la Repubblica 20.5.08
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale
Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno
La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale
Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno
La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.