Saturday, March 22, 2008

La scoperta del bello, Come i greci divennero classici

La Repubblica 22.3.08
Si apre il 29 marzo a Mantova una grande mostra di arte antica
La scoperta del bello, Come i greci divennero classici
di Salvatore Settis

Platone aveva svalutato le arti figurative viste come imitazione della realtà
Per gli antichi la techne (in latino ars) era una competenza tecnica
È tra Sette e Ottocento che la patria di Omero diventa un punto di riferimento, un serbatoio di idee e di progetti validi per il futuro grazie agli studi di Winckelmann

In un autografo di Hegel, scritto verso il 1796 con il contributo (a quel che pare) di Schelling e di Hölderlin, la fondazione di una nuova etica come «sistema completo di tutte le idee o - il che è lo stesso - di tutti i postulati pratici» include la «rappresentazione di "me stesso" come un essere assolutamente libero», «che porta in sé il mondo intellettuale e non deve cercare né Dio né l´immortalità fuori di sé». Questo progetto trova nel Bello il suo principio unificante: «.. l´idea che le unifica tutte, l´idea della bellezza, prendendo la parola nell´elevato senso platonico. (...) L´atto supremo della ragione, quello col quale essa abbraccia tutte le idee, è un atto estetico; verità e bontà sono affratellate solo nella bellezza»; anzi, l´estetizzazione delle idee è il presupposto necessario per un patto sociale che leghi i filosofi e il popolo in una «nuova religione che sarà l´ultima, la più grande opera dell´umanità». In questo incunabolo dell´idealismo tedesco aleggia lo spirito di Platone, evocato ad assicurare il primato dell´esperienza estetica come cuore conoscitivo dell´io, che ne assicura l´intimo legame col mondo della natura e con quello della città. Bellezza, filosofia e grecità sono tutt´uno (...)
Il Bello di cui qui si parla non è solo quello delle arti figurative o della poesia, non è fatto solo di corpi atletici, templi marmorei, versi epici, tragici o lirici. Corrisponde a un sistema di concetti e di valori (armonia, misura, equilibrio), che proprio fra Sette e Ottocento veniva prendendo il nome, ancor oggi in voga, di «classico»; e cioè una sorta di perfezione immutabile che valga sia nel tempo (in particolare, nella storia dell´antica Grecia) sia fuori dal tempo (perché modello perpetuo per le generazioni future). La cultura greca, vecchia di oltre duemila anni, acquistava in tal modo il ruolo inatteso di un serbatoio di idee e di progetti per il futuro.
Eppure, la concezione del Bello come ispiratore di una nuova etica, di una nuova religione e di una nuova società non sarebbe stata possibile senza la mediazione di una speciale bellezza sensibile, quella dell´arte greca, che l´Europa colta aveva scoperto grazie alla Storia dell´arte dell´Antichità di Johann Joachim Winckelmann (Geschichte der Kunst des Alterthums, 1764).
Egli era riuscito nel compito quasi impensabile di dare all´arte greca non solo la piena consistenza di una narrazione storica, ma anche un´attualità e una funzione nel presente e nel futuro. Secondo Winckelmann, l´arte greca realizzò un´irripetibile armonia delle forme, che nella bellezza dei corpi e nell´eleganza del loro atteggiarsi rifletteva le ricchezze e le tensioni della vita interiore; una «nobile semplicità e quieta grandezza» che era negli spiriti e nella tempra della cultura greca, prima d´incarnarsi nel marmo. Perciò l´arte greca trasmette all´osservatore quel prodigioso equilibrio fra libertà razionale dello spirito ed emozione estetica, che egli definì con una parola prelevata dall´italiano, Grazie («grazia»), e indicò come traguardo per gli artisti e per l´educazione delle élites. In questa visione, ideale etico e ideale estetico si fondevano in uno, e l´arte greca generava una metafisica del Bello capace di trasformare nell´intimo l´uomo colto, illuminandone e disciplinandone l´intelletto, donandogli una vita più piena, una più ricca interiorità e libertà (...).
In questa centralità dell´esperienza estetica, definita dalla specialissima grazia dell´arte greca, sembrava trovar soluzione un´antica domanda: se l´artista debba imitare la natura, o cercare i propri modelli nell´arte. Nel Rinascimento italiano si era fatta strada l´idea che l´imitazione perfetta della natura sia già tutta contenuta nelle statue antiche, e che - dunque - il «classico» possa essere l´equivalente del «naturale» o addirittura superiore ad esso (idea espressa poi nel Seicento da teorici dell´arte come Roger de Piles); e si era associato all´arte greco-romana un forte senso del corpo, espresso nella frequente rappresentazione della nudità, che sin dal Medio Evo era stata vista come una caratteristica sommamente «antica». Dopo Winckelmann, l´arte greca fu la nuova stella polare degli artisti, a preferenza della natura stessa; perché l´arte, e non la natura, esprimeva la grazia in grado di innescare un´esperienza estetica rinnovatrice. Nell´arte greca poteva ormai additarsi la matrice dell´arte nuova; in essa trovarsi la perpetua misura del bello, il linguaggio universale del corpo umano e del suo gestire, che era tempo di far rinascere (lo fecero assai efficacemente artisti come Jacques-Louis David).
