Il reportage televisivo dal Kenya: 11 persone bruciate vive perché accusate di stregoneria.
Wednesday, May 28, 2008
Tuesday, May 27, 2008
Storie di templi e divinità - Per un’antropologia della religione popolare cinese
Storie di templi e divinità - Per un’antropologia della religione popolare cinese"
venerdì 30 maggio 2008 ore 18.00
aula 8 Facoltà di Studi Orientali - via Principe Amedeo 182/b Roma
Attraverso la presentazione di materiale etnografico di prima mano, la conferenza intende introdurre alcuni aspetti antropologici della religione popolare cinese, un contesto socio-culturale privilegiato che può contribuire a una maggiore comprensione del vissuto quotidiano cinese. La religione popolare, a cui Alessandro Dell’Orto ha dedicato circa venti anni di studio e di ricerche sul campo in Cina continentale e a Taiwan, è espressione di visioni del mondo molto complesse e coerenti, capaci di ispirare ed esemplificare la sfera cosmologica e rituale del Confucianesimo, del Buddismo e soprattutto del Taoismo. Inoltre il suo impatto sociale condivide e rinforza l idea più generale che le religioni popolari non siano solo riflessi passivi di un determinato ambiente culturale, ma anche in parte costitutive e a volte trasformative delle strutture e attività sociali nei processi storici dei popoli del mondo. Soffermandosi in modo particolare sulle storie e sui templi di Tudi Gong, la divinità cinese del
luogo, l’intento della conferenza è anche quello di incoraggiare una maggiore attenzione degli “studi
cinesi” in Italia e della stessa antropologia italiana verso la religione popolare nel contesto cinese e, più in generale, verso l’antropologia della Cina.
Interviene il Prof. Alessandro Dell'Orto L'incontro è aperto a tutti gli interessati.
Info
Istituto Confucio
T (+39) 06. 4464135
info@istitutoconfucio.it
www.istitutoconfucio.it
venerdì 30 maggio 2008 ore 18.00
aula 8 Facoltà di Studi Orientali - via Principe Amedeo 182/b Roma
Attraverso la presentazione di materiale etnografico di prima mano, la conferenza intende introdurre alcuni aspetti antropologici della religione popolare cinese, un contesto socio-culturale privilegiato che può contribuire a una maggiore comprensione del vissuto quotidiano cinese. La religione popolare, a cui Alessandro Dell’Orto ha dedicato circa venti anni di studio e di ricerche sul campo in Cina continentale e a Taiwan, è espressione di visioni del mondo molto complesse e coerenti, capaci di ispirare ed esemplificare la sfera cosmologica e rituale del Confucianesimo, del Buddismo e soprattutto del Taoismo. Inoltre il suo impatto sociale condivide e rinforza l idea più generale che le religioni popolari non siano solo riflessi passivi di un determinato ambiente culturale, ma anche in parte costitutive e a volte trasformative delle strutture e attività sociali nei processi storici dei popoli del mondo. Soffermandosi in modo particolare sulle storie e sui templi di Tudi Gong, la divinità cinese del
luogo, l’intento della conferenza è anche quello di incoraggiare una maggiore attenzione degli “studi
cinesi” in Italia e della stessa antropologia italiana verso la religione popolare nel contesto cinese e, più in generale, verso l’antropologia della Cina.
Interviene il Prof. Alessandro Dell'Orto L'incontro è aperto a tutti gli interessati.
