Liberazione, 15 maggio 2008, Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa
Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa. Ottenute le informazioni necessarie, Menelao chiede, e ottiene, la verità sul destino degli altri eroi greci ritornati da Troia: apprende così della tragica fine di Aiace e Agamennone e dell'esilio di Odisseo.
Il mito di Proteo è stato interpretato come allegoria della conoscenza: "afferrare Proteo" significa ricondurre entro forme stabili quel reale che continuamente si trasforma, che si tratti di saper comprendere i mutamenti sociali che attraversavano l'Emilia degli anni Sessanta (così Togliatti, la cui penna era imbevuta di dotte citazioni tanto quanto le sue mani del sangue degli anarchici e dei trotzskisti), di ricondurre ad unità giuridica le molte tipologie dei contratti di lavoro (il giuslavorista Ghezzi) o unificare le diverse anime della sinistra. Afferrare Proteo indica l'azione con la quale la mente afferra, unificandolo, il reale.
Resta però sullo sfondo la dimensione narrativa del mito. La vicenda di Proteo e Menelao è infatti un racconto che Menelao fa a Telemaco; all'interno di questo racconto è a sua volta inserito il racconto della strategia da attuare che Eidotea fa a Menelao; Proteo si piega al vincitore raccontandogli il futuro, ma anche ciò che Menelao non è in grado di apprendere con i propri occhi, e che a sua volta viene narrato a Telemaco. Questa catena di racconti parte dagli dèi che hanno una visione d'insieme di quel tutto che appare proteiforme: la trasmissione di questo sapere è un parlare che trasforma una conoscenza altrimenti impotente. Il raccontare è un cogliere che mette in moto un'azione: un sapere performativo.
In tempi recenti questa necessità del raccontare per agire è presente nell'ultimo lavoro di Aldo Bonomi, Il rancore (Feltrinelli, 2008), che rimarca la necessità di saper raccontare la società per poter «fare società». Anche Zygmunt Bauman in Paura liquida (Laterza, 2008) ha insistito sulla necessità di scongiurare la «catastrofe inevitabile» narrandola «nel modo più appassionato e rumorosamente possibile».
Cercare di cogliere il molteplice con un colpo d'occhio è un gesto che si oppone al postmodernismo volgare, che si ferma al mero almanaccare degli eventi, assumendoli come oggetti naturali senza indagarne né criticarne la genesi (naturalismo ingenuo che ignora l'esistenza di una seconda natura). Una variante del postmodernismo volgare è l'idea che tutto sia rappresentazione, che dietro i fenomeni non vi sia alcunché di concreto: quando tutto è seconda natura, la realtà ingenua messa alla porta rientra dalla finestra, mentre il critico si compiace del suo lessico forbito. Che "tutto sia forma" o "rappresentazione", o che tutto sia natura ingenuamente assunta sono due facce della stessa medaglia: in qualche caso anything goes , in qualche altro non tutto va bene, ma in fondo potrebbe...
Da qualche anno a questa parte accade che in Italia alcuni scrittori abbiano fatto proprio un atteggiamento critico nei confronti del mondo: e per criticarlo cercano di afferrarlo, di far violenza alla sua sfuggente natura. Spesso questa attitudine a mordere il reale è stata confinata nella letteratura di genere, perché è un fatto che i generi si sono mostrati più adatti a praticare il conflitto, proprio come la sovversione del realismo ottocentesco ha beneficiato di un lungo scavo sotterraneo nei luoghi carsici del gotico. In prima battuta, direi che ciò che questi autori hanno in comune è il prendere sul serio il proprio lavoro. Per contro, i narratori dell'ultima generazione tendono a non prendere sul serio la critica letteraria italiana: e a furia di non prendere sul serio il vuoto pneumatico che la critica (salvo poche eccezioni) esprime, alcuni di questi scrittori, colti da horror vacui , hanno cominciato a lavorare anche sul versante della critica. Uno di questi è Wu Ming 1, che ha cercato di "afferrare Proteo" articolando alcune caratteristiche che danno forma a quello che ha denominato New Italian Epic .
È bene spazzare il campo da un fraintendimento: avere una visione d'insieme non significa imporre canoni normativi. La scienza moderna conosce l'esistenza di "sistemi deterministici non lineari" o "caotici", nei quali la vecchia contraddizione tra libertà e determinismo è caduta, nei quali comportamenti casuali danno luogo a figurazioni descrivibili matematicamente. Io credo che questo modo di "afferrare Proteo" sia qualcosa del genere: coglie una curva che collega movimenti narrativi stocastici, casuali, tra loro indipendenti.