Queste tesi così influenti, che si formarono nel corso del Settecento e determinarono con forza impressionante il linguaggio e le pratiche dell´arte e della critica del secoli successivi, hanno alcuni aspetti paradossali. Prima di tutto, Winckelmann aveva visto ben poca arte autenticamente greca; egli non sapeva nemmeno che l´Apollo di Belvedere, secondo lui fra le opere greche più perfette, non è che una copia di età romana.
Le sculture del Partenone e quelle di Egina approdarono a Londra e a Monaco solo fra il 1802 e il 1813, e nel corso dell´Otto e del Novecento si ebbe la graduale riscoperta della Grecia e degli originali di arte greca (ancora in corso con rinvenimenti recenti come, per citarne uno solo, i Bronzi di Riace). Le pagine di Winckelmann, che in pochissimi anni avevano conquistato l´Europa, erano state quindi una sorta di profezia sull´arte greca, che con straordinaria lungimiranza riuscì a estrarre «l´essenza dell´arte» dei Greci da copie romane, da notazioni di gusto, aneddoti, racconti delle fonti antiche (per esempio i greci Pausania e Luciano, i romani Cicerone e Plinio il Vecchio); ma poté farlo perché aveva eletto a proprio traguardo l´esperienza estetica non in astratto, bensì nel suo innestarsi su valori etici e civili, di cui già i testi degli Antichi erano impregnati.
Non meno paradossale è un secondo aspetto: l´idea di «arte», o l´artisticità come valore, al centro dell´esperienza estetica esaltata da Winckelmann (e dietro di lui dall´autografo hegeliano citato all´inizio), e poi assolutamente centrale nell´idea di arte fino ai nostri giorni, fu estranea alle civiltà classiche. Per esse, techne (in latino ars, da cui l´italiano «arte») era una competenza tecnica, un know - how che si poteva assimilare e praticare a vari livelli di qualità, ma di cui si poteva parlare solo in termini altamente specifici. Buona o cattiva poteva essere non «l´arte» in astratto; bensì gli esiti tangibili, i «prodotti» della techne del medico, del pittore, del cuoco, dello scultore, dell´aedo, dell´architetto, dell´addestratore di cavalli. Il portatore di ciascuna di queste «arti» doveva avere abilità specifiche, coltivate mediante l´apprendimento di regole, e riconosciute mediante l´esercizio pubblico del mestiere: è solo nel Settecento che prese corpo l´idea di un´«arte» unitaria che si manifesta in varie forme (architettura, scultura, pittura...). Possiamo dunque dire che i Greci produssero al massimo livello «arte» (nel senso in cui ne parliamo dal Settecento ad oggi), e persino tutto un vocabolario del «giudizio d´arte»; ma non ebbero un concetto astratto di «arte» come quello che diamo oggi per scontato, e che si concentra sulle qualità formali e prescinde da ogni altro valore. L´emergere del concetto moderno di «arte» comportò il divorzio delle qualità formali dell´«arte» dai suoi contenuti e dalle sue implicazioni etiche (...).
Maggiore degli altri è forse il terzo (e ultimo) paradosso: Platone, fra tutti i Greci il più citato quanto alle idee sulla bellezza, aveva invece svalutato le arti figurative come imitazione (mimesis) di una realtà sensibile che a sua volta non è che imitazione imperfetta della realtà ideale. Ma proprio questa apparente svalutazione contiene ben chiaro il germe di una convinzione, anzi, opposta: se Platone si batte in favore di certe forme di arte e contro altre forme, è perché riconosce (e perciò teme) il potere della rappresentazione artistica, dalla danza alla pittura.
Perciò egli rigetta con la massima durezza non l´abilità dell´artista, ma la possibilità che essa, giocando sull´ingannevole potere delle arti mimetiche, si dedichi alla rappresentazione di contenuti negativi, diseducativi per il cittadino. Dall´arte Platone esige non la facile bellezza delle forme, ma la superiore bellezza dei contenuti, dei valori, delle idee che danno sostanza alla polis, che vi radicano il cittadino, che assicurano la stabile pratica di un´etica condivisa.