Info
Istituto Confucio
T (+39) 06. 4464135
info@istitutoconfucio.it
www.istitutoconfucio.it
Il ritorno di Persefone Concluso l’imponente lavoro di classificazione di più di 5mila «pinakes» legate al culto della dea
Il ritorno di Persefone Concluso l’imponente lavoro di classificazione di più di 5mila «pinakes» legate al culto della dea
Pietro Giovanni Guzzo *
26/05/2008 IL MATTINO
Locri Epizefirii si credeva fosse uno dei luoghi nei quali il dio infero Hades aveva rapito Persefone per farne la sua sposa. Demetra, disperata per la scomparsa dell’unica figlia, ottenne dal dio di riaverla per una sola metà dell’anno: e la riapparizione di Persefone dall’oscurità infernale segnava il ciclico ritorno della primavera. Proprio un secolo fa, Paolo Orsi ritrovò nella località Mannella dell’attuale Locri in Calabria, all’esterno delle mura di difesa della città antica, migliaia di tavolette in terracotta lunghe un palmo decorate a rilievo, deposte come doni votivi in un santuario, del quale tramandavano memoria le fonti letterarie antiche. Molte di quelle tavolette recavano la raffigurazione del rapimento di Persefone da parte di Hades, alla guida di un carro trainato da focosi cavalli. Così che l’archeologo aggiunse questa sua scoperta, cruciale per la storia dei culti in Magna Grecia, alle numerose altre che ne hanno fatto la figura principale per la conoscenza di quella regione dell’Italia antica. Oggi si conclude un lavoro che ha occupato gli ultimi quindici anni, grazie al quale quelle tavolette sono state tutte inventariate (a raggiungere il numero di 5360, tra intere e frammentarie), descritte, fotografate, disegnate, commentate: confluendo in sedici tomi, editi dal 1996 nella serie degli Atti e Memorie della Società Magna Grecia della Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. La cura di una tale impresa è stata di Elisa Lissi Caronna, Claudio Sabbione e Licia Vlad Borrelli: che si sono, così, guadagnati ulteriore gratitudine, in quanto questi curatori hanno portato a felice conclusione lo studio iniziato, su invito dello stesso Paolo Orsi, da Paola Zancani Montuoro, della cui scomparsa fra poco ricorrerà il ventesimo anniversario. Agli specialisti occorrerà lasciare un’analisi minuta dei criteri di classificazione seguiti prima dalla Zancani Montuoro, ora in questi volumi, adottati per presentare in maniera ordinata la quantità sovrabbondante delle tavolette locresi, e l’assegnazione dei numerosi frammenti. Pure a specialisti toccherà dibattere sull’interpretazione delle diverse scene figurate ottenute a stampo sulla fronte delle tavolette, che venivano poi sospese in bella vista all’interno del santuario. L’accuratezza della rappresentazione dei dettagli, la successione delle matrici adoperate per tutto il corso del V secolo a. C. recanti lo stesso «tipo» iconografico, le varianti e i ritocchi apportati, come aggiunte e sottrazioni alla composizione del «tipo», l’uso del colore per ravvivare alcuni campi o lo sfondo della scena: sono alcuni dei temi di studio che, ora, si potranno affrontare in maniera sistematica. E la manualità di questa antica produzione permetterà anche, a chi ne sia in grado, di costituire un archivio delle impronte digitali degli artigiani locresi: non tanto a scopi giudiziari, quanto per aggiungere un dato oggettivo alle ricostruite «parentele» stilistiche fra gruppi di tavolette ed alle identificazioni di varie botteghe che si può supporre attive per più generazioni. Se il rapimento di Persefone da parte di Hades costituisce il tipo iconografico che caratterizza il santuario ed identifica la divinità che lo presiede, altri «tipi» ornano le tavolette locresi: Hades e Persefone, nella loro maestà infera, seduti su troni che accolgono offerte oppure figure femminili impegnate in varie attività domestiche, contornate sia da giocattoli sia da arredi domestici, fra le quali è significativo, ad esempio, l’apertura di un cassone che contiene un bimbo. Ognuno di questi temi figurati costituisce un «tipo», al quale si riportano varianti; in ognuno di essi è racchiuso un significato. L’essenza del quale, evidente per l’antico dedicante, si rapportava a quanto questi chiedeva alla divinità, oppure costituiva pubblico riconoscimento di gratitudine per averlo già ottenuto. La quantità e la specificità delle tavolette figurate ha, generalmente, tenuto in ombra diverse altre classi di doni votivi: come ad esempio i gioielli. L’insieme ritrovato un secolo fa converge nel documentarci l’esercizio di un culto reso da donne alla dea che protegge la loro fertilità (e da qui il suo essere celebrato fuori della città, per renderlo separato da presenze maschili). E la presenza di un bimbo nel cassone che viene aperto è trasparente metafora di una nuova nascita. Se Persefone, attraverso la parabola del rapimento e dell’alterna presenza terrena, simboleggia il passaggio della vergine alla sposa e della ciclica fertilità, non è essa l’unica divinità che presiede a questa funzione essenziale per la continuità di qualsiasi società. È da prevedersi un ravvivarsi di studi specialistici. La lunga osservanza di quel culto rappresenta una costante dell’antica cultura locrese: ma, a confronto di quelli analoghi a noi noti da ritrovamenti effettuati a Vibo Valentia, Rosarno, Francavilla di Sicilia, è quello più dettagliatamente conosciuto, grazie a Paolo Orsi, Paola Zancani Montuoro e a questi splendidi sedici tomi. La divinità coprì con la sua protezione feconda le donne locresi, e con esse la loro discendenza, finché i Romani ne profanarono il tempio, famosissimo fra gli Italioti. Chi, oggi, volesse ripercorrere il sentiero che conduce al riservato santuario della dea passeggerebbe fra olivi secolari, e fra incomplete e disordinate costruzioni. Alla suggestione che ispira quanto rimane dell’antica polis, accuratamente restaurata e provvista di un bel piccolo museo, si contrappone un paesaggio moderno al quale Persefone non ambirebbe, si teme, periodicamente ritornare.