Queste caratteristiche sono: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno (un impasto di ironia a tutti i costi e di deresponsabilizzazione autoriale); uno "sguardo obliquo", azzardato, sul mondo; il connubio di complessità narrativa e attitudine popular ; la presenza di storie alternative, di ucronie potenziali; la sovversione "nascosta" di linguaggio e stile; la mutazione del genere romanzesco in "oggetti narrativi non identificati" (U.N.O.), non codificabili, sfuggenti; il rinvio a una dimensione extra-testuale o transmediale.
A queste caratteristiche io aggiungerei l'attenzione al contesto urbano, e l'essere scrittori "col culo in strada".
L'attenzione al contesto urbano non implica necessariamente un carattere "realistico" del narrato: il contesto urbano può essere un luogo della memoria, come la Dublino del Ulysses (o, si parva licet , la Bologna del mio Scirocco ), così come un luogo immaginario può essere descritto come una città "reale" (la Vigata di Camilleri). Nel noir italiano il contesto urbano è continuamente attraversato da transiti, linee di fuga, conflitti: è uno spazio non omogeneo, ma granulare, più denso in alcuni punti, più fluido in altri. La Milano-Quarto Oggiaro di Biondillo e i quartieri romani di De Cataldo ne sono un esempio.
"Scrittori col culo in strada": pochissimi degli scrittori dell'ultima generazione vivono esclusivamente del proprio mestiere letterario: nella maggior parte dei casi sono, volenti o nolenti, costretti ad immergersi all'interno di contesti lavorativi "altri" (fabbriche, scuole, uffici pubblici o privati, palestre, biblioteche, locali musicali), a frequentare molti più ambienti, e molto più differenziati, di altri "scrittori laureati" che, frequentandosi tra di loro all'interno dei propri salotti (metaforici o reali), finiscono per parlare sempre dello stesso piccolo mondo. Sia chiaro, non c'è nulla di rivoluzionario: erano scrittori col culo in strada Dante, Boccaccio, Ariosto, Michelangelo, Manzoni, Pasolini.
Se dovessi sintetizzare le caratteristiche elencate, direi che la principale è il prendere sul serio il proprio mestiere, la propria lingua e i propri contenuti, e il lettore che li legge. Prendere sul serio significa non cercare sponde al consolatorio, farsi carico del portato etico implicito nel proprio narrare. Un esempio. In Testimone inconsapevole (Sellerio, 2004) di Carofiglio la questione migrante è posta in modo assolutamente consolatorio: sembra di capire che se ciascuno facesse il proprio dovere, se ci fosse scrupolo e serietà nell'applicazione del diritto non ci sarebbero errori giudiziari, e forse neanche una questione migrante. Per fortuna prima o poi arriva un brav'uomo che rimette le cose al loro posto: nei gialli di Carofiglio si assiste, sotto mentite spoglie, all'apologia del connubio Legge-Ordine, senza che vengano mai sfiorate le ragioni di sistema che producono il migrante-deviante. Al contrario, ne Il giovane sbirro (Guanda, 2007) di Biondillo appare chiaro che l'eccezione, date le condizioni di sistema, non è il migrante finito in quei Lager che chiamiamo Centri di permanenza temporanea: il problema è semmai, dato un sistema criminogeno che necessariamente produce devianza sociale, perché ci siano migranti che non sono incarcerati nei Cpt. Diceva Manchette: nel noir «la lotta di classe non è assente come nel romanzo ad enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Il romanzo italiano dell'ultima generazione mostra un'esplicita consapevolezza di questa catastrofe. Basta pensare ad Ammaniti: i suoi romanzi sono la descrizione delle forse irredimibili rovine lasciate dal conflitto di classe, sulle quali si agitano gli sconfitti, i reietti, gli esclusi.
Nella nota conclusiva del suo romanzo ucronico Il signor figlio (Mondadori, 2007), Alessandro Zaccuri si fa vanto di aver violato il precetto di Monaldo Leopardi: «Meglio è tacere una storia, che narrarla ingombrata di fole». In un'Italia che sempre più assomiglia a quella desiderata dal conte Monaldo, la pecora bianca della famiglia Leopardi, disobbedire ai suoi precetti è ben più che un vezzo: è un dovere etico.
