono ormai andati per­duti. Si pensi per esempio ai col­pi del martello, il malleus o marculus dei Romani, uno strumen­to che doveva essere molto più usato di oggi (fabbri, stagnai, maniscalchi, carpentieri…); allo strepitus prodotto dalle molae, le macine dei mugnai, le quali trituravano il grano ruotando attorno a un asse sotto la spinta di schiavi o di asini; poi natural­mente al cigolio dei carri, le cui ruote sobbalzavano sui sassi de­gli acciottolati cittadini. «Chi abita presso la via,—aveva scrit­to il poeta Callimaco,— è desta­to dall’asse che stride da sotto il carro; e lo affliggono i fitti colpi dei miseri fabbri che attizzano il fuoco». Ma della fonosfera anti­ca facevano parte anche emis­sioni sonore più sinistre, e certo più sorprendenti per noi.

Pedone Albinovano, scrive Seneca, abitava sopra la casa di Sesto Papinio, uno di quelli che «sfuggono la luce» (lucifugae), nel senso che svolgono di notte tutte le normali attività della giornata — producendone, ov­viamente, anche i relativi rumo­ri, i quali diventavano così ru­mori notturni, e quindi oggetto di una certa attenzione (di un certo fastidio?) da parte di Pedone, che li registrava puntual­mente. «Verso l’ora terza di not­te, — raccontava — si sente ri­suonare la frusta (flagellorum sonus). Chiedo che cosa faccia Papinio, mi rispondono che sta facendo i conti». Dato che a Ro­ma la calcolatrice era uno “stru­mento umano”, uno schiavo, il quale fungeva anche da segreta­rio, il rumore congruente alla contabilità non era un ticchettio di tastiera, ma il crosciare delle frustate. Dalle finestre di Papi­nio uscivano comunque anche suoni meno impressionanti. «Verso l’ora sesta — continuava infatti Pedone — si sentono in­vece delle grida concitate (cla­mor concitatus). Chiedo che co­sa succede, mi dicono che fa esercizi vocali (vocem exercere). Verso l’ora ottava della notte mi chiedo cosa significhi quel ru­more di ruote (sonus rotarum): mi dicono che esce in carrozza». Questo dunque un sintetico schizzo, o meglio un rapido col­lage sonoro, della fonosfera an­tica. Quali altre sonorità poteva contenere, oltre a quelle che abbiamo elencato? C’è almeno un’altra “voce ” importante che occorre registrare: le emissioni sonore prodotte dagli animali, ossia latrati, ragli, nitriti, belati, grugniti, cinguettìi e così di se­guito. A noi moderni capita rara­mente di udire la voce di un ca­vallo, di un asino o di un bue, mentre l’abbaiare di un cane corrisponde, in genere, solo a un fastidioso rumore di barboncino due piani sopra. Anche degli uccelli e dei loro canti possiamo accorgerci solo se abitiamo in qualche quartiere residenziale, o nei periodi di vacanza. Nell’antichità era diverso.

Prima di tutto, le voci degli animali erano infinitamente più numerose e più diffuse di quanto possa accadere oggi, perché le “fonti” che le emettevano face­vano strettamente parte del tes­suto economico, sociale o sem­plicemente umano del mondo antico. Non a caso Varrone definiva gli animali da lavoro con l’espressione instrumenta semivocalia «strumenti semivo­cali», come se fossero zappe, er­pici o aratri dotati però della ca­pacità di emettere suoni, sia pu­re non linguistici in senso stret­to (il dubbio privilegio di essere instrumenta vocalici, cioè aratri o zappe capaci di «parlare», toc­cava infatti agli schiavi). A diffe­renza del mondo moderno, asi­ni, buoi, cavalli, cani e così via accompagnavano stabilmente l’ attività e la vita quotidiana degli uomini, e come tali le loro voci dovevano risultare assai con­suete alle orecchie dei nostri an­tenati. Occorre inoltre tener conto del fatto che, come si è vi­sto, la fonosfera antica era assai meno ingombra, meno pesante di quella contemporanea, di modo che le voci degli animali, oltre che più diffuse, dovevano risultare anche estremamente più udibili rispetto a oggi. In questo senso, si potrebbe affer­mare che anche gli antichi di­sponevano di un loro particola­re genere di musica diffusa, la quale—come oggi la radio o il cd prediletto dall’autista dell’auto­bus — aveva la funzione di “ar­redare” fonicamente gli am­bienti in cui si svolge la vita del­le persone. Salvo che questa musica era costituita dai canti degli uccelli, la cui aerea presenza era molto più numerosa, va­riata e distribuita di quanto non accada oggi; senza che, all’inter­no della fonosfera, le loro voci fossero coperte da ben altre e più potenti emissioni.