Pietro Giovanni Guzzo *
26/05/2008 IL MATTINO
Locri Epizefirii si credeva fosse uno dei luoghi nei quali il dio infero Hades aveva rapito Persefone per farne la sua sposa. Demetra, disperata per la scomparsa dell’unica figlia, ottenne dal dio di riaverla per una sola metà dell’anno: e la riapparizione di Persefone dall’oscurità infernale segnava il ciclico ritorno della primavera. Proprio un secolo fa, Paolo Orsi ritrovò nella località Mannella dell’attuale Locri in Calabria, all’esterno delle mura di difesa della città antica, migliaia di tavolette in terracotta lunghe un palmo decorate a rilievo, deposte come doni votivi in un santuario, del quale tramandavano memoria le fonti letterarie antiche. Molte di quelle tavolette recavano la raffigurazione del rapimento di Persefone da parte di Hades, alla guida di un carro trainato da focosi cavalli. Così che l’archeologo aggiunse questa sua scoperta, cruciale per la storia dei culti in Magna Grecia, alle numerose altre che ne hanno fatto la figura principale per la conoscenza di quella regione dell’Italia antica. Oggi si conclude un lavoro che ha occupato gli ultimi quindici anni, grazie al quale quelle tavolette sono state tutte inventariate (a raggiungere il numero di 5360, tra intere e frammentarie), descritte, fotografate, disegnate, commentate: confluendo in sedici tomi, editi dal 1996 nella serie degli Atti e Memorie della Società Magna Grecia della Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. La cura di una tale impresa è stata di Elisa Lissi Caronna, Claudio Sabbione e Licia Vlad Borrelli: che si sono, così, guadagnati ulteriore gratitudine, in quanto questi curatori hanno portato a felice conclusione lo studio iniziato, su invito dello stesso Paolo Orsi, da Paola Zancani Montuoro, della cui scomparsa fra poco ricorrerà il ventesimo anniversario. Agli specialisti occorrerà lasciare un’analisi minuta dei criteri di classificazione seguiti prima dalla Zancani Montuoro, ora in questi volumi, adottati per presentare in maniera ordinata la quantità sovrabbondante delle tavolette locresi, e l’assegnazione dei numerosi frammenti. Pure a specialisti toccherà dibattere sull’interpretazione delle diverse scene figurate ottenute a stampo sulla fronte delle tavolette, che venivano poi sospese in bella vista all’interno del santuario. L’accuratezza della rappresentazione dei dettagli, la successione delle matrici adoperate per tutto il corso del V secolo a. C. recanti lo stesso «tipo» iconografico, le varianti e i ritocchi apportati, come aggiunte e sottrazioni alla composizione del «tipo», l’uso del colore per ravvivare alcuni campi o lo sfondo della scena: sono alcuni dei temi di studio che, ora, si potranno affrontare in maniera sistematica. E la manualità di questa antica produzione permetterà anche, a chi ne sia in grado, di costituire un archivio delle impronte digitali degli artigiani locresi: non tanto a scopi giudiziari, quanto per aggiungere un dato oggettivo alle ricostruite «parentele» stilistiche fra gruppi di tavolette ed alle identificazioni di varie botteghe che si può supporre attive per più generazioni. Se il rapimento di Persefone da parte di Hades costituisce il tipo iconografico che caratterizza il santuario ed identifica la divinità che lo presiede, altri «tipi» ornano le tavolette locresi: Hades e Persefone, nella loro maestà infera, seduti su troni che accolgono offerte oppure figure femminili impegnate in varie attività domestiche, contornate sia da giocattoli sia da arredi domestici, fra le quali è significativo, ad esempio, l’apertura di un cassone che contiene un bimbo. Ognuno di questi temi figurati costituisce un «tipo», al quale si riportano varianti; in ognuno di essi è racchiuso un significato. L’essenza del quale, evidente per l’antico dedicante, si rapportava a quanto questi chiedeva alla divinità, oppure costituiva