15/05/2008
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa
Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa. Ottenute le informazioni necessarie, Menelao chiede, e ottiene, la verità sul destino degli altri eroi greci ritornati da Troia: apprende così della tragica fine di Aiace e Agamennone e dell'esilio di Odisseo.
Il mito di Proteo è stato interpretato come allegoria della conoscenza: "afferrare Proteo" significa ricondurre entro forme stabili quel reale che continuamente si trasforma, che si tratti di saper comprendere i mutamenti sociali che attraversavano l'Emilia degli anni Sessanta (così Togliatti, la cui penna era imbevuta di dotte citazioni tanto quanto le sue mani del sangue degli anarchici e dei trotzskisti), di ricondurre ad unità giuridica le molte tipologie dei contratti di lavoro (il giuslavorista Ghezzi) o unificare le diverse anime della sinistra. Afferrare Proteo indica l'azione con la quale la mente afferra, unificandolo, il reale.
Resta però sullo sfondo la dimensione narrativa del mito. La vicenda di Proteo e Menelao è infatti un racconto che Menelao fa a Telemaco; all'interno di questo racconto è a sua volta inserito il racconto della strategia da attuare che Eidotea fa a Menelao; Proteo si piega al vincitore raccontandogli il futuro, ma anche ciò che Menelao non è in grado di apprendere con i propri occhi, e che a sua volta viene narrato a Telemaco. Questa catena di racconti parte dagli dèi che hanno una visione d'insieme di quel tutto che appare proteiforme: la trasmissione di questo sapere è un parlare che trasforma una conoscenza altrimenti impotente. Il raccontare è un cogliere che mette in moto un'azione: un sapere performativo.
In tempi recenti questa necessità del raccontare per agire è presente nell'ultimo lavoro di Aldo Bonomi, Il rancore (Feltrinelli, 2008), che rimarca la necessità di saper raccontare la società per poter «fare società». Anche Zygmunt Bauman in Paura liquida (Laterza, 2008) ha insistito sulla necessità di scongiurare la «catastrofe inevitabile» narrandola «nel modo più appassionato e rumorosamente possibile».
Cercare di cogliere il molteplice con un colpo d'occhio è un gesto che si oppone al postmodernismo volgare, che si ferma al mero almanaccare degli eventi, assumendoli come oggetti naturali senza indagarne né criticarne la genesi (naturalismo ingenuo che ignora l'esistenza di una seconda natura). Una variante del postmodernismo volgare è l'idea che tutto sia rappresentazione, che dietro i fenomeni non vi sia alcunché di concreto: quando tutto è seconda natura, la realtà ingenua messa alla porta rientra dalla finestra, mentre il critico si compiace del suo lessico forbito. Che "tutto sia forma" o "rappresentazione", o che tutto sia natura ingenuamente assunta sono due facce della stessa medaglia: in qualche caso anything goes , in qualche altro non tutto va bene, ma in fondo potrebbe...
Da qualche anno a questa parte accade che in Italia alcuni scrittori abbiano fatto proprio un atteggiamento critico nei confronti del mondo: e per criticarlo cercano di afferrarlo, di far violenza alla sua sfuggente natura. Spesso questa attitudine a mordere il reale è stata confinata nella letteratura di genere, perché è un fatto che i generi si sono mostrati più adatti a praticare il conflitto, proprio come la sovversione del realismo ottocentesco ha beneficiato di un lungo scavo sotterraneo nei luoghi carsici del gotico. In prima battuta, direi che ciò che questi autori hanno in comune è il prendere sul serio il proprio lavoro. Per contro, i narratori dell'ultima generazione tendono a non prendere sul serio la critica letteraria italiana: e a furia di non prendere sul serio il vuoto pneumatico che la critica (salvo poche eccezioni) esprime, alcuni di questi scrittori, colti da horror vacui , hanno cominciato a lavorare anche sul versante della critica. Uno di questi è Wu Ming 1, che ha cercato di "afferrare Proteo" articolando alcune caratteristiche che danno forma a quello che ha denominato New Italian Epic .
È bene spazzare il campo da un fraintendimento: avere una visione d'insieme non significa imporre canoni normativi. La scienza moderna conosce l'esistenza di "sistemi deterministici non lineari" o "caotici", nei quali la vecchia contraddizione tra libertà e determinismo è caduta, nei quali comportamenti casuali danno luogo a figurazioni descrivibili matematicamente. Io credo che questo modo di "afferrare Proteo" sia qualcosa del genere: coglie una curva che collega movimenti narrativi stocastici, casuali, tra loro indipendenti.
Queste caratteristiche sono: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno (un impasto di ironia a tutti i costi e di deresponsabilizzazione autoriale); uno "sguardo obliquo", azzardato, sul mondo; il connubio di complessità narrativa e attitudine popular ; la presenza di storie alternative, di ucronie potenziali; la sovversione "nascosta" di linguaggio e stile; la mutazione del genere romanzesco in "oggetti narrativi non identificati" (U.N.O.), non codificabili, sfuggenti; il rinvio a una dimensione extra-testuale o transmediale.
A queste caratteristiche io aggiungerei l'attenzione al contesto urbano, e l'essere scrittori "col culo in strada".
L'attenzione al contesto urbano non implica necessariamente un carattere "realistico" del narrato: il contesto urbano può essere un luogo della memoria, come la Dublino del Ulysses (o, si parva licet , la Bologna del mio Scirocco ), così come un luogo immaginario può essere descritto come una città "reale" (la Vigata di Camilleri). Nel noir italiano il contesto urbano è continuamente attraversato da transiti, linee di fuga, conflitti: è uno spazio non omogeneo, ma granulare, più denso in alcuni punti, più fluido in altri. La Milano-Quarto Oggiaro di Biondillo e i quartieri romani di De Cataldo ne sono un esempio.
"Scrittori col culo in strada": pochissimi degli scrittori dell'ultima generazione vivono esclusivamente del proprio mestiere letterario: nella maggior parte dei casi sono, volenti o nolenti, costretti ad immergersi all'interno di contesti lavorativi "altri" (fabbriche, scuole, uffici pubblici o privati, palestre, biblioteche, locali musicali), a frequentare molti più ambienti, e molto più differenziati, di altri "scrittori laureati" che, frequentandosi tra di loro all'interno dei propri salotti (metaforici o reali), finiscono per parlare sempre dello stesso piccolo mondo. Sia chiaro, non c'è nulla di rivoluzionario: erano scrittori col culo in strada Dante, Boccaccio, Ariosto, Michelangelo, Manzoni, Pasolini.
Se dovessi sintetizzare le caratteristiche elencate, direi che la principale è il prendere sul serio il proprio mestiere, la propria lingua e i propri contenuti, e il lettore che li legge. Prendere sul serio significa non cercare sponde al consolatorio, farsi carico del portato etico implicito nel proprio narrare. Un esempio. In Testimone inconsapevole (Sellerio, 2004) di Carofiglio la questione migrante è posta in modo assolutamente consolatorio: sembra di capire che se ciascuno facesse il proprio dovere, se ci fosse scrupolo e serietà nell'applicazione del diritto non ci sarebbero errori giudiziari, e forse neanche una questione migrante. Per fortuna prima o poi arriva un brav'uomo che rimette le cose al loro posto: nei gialli di Carofiglio si assiste, sotto mentite spoglie, all'apologia del connubio Legge-Ordine, senza che vengano mai sfiorate le ragioni di sistema che producono il migrante-deviante. Al contrario, ne Il giovane sbirro (Guanda, 2007) di Biondillo appare chiaro che l'eccezione, date le condizioni di sistema, non è il migrante finito in quei Lager che chiamiamo Centri di permanenza temporanea: il problema è semmai, dato un sistema criminogeno che necessariamente produce devianza sociale, perché ci siano migranti che non sono incarcerati nei Cpt. Diceva Manchette: nel noir «la lotta di classe non è assente come nel romanzo ad enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Il romanzo italiano dell'ultima generazione mostra un'esplicita consapevolezza di questa catastrofe. Basta pensare ad Ammaniti: i suoi romanzi sono la descrizione delle forse irredimibili rovine lasciate dal conflitto di classe, sulle quali si agitano gli sconfitti, i reietti, gli esclusi.
Nella nota conclusiva del suo romanzo ucronico Il signor figlio (Mondadori, 2007), Alessandro Zaccuri si fa vanto di aver violato il precetto di Monaldo Leopardi: «Meglio è tacere una storia, che narrarla ingombrata di fole». In un'Italia che sempre più assomiglia a quella desiderata dal conte Monaldo, la pecora bianca della famiglia Leopardi, disobbedire ai suoi precetti è ben più che un vezzo: è un dovere etico.
15/05/2008