l’Unità 27.5.08
Euripide a Cogne
di Adele Cambria
Confesso che l’avevo pensato - ed anche scritto. E so che era facile, ma non era giusto, lasciarsi suggestionare da Euripide e dal mito di Medea, per sentire, visceralmente, se volete, chi era il (la) colpevole nel delitto di Cogne. Ricordate una frase del Coro, in quella tragedia, quando la protagonista annuncia il suo proposito omicida? «Per te, sfortunata figlia di Creonte, quanta pietà...», lamentano le donne. Ed una simile pietas, ma tanto forte e impetuosa da rischiare la complicità, deve essere scattata quella mattina del 30 gennaio 2002, nella pancia e nel cuore di una donna-medico, Ada Satragni; che arriva per il soccorso richiesto da una madre (ed amica) in lacrime, arriva con la sua borsa da medico, vede il massacro di Samuele, e istintivamente spera che non sia stato un massacro, e diagnostica, compromettendo la propria stessa professionalità, un aneurisma che avrebbe fatto schizzare dovunque nella stanza sangue e brandelli del cervello dello sventurato bambino. Ed ora che Anna Maria Franzoni è condannata con sentenza definitiva a 16 anni di carcere, non sentite come quella pietas trapeli e cerchi di trovare un varco persino tra i meccanismi faticosi della legge? L’indulto, le visite dei figli bambini sei volte al mese - e sono già incominciate - la libertà condizionale fra quattro anni... Perché anche gli uomini e le donne della legge sentono che il carcere non ha senso in una storia come questa: una storia enorme che contiene in sé il gesto della tragedia e il mito, l’oscura voragine conflittuale del sentimento materno intuita fin dalle origini della nostra cultura (da Medea alla Lalla Romano de «Le parole tra noi leggere»); e la sua, se possibile, ancora più atroce “modernizzazione”, nella solitudine simbiotica - tutt’il giorno insieme, madre e bambini, il papà, “ assente giustificato” al lavoro - della casetta delle favole. O del mulinobianco? È stata Luce Irigaray, per prima, credo, a rivendicare, almeno come progetto, un diritto materno. «Occorre interrogarsi - ha scritto- sulla rappresentatività scritta del diritto delle donne. È incredibile ma vero che discorsi teorici e pratici monosessuati possano legiferare e perfino esistere».Ma il diritto materno ancora non esiste. «L’avere acquisito alcuni vantaggi - scriveva Irigaray alla fine degli anni ‘80 - non ha cambiato granchè». Ed elencava il diritto alla contraccezione e all’aborto, la protezione civile (e legale) in caso di violenza sessuale, la penalizzazione di qualsiasi violenza inferta a una donna «in pubblico e in privato», concludendo: «Sono diritti elementari della vita che bisogna iscrivere nei codici per riconoscere le donne come cittadine». Già, e la follia femminile? Anna Maria Franzoni è stata giudicata dai magistrati sana di mente. Ma non è un caso che l’abbozzo di un progetto di diritto materno, peraltro dettagliato, punto per punto, in un altro scritto intitolato «La necessità di diritti sessuati», sia stato collegato, dalla filosofa e psicoanalista belga, al discorso su «Le donne e la pazzia», in occasione di un convegno psichiatrico su questo tema a cui era stata invitata a Montreal nel 1980. Ed a proposito del quale osservava: «Mi stupisce - o meglio non mi stupisce - che tra gli addetti ai lavori siano così pochi gli uomini venuti ad ascoltare quello che le donne hanno da dire sulla propria pazzia. Sembrano ben poco interessati a quello che le donne dicono. Per sapere quello che le riguarda e le cure da prescrivere essi si bastano tra di loro. Non c’è bisogno di ascoltarle, quelle...»
Nella terribile storia di Anna Maria Franzoni qualche indizio o tentativo d’ascolto sensibile, specie da parte delle magistrate, mi sembra vi sia stato. Ma, blindata nel familismo patriarcale che la sostiene, la donna non ha risposto. In quanto alla linea di difesa più recente, pur rafforzata dagli interventi di autorevoli legali - e cioè “l’assenza di motivo” per uccidere il figlio - c’è da chiedersi: quando mai una donna che quel figlio l’ha partorito e poi l’ha ucciso sarebbe in grado di darsene uno? E quando mai noi, osservatori esterni, potremmo individuare una logica plausibile in un gesto simile, se non la logica della Medea di Euripide? Ma quella Medea si invola insieme ai figli bambini su un carro inviatole dal Sole... Non è costretta a subire le maledizioni delle povere detenute del braccio femminile del carcere di Bologna.