pubblico riconoscimento di gratitudine per averlo già ottenuto. La quantità e la specificità delle tavolette figurate ha, generalmente, tenuto in ombra diverse altre classi di doni votivi: come ad esempio i gioielli. L’insieme ritrovato un secolo fa converge nel documentarci l’esercizio di un culto reso da donne alla dea che protegge la loro fertilità (e da qui il suo essere celebrato fuori della città, per renderlo separato da presenze maschili). E la presenza di un bimbo nel cassone che viene aperto è trasparente metafora di una nuova nascita. Se Persefone, attraverso la parabola del rapimento e dell’alterna presenza terrena, simboleggia il passaggio della vergine alla sposa e della ciclica fertilità, non è essa l’unica divinità che presiede a questa funzione essenziale per la continuità di qualsiasi società. È da prevedersi un ravvivarsi di studi specialistici. La lunga osservanza di quel culto rappresenta una costante dell’antica cultura locrese: ma, a confronto di quelli analoghi a noi noti da ritrovamenti effettuati a Vibo Valentia, Rosarno, Francavilla di Sicilia, è quello più dettagliatamente conosciuto, grazie a Paolo Orsi, Paola Zancani Montuoro e a questi splendidi sedici tomi. La divinità coprì con la sua protezione feconda le donne locresi, e con esse la loro discendenza, finché i Romani ne profanarono il tempio, famosissimo fra gli Italioti. Chi, oggi, volesse ripercorrere il sentiero che conduce al riservato santuario della dea passeggerebbe fra olivi secolari, e fra incomplete e disordinate costruzioni. Alla suggestione che ispira quanto rimane dell’antica polis, accuratamente restaurata e provvista di un bel piccolo museo, si contrappone un paesaggio moderno al quale Persefone non ambirebbe, si teme, periodicamente ritornare.
L’ultimo mistero "Era il Pantheon della preistoria"
la Repubblica 27.5.08
L’archeologo: lì venivano sepolti i leader Lo provano le tombe di tre individui cremati
L’ultimo mistero "Era il Pantheon della preistoria"
di Cinzia Dal Maso
Non era un osservatorio astronomico, né un tempio per culti della fertilità e neppure un luogo di guarigione. Per l´archeologo Mike Parker-Pearson dell´Università di Sheffield, Stonehenge era un cimitero e il cerchio di pietre era un tempio per il culto di defunti. La prova sono tre sepolture di individui cremati, trovate negli anni ´50 del secolo scorso vicino al terrapieno e al fossato di Stonehenge, che solo ora Parker-Pearson ha datato con precisione. Le prime due furono deposte attorno al 2900 a.C. cioè alle origini di Stonehenge quando si costruirono il terrapieno e il fossato circolari, mentre la terza risale agli anni 2570-2340 a.C. quando fu eretto il monumentale cerchio di pietre. E siamo a conoscenza di altre 49 tombe scavate negli anni ´20 ma poi riseppellite, trovate in parte in livelli di terreno analoghi a quelli delle due sepolture più antiche, e in parte nei livelli più recenti. Ciò significa che "Stonehenge è stato luogo di sepoltura dall´inizio alla fine", scrive Parker-Pearson nella relazione pubblicata sul sito internet dell´università. "Anche quando si costruì il cerchio di pietre, Stonehenge continuò a essere il regno dei morti".
Finora si credeva che Stonehenge, a cui il "National Geographic Italia" dedica un lungo servizio nel numero di giugno, fosse stato usato come luogo di sepoltura solo nei suoi primi secoli di vita, quando aveva solo terrapieni e strutture lignee, e che la costruzione del tempio di pietra avesse fatto dirottare le sepolture altrove. Ora invece scopriamo che si è continuato a portare lì i defunti almeno per 500 anni. "Però non gente comune, perché Stonehenge era un posto speciale", afferma Parker-Pearson. "Abbiamo calcolato che in 500 anni vi si portarono circa 240 defunti". Dunque un´élite, dei capi, una sorta di dinastia al potere. Stonehenge fu forse il Pantheon della preistoria britannica.
