Corriere della Sera 29.11.07
Monoteismi Jan Assmann, le origini dell'intolleranza
Quando la religione diventa un'arma nelle mani del potere
di Mario Andrea Rigoni
Non c'è, in apparenza, fenomeno più mostruoso della violenza praticata in nome della religione, del terrore scatenato in nome di Dio. Eppure esso è piuttosto una norma che un'eccezione storica, tragicamente confermata dal nostro tempo, anche se con modalità — come quelle dello stragismo suicida di origine islamica — che la fantasia più sinistra difficilmente avrebbe potuto concepire. A un tentativo di critica della violenza religiosa, compito dei più urgenti, si dedica nel volume Non avrai altro Dio (Il Mulino) l'egittologo tedesco Jan Assmann, un originale e notevole studioso che aveva già trattato i termini del problema con Mosè l'egizio (Adelphi) e che ha inaugurato un tipo di indagine, la «semantica culturale », attenta al rilievo che i fatti assumono, piuttosto che nella storia, nella rappresentazione della memoria (La memoria culturale, Einaudi). In conformità con questa metodologia, Assmann si chiede perché i testi sacri del monoteismo ebraico-cristiano- islamico siano caratterizzati da un linguaggio della violenza che interrompe la tradizione di «reciproco riconoscimento e traducibilità» propria delle precedenti religioni politeistiche.
La risposta è semplice: il monoteismo, con la sua concezione di un Dio unico, instaura un concetto di verità esclusiva, collegato a una rivelazione che riduce le verità di tutte le altre religioni al rango di aberrazioni e di menzogne da perseguitare, cosicché agli «idolatri» e agli «infedeli » non viene offerta altra alternativa che la conversione o l'eliminazione.
Mentre nell'antichità egiziana, babilonese, indiana, greca e romana tutti gli dei rappresentano infine un unico Dio e risultano dunque reciprocamente compatibili e traducibili l'uno nell'altro, nelle nuove religioni monoteistiche (precedute dalla breve ma significativa esperienza di Akhenaton nell'Egitto della XVIII dinastia) nessun dio può essere ammesso all'infuori dell'unico vero Dio.
Assmann non sostiene, ovviamente, che l'antico mondo politeistico fosse il regno della pace e della tranquillità, ma solo che la violenza che vi aveva luogo era motivata da ragioni di potere e di sovranità, ossia da ragioni politiche, anziché da questioni di verità, ossia di adesione o meno a un'ortodossia divina. Tuttavia lo studioso ritiene che la violenza sia appannaggio della politica e non della religione e che essa non costituisca dunque una conseguenza inevitabile del monoteismo. Le cose sarebbero potute andare diversamente se la religione non fosse stata usata dalla politica: esiste dunque anche per il presente o per il futuro la speranza che, sottratte all'ipoteca o al ricatto del potere, le religioni monoteistiche divengano tolleranti. Esse dovrebbero essere, conclude Assmann, «radicalmente depoliticizzate ». Come non condividere un tale auspicio? Ma di un auspicio appunto si tratta, di una considerazione che appartiene più all'ambito del «dover essere» che a quello dell'«essere», nel quale dobbiamo riflettere e operare. Un'obiezione che si può muovere all'analisi di Assmann è che egli trascura il nesso intrinseco e originario che unisce il sacro alla violenza indipendentemente dalla distinzione tra paganesimo e monoteismo. La terrorizzante crudeltà persecutoria connessa con il culto di Dioniso, quale appare dalle Baccanti di Euripide, non appartiene forse a un ambito puramente religioso? Ma è soltanto uno degli esempi adducibili. Né si possono dimenticare la diversa natura e la diversa evoluzione che hanno avuto i tre monoteismi.
Il cristianesimo, come l'ebraismo, è diventato più tollerante attraverso un processo di secolarizzazione contestuale con lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale. A tale processo l'Islam è rimasto estraneo, arrestandosi a una fase arcaica, per ragioni che non sembrano solo di carattere storico, economico e culturale, ma anche religioso. Il cristianesimo ha distinto sempre di più la sfera civile e politica da quella religiosa, lo Stato dalla Chiesa. Non si è trattato unicamente di una strategia o di un accomodamento: Cristo stesso aveva prescritto di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Niente di simile è invece accaduto nell'Islam, infeudato a un integralismo religioso che investe tutti gli aspetti della vita e dell'esperienza: in tale caso sarebbe difficile pensare che la politica si sia arbitrariamente sovrapposta alla religione, poiché le due cose fanno tutt'uno non solo di fatto, ma anche di diritto. Ne consegue che ogni discorso sui rapporti dell'Islam con l'Occidente, con la laicità, con la democrazia, con la non violenza, rischia di avere poco senso fino a che non sarà rimosso — per vie che adesso si possono solo ipotizzare — questo enorme ostacolo.
Monoteismi Jan Assmann, le origini dell'intolleranza
Quando la religione diventa un'arma nelle mani del potere
di Mario Andrea Rigoni
Non c'è, in apparenza, fenomeno più mostruoso della violenza praticata in nome della religione, del terrore scatenato in nome di Dio. Eppure esso è piuttosto una norma che un'eccezione storica, tragicamente confermata dal nostro tempo, anche se con modalità — come quelle dello stragismo suicida di origine islamica — che la fantasia più sinistra difficilmente avrebbe potuto concepire. A un tentativo di critica della violenza religiosa, compito dei più urgenti, si dedica nel volume Non avrai altro Dio (Il Mulino) l'egittologo tedesco Jan Assmann, un originale e notevole studioso che aveva già trattato i termini del problema con Mosè l'egizio (Adelphi) e che ha inaugurato un tipo di indagine, la «semantica culturale », attenta al rilievo che i fatti assumono, piuttosto che nella storia, nella rappresentazione della memoria (La memoria culturale, Einaudi). In conformità con questa metodologia, Assmann si chiede perché i testi sacri del monoteismo ebraico-cristiano- islamico siano caratterizzati da un linguaggio della violenza che interrompe la tradizione di «reciproco riconoscimento e traducibilità» propria delle precedenti religioni politeistiche.
La risposta è semplice: il monoteismo, con la sua concezione di un Dio unico, instaura un concetto di verità esclusiva, collegato a una rivelazione che riduce le verità di tutte le altre religioni al rango di aberrazioni e di menzogne da perseguitare, cosicché agli «idolatri» e agli «infedeli » non viene offerta altra alternativa che la conversione o l'eliminazione.
Mentre nell'antichità egiziana, babilonese, indiana, greca e romana tutti gli dei rappresentano infine un unico Dio e risultano dunque reciprocamente compatibili e traducibili l'uno nell'altro, nelle nuove religioni monoteistiche (precedute dalla breve ma significativa esperienza di Akhenaton nell'Egitto della XVIII dinastia) nessun dio può essere ammesso all'infuori dell'unico vero Dio.
Assmann non sostiene, ovviamente, che l'antico mondo politeistico fosse il regno della pace e della tranquillità, ma solo che la violenza che vi aveva luogo era motivata da ragioni di potere e di sovranità, ossia da ragioni politiche, anziché da questioni di verità, ossia di adesione o meno a un'ortodossia divina. Tuttavia lo studioso ritiene che la violenza sia appannaggio della politica e non della religione e che essa non costituisca dunque una conseguenza inevitabile del monoteismo. Le cose sarebbero potute andare diversamente se la religione non fosse stata usata dalla politica: esiste dunque anche per il presente o per il futuro la speranza che, sottratte all'ipoteca o al ricatto del potere, le religioni monoteistiche divengano tolleranti. Esse dovrebbero essere, conclude Assmann, «radicalmente depoliticizzate ». Come non condividere un tale auspicio? Ma di un auspicio appunto si tratta, di una considerazione che appartiene più all'ambito del «dover essere» che a quello dell'«essere», nel quale dobbiamo riflettere e operare. Un'obiezione che si può muovere all'analisi di Assmann è che egli trascura il nesso intrinseco e originario che unisce il sacro alla violenza indipendentemente dalla distinzione tra paganesimo e monoteismo. La terrorizzante crudeltà persecutoria connessa con il culto di Dioniso, quale appare dalle Baccanti di Euripide, non appartiene forse a un ambito puramente religioso? Ma è soltanto uno degli esempi adducibili. Né si possono dimenticare la diversa natura e la diversa evoluzione che hanno avuto i tre monoteismi.
Il cristianesimo, come l'ebraismo, è diventato più tollerante attraverso un processo di secolarizzazione contestuale con lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale. A tale processo l'Islam è rimasto estraneo, arrestandosi a una fase arcaica, per ragioni che non sembrano solo di carattere storico, economico e culturale, ma anche religioso. Il cristianesimo ha distinto sempre di più la sfera civile e politica da quella religiosa, lo Stato dalla Chiesa. Non si è trattato unicamente di una strategia o di un accomodamento: Cristo stesso aveva prescritto di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Niente di simile è invece accaduto nell'Islam, infeudato a un integralismo religioso che investe tutti gli aspetti della vita e dell'esperienza: in tale caso sarebbe difficile pensare che la politica si sia arbitrariamente sovrapposta alla religione, poiché le due cose fanno tutt'uno non solo di fatto, ma anche di diritto. Ne consegue che ogni discorso sui rapporti dell'Islam con l'Occidente, con la laicità, con la democrazia, con la non violenza, rischia di avere poco senso fino a che non sarà rimosso — per vie che adesso si possono solo ipotizzare — questo enorme ostacolo.