Euripide a Cogne
di Adele Cambria
Confesso che l’avevo pensato - ed anche scritto. E so che era facile, ma non era giusto, lasciarsi suggestionare da Euripide e dal mito di Medea, per sentire, visceralmente, se volete, chi era il (la) colpevole nel delitto di Cogne. Ricordate una frase del Coro, in quella tragedia, quando la protagonista annuncia il suo proposito omicida? «Per te, sfortunata figlia di Creonte, quanta pietà...», lamentano le donne. Ed una simile pietas, ma tanto forte e impetuosa da rischiare la complicità, deve essere scattata quella mattina del 30 gennaio 2002, nella pancia e nel cuore di una donna-medico, Ada Satragni; che arriva per il soccorso richiesto da una madre (ed amica) in lacrime, arriva con la sua borsa da medico, vede il massacro di Samuele, e istintivamente spera che non sia stato un massacro, e diagnostica, compromettendo la propria stessa professionalità, un aneurisma che avrebbe fatto schizzare dovunque nella stanza sangue e brandelli del cervello dello sventurato bambino. Ed ora che Anna Maria Franzoni è condannata con sentenza definitiva a 16 anni di carcere, non sentite come quella pietas trapeli e cerchi di trovare un varco persino tra i meccanismi faticosi della legge? L’indulto, le visite dei figli bambini sei volte al mese - e sono già incominciate - la libertà condizionale fra quattro anni... Perché anche gli uomini e le donne della legge sentono che il carcere non ha senso in una storia come questa: una storia enorme che contiene in sé il gesto della tragedia e il mito, l’oscura voragine conflittuale del sentimento materno intuita fin dalle origini della nostra cultura (da Medea alla Lalla Romano de «Le parole tra noi leggere»); e la sua, se possibile, ancora più atroce “modernizzazione”, nella solitudine simbiotica - tutt’il giorno insieme, madre e bambini, il papà, “ assente giustificato” al lavoro - della casetta delle favole. O del mulinobianco? È stata Luce Irigaray, per prima, credo, a rivendicare, almeno come progetto, un diritto materno. «Occorre interrogarsi - ha scritto- sulla rappresentatività scritta del diritto delle donne. È incredibile ma vero che discorsi teorici e pratici monosessuati possano legiferare e perfino esistere».Ma il diritto materno ancora non esiste. «L’avere acquisito alcuni vantaggi - scriveva Irigaray alla fine degli anni ‘80 - non ha cambiato granchè». Ed elencava il diritto alla contraccezione e all’aborto, la protezione civile (e legale) in caso di violenza sessuale, la penalizzazione di qualsiasi violenza inferta a una donna «in pubblico e in privato», concludendo: «Sono diritti elementari della vita che bisogna iscrivere nei codici per riconoscere le donne come cittadine». Già, e la follia femminile? Anna Maria Franzoni è stata giudicata dai magistrati sana di mente. Ma non è un caso che l’abbozzo di un progetto di diritto materno, peraltro dettagliato, punto per punto, in un altro scritto intitolato «La necessità di diritti sessuati», sia stato collegato, dalla filosofa e psicoanalista belga, al discorso su «Le donne e la pazzia», in occasione di un convegno psichiatrico su questo tema a cui era stata invitata a Montreal nel 1980. Ed a proposito del quale osservava: «Mi stupisce - o meglio non mi stupisce - che tra gli addetti ai lavori siano così pochi gli uomini venuti ad ascoltare quello che le donne hanno da dire sulla propria pazzia. Sembrano ben poco interessati a quello che le donne dicono. Per sapere quello che le riguarda e le cure da prescrivere essi si bastano tra di loro. Non c’è bisogno di ascoltarle, quelle...»
Nella terribile storia di Anna Maria Franzoni qualche indizio o tentativo d’ascolto sensibile, specie da parte delle magistrate, mi sembra vi sia stato. Ma, blindata nel familismo patriarcale che la sostiene, la donna non ha risposto. In quanto alla linea di difesa più recente, pur rafforzata dagli interventi di autorevoli legali - e cioè “l’assenza di motivo” per uccidere il figlio - c’è da chiedersi: quando mai una donna che quel figlio l’ha partorito e poi l’ha ucciso sarebbe in grado di darsene uno? E quando mai noi, osservatori esterni, potremmo individuare una logica plausibile in un gesto simile, se non la logica della Medea di Euripide? Ma quella Medea si invola insieme ai figli bambini su un carro inviatole dal Sole... Non è costretta a subire le maledizioni delle povere detenute del braccio femminile del carcere di Bologna.