È questa una prova importante per l´ipotesi che ha spinto Parker-Pearson a indagare Stonehenge. Ipotesi ispirata dalle sue ricerche in Madagascar dove la gente associa il legno alla transitorietà della vita e alla donna, mentre la dura pietra alla morte perenne e all´uomo. Parker-Pearson ha pensato che anche Stonehenge funzionasse in modo analogo. Qualche chilometro più a nord del famoso circolo, nel sito dell´enorme terrapieno circolare di Durrington Walls, ci sono infatti altri circoli di pali di legno dove, sostiene Parker-Pearson, si svolgevano banchetti e cerimonie di passaggio tra la vita e la morte. Poi i defunti venivano portati in barca lungo il fiume Avon e raggiungevano Stonehenge, la casa di pietra garante della vita eterna. Le indagini sono cominciate nel 2003. Ed è stato subito identificato un viale che conduce da Durrington Walls al fiume Avon, molto simile alla via che collega Stonehenge con lo stesso fiume. L´ipotizzato percorso rituale tra i due complessi, incentrato sul fiume come via per l´oltretomba, era dunque una realtà.
A Durrington Walls gli archeologi hanno poi trovato i resti di diverse case di graticcio e fango, il "villaggio dei costruttori di Stonehenge" come ha annunciato Parker-Pearson un anno fa. Ora ha stimato che le case fossero circa 300, sistemate attorno a edifici di culto: il villaggio preistorico più grande di tutta l´Europa nord-occidentale. Abitato però solo stagionalmente, come rivelano le analisi ambientali. Solo per le cerimonie, come i villaggi delle novene in Sardegna. Ma non molti archeologi condividono le teorie di Parker-Pearson. Se plaudono alla sua idea di considerare Stonehenge come parte di un insieme di monumenti, attendono però prove più stringenti per accettare che fosse un complesso funebre. E in questi giorni un´altra tesi suggestiva è proposta dall´archeologo di Oxford Anthony Johnson nel libro "Solving Stonehenge". Convinto che Stonehenge fu costruita usando avanzatissimi principi di geometria. I suoi costruttori conoscevano geometria e simmetria già duemila anni prima di Pitagora.
L’archeologo: lì venivano sepolti i leader Lo provano le tombe di tre individui cremati
L’ultimo mistero "Era il Pantheon della preistoria"
di Cinzia Dal Maso
Non era un osservatorio astronomico, né un tempio per culti della fertilità e neppure un luogo di guarigione. Per l´archeologo Mike Parker-Pearson dell´Università di Sheffield, Stonehenge era un cimitero e il cerchio di pietre era un tempio per il culto di defunti. La prova sono tre sepolture di individui cremati, trovate negli anni ´50 del secolo scorso vicino al terrapieno e al fossato di Stonehenge, che solo ora Parker-Pearson ha datato con precisione. Le prime due furono deposte attorno al 2900 a.C. cioè alle origini di Stonehenge quando si costruirono il terrapieno e il fossato circolari, mentre la terza risale agli anni 2570-2340 a.C. quando fu eretto il monumentale cerchio di pietre. E siamo a conoscenza di altre 49 tombe scavate negli anni ´20 ma poi riseppellite, trovate in parte in livelli di terreno analoghi a quelli delle due sepolture più antiche, e in parte nei livelli più recenti. Ciò significa che "Stonehenge è stato luogo di sepoltura dall´inizio alla fine", scrive Parker-Pearson nella relazione pubblicata sul sito internet dell´università. "Anche quando si costruì il cerchio di pietre, Stonehenge continuò a essere il regno dei morti".
Finora si credeva che Stonehenge, a cui il "National Geographic Italia" dedica un lungo servizio nel numero di giugno, fosse stato usato come luogo di sepoltura solo nei suoi primi secoli di vita, quando aveva solo terrapieni e strutture lignee, e che la costruzione del tempio di pietra avesse fatto dirottare le sepolture altrove. Ora invece scopriamo che si è continuato a portare lì i defunti almeno per 500 anni. "Però non gente comune, perché Stonehenge era un posto speciale", afferma Parker-Pearson. "Abbiamo calcolato che in 500 anni vi si portarono circa 240 defunti". Dunque un´élite, dei capi, una sorta di dinastia al potere. Stonehenge fu forse il Pantheon della preistoria britannica.
