Gli specchi nel cervello
dai gesti alla simpatia, i meccanismi attraverso cui riusciamo a identificarci in ciò che è altro rispetto a noi e a costruire un ambiente sociale condiviso
di Federico Vercellone
Giacomo Rizzolatti Corrado Sinigaglia, So quel che fai Il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina, pp. 216, e21, SAGGIO
Vi ricordate del mito della caverna? Quando Platone afferma che le cose che sono quaggiù sono ombre di quelle idee che sostano immobili nei più lontani recessi celesti? A prima vista il mito sembra molto astruso ma poi, a guardare bene le cose, esso spiega in termini piuttosto plausibili ciò che istintivamente facciamo tutti i giorni. Quando, per esempio, diciamo: «quello è un cane!» possiamo pronunciare la parola «cane» senza timore di sbagliarci sia dinanzi a un barboncino sia dinanzi a un alano. Così pure possiamo dire: «È un animale» sia dinanzi a un grillo sia dinanzi a un elefante. Quando ci si esprime in questi termini lo si fa in modo immediato e irriflesso. Platone vuole spiegare tutto questo dicendoci che rappresentazioni diverse sono intuitivamente ricondotte ogni giorno a rappresentazioni superiori, «generaliste» che ci rendono riconoscibili le prime. Come si può ricavare da queste brevissime considerazioni, si ha qui da fare con una spiegazione notevolmente persuasiva che rende ragione del nostro quotidiano orientarci nel mondo attraverso il linguaggio. Se leggiamo So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio di Giacomo Rizzolatti e di Corrado Sinigaglia, troviamo invece molte buone ragioni per dubitare di Platone e del suo pur autorevolissimo punto di vista. In realtà la nostra conoscenza non è, quantomeno tendenzialmente, una conoscenza teoretica o rappresentativa. Attraverso analisi condotte dapprima sulle scimmie e poi anche sugli uomini i due Autori possono affermare che il vedere non individua elementi o segmenti del mondo, cioè rappresentazioni ma «ipotesi d'azione». Il vedere non guida la mano secondo la scansione di prima e dopo, capo e sottoposto (o teoria e prassi) ma, innanzitutto, si vede con la mano. Mentre il meccanismo della rappresentazione distingue tra un momento teoretico e uno pratico, tra un momento nel quale osserviamo il mondo e un secondo momento nel quale interveniamo su di esso, abbiamo qui a che fare con un osservare che è già sempre un agire e con un agire che non è mai cieco, ma deriva da un osservare in vista di.... In altri termini non osservo la mela e poi decido di mangiarla ma la osservo per mangiarla. Non apprendiamo mai sezioni segmentate del mondo ma porzioni compiute di questo che stanno nel contesto indissolubile della proposizione: «osservo la mela, allungo la mano e la mangio». In altri termini non c'è attimo nel quale non siamo immersi nel mondo. Sin qui potremmo trovarci nell'ambito di una qualsiasi teoria filosofica evoluta (dal pragmatismo a Heidegger) secondo la quale il soggetto è già da sempre immerso in un contesto. Ma il passo oltre che viene compiuto facendo nostra la scoperta dei neuroni specchio è che questo mondo diviene il nostro mondo attraverso l'imitazione del comportamento altrui. Il comportamento imitativo già riscontrabile negli esperimenti con le scimmie che ripetono certi gesti fatti dall'uomo (per esempio prendere fra le dita un pezzo di pane) dimostra che - grazie ai neuroni specchio - siamo già sempre immersi in un ambiente socialmente condiviso. La cultura da questo punto di vista è inserita nelle strutture biologiche che prevedono uno scambio imitativo: questo inizia con temi come il cibo per evolvere verso ambiti più complessi come lo scambio linguistico e quello emotivo. Da questo punto di vista il linguaggio non fa che ripetere, su di una scala dell'evoluzione più alta, quanto già si annunciava nell'imitazione semplice della gestualità altrui. Si riproducono, sul piano linguistico, comportamenti complessi che non sono riducibili alle loro componenti. Anche dal punto di vista linguistico - come del resto è intuitivo - non si congiungono strutture originariamente isolate le une dalle altre: soggetto, verbo e predicato. Si ha piuttosto sempre a che fare con strutture che realizzano una totalità, che identificano in questo modo un gesto, un'attitudine, un comportamento. Ma, come è noto a tutti, la comprensione non concerne soltanto o esclusivamente la sfera del linguaggio verbale; anzi una vera comprensione non può darsi che in presenza di una profonda corrente simpatetica che ci metta a contatto con gli altri condividendone i sentimenti. Anche a questo proposito i neuroni specchio hanno da dire la loro: sono proprio loro infatti i responsabili del fatto che dinanzi a qualcuno che prova disgusto anche noi lo proviamo senza essere a contatto diretto con la causa di questo stato. L'aspetto nauseato del nostro amico Mario che ha ingerito un cibo andato a male induce in noi un'analoga reazione di disgusto - suscitata dai neuroni specchio - senza che tuttavia si sia ingerito quel medesimo cibo. I neuroni specchio divengono da questo punto di vista un elemento cardine per cogliere la continuità evolutiva di bios e di ethos, di natura e cultura. Ci consentono di cogliere anche sul piano biologico le motivazioni profonde di risposte culturali antichissime ma persistenti. Per esempio: perché proviamo piacere in quanto spettatori di eventi luttuosi? Quando - a seguire Aristotele - siamo spettatori di una tragedia, ma potrebbe dirsi lo stesso per un film horror? Probabilmente ciò avviene non per ultimo perché sperimentiamo in queste situazioni la capacità di uscire da noi per identificarci in qualcosa di diverso, sia pure doloroso. Facciamo cioè esperienza di quella misteriosa plasticità del nostro essere che genera la cultura della quale i neuroni specchio sono, nel bene e nel male, corresponsabili.