È questa una prova importante per l´ipotesi che ha spinto Parker-Pearson a indagare Stonehenge. Ipotesi ispirata dalle sue ricerche in Madagascar dove la gente associa il legno alla transitorietà della vita e alla donna, mentre la dura pietra alla morte perenne e all´uomo. Parker-Pearson ha pensato che anche Stonehenge funzionasse in modo analogo. Qualche chilometro più a nord del famoso circolo, nel sito dell´enorme terrapieno circolare di Durrington Walls, ci sono infatti altri circoli di pali di legno dove, sostiene Parker-Pearson, si svolgevano banchetti e cerimonie di passaggio tra la vita e la morte. Poi i defunti venivano portati in barca lungo il fiume Avon e raggiungevano Stonehenge, la casa di pietra garante della vita eterna. Le indagini sono cominciate nel 2003. Ed è stato subito identificato un viale che conduce da Durrington Walls al fiume Avon, molto simile alla via che collega Stonehenge con lo stesso fiume. L´ipotizzato percorso rituale tra i due complessi, incentrato sul fiume come via per l´oltretomba, era dunque una realtà.
A Durrington Walls gli archeologi hanno poi trovato i resti di diverse case di graticcio e fango, il "villaggio dei costruttori di Stonehenge" come ha annunciato Parker-Pearson un anno fa. Ora ha stimato che le case fossero circa 300, sistemate attorno a edifici di culto: il villaggio preistorico più grande di tutta l´Europa nord-occidentale. Abitato però solo stagionalmente, come rivelano le analisi ambientali. Solo per le cerimonie, come i villaggi delle novene in Sardegna. Ma non molti archeologi condividono le teorie di Parker-Pearson. Se plaudono alla sua idea di considerare Stonehenge come parte di un insieme di monumenti, attendono però prove più stringenti per accettare che fosse un complesso funebre. E in questi giorni un´altra tesi suggestiva è proposta dall´archeologo di Oxford Anthony Johnson nel libro "Solving Stonehenge". Convinto che Stonehenge fu costruita usando avanzatissimi principi di geometria. I suoi costruttori conoscevano geometria e simmetria già duemila anni prima di Pitagora.
Euripide a Cogne
l’Unità 27.5.08
Euripide a Cogne
di Adele Cambria
Confesso che l’avevo pensato - ed anche scritto. E so che era facile, ma non era giusto, lasciarsi suggestionare da Euripide e dal mito di Medea, per sentire, visceralmente, se volete, chi era il (la) colpevole nel delitto di Cogne. Ricordate una frase del Coro, in quella tragedia, quando la protagonista annuncia il suo proposito omicida? «Per te, sfortunata figlia di Creonte, quanta pietà...», lamentano le donne. Ed una simile pietas, ma tanto forte e impetuosa da rischiare la complicità, deve essere scattata quella mattina del 30 gennaio 2002, nella pancia e nel cuore di una donna-medico, Ada Satragni; che arriva per il soccorso richiesto da una madre (ed amica) in lacrime, arriva con la sua borsa da medico, vede il massacro di Samuele, e istintivamente spera che non sia stato un massacro, e diagnostica, compromettendo la propria stessa professionalità, un aneurisma che avrebbe fatto schizzare dovunque nella stanza sangue e brandelli del cervello dello sventurato bambino. Ed ora che Anna Maria Franzoni è condannata con sentenza definitiva a 16 anni di carcere, non sentite come quella pietas trapeli e cerchi di trovare un varco persino tra i meccanismi faticosi della legge? L’indulto, le visite dei figli bambini sei volte al mese - e sono già incominciate - la libertà condizionale fra quattro anni... Perché anche gli uomini e le donne della legge sentono che il carcere non ha senso in una storia come questa: una storia enorme che contiene in sé il gesto della tragedia e il mito, l’oscura voragine conflittuale del sentimento materno intuita fin dalle origini della nostra cultura (da Medea alla Lalla Romano de «Le parole tra noi leggere»); e la sua, se possibile, ancora più atroce “modernizzazione”, nella solitudine simbiotica - tutt’il giorno insieme, madre e bambini, il papà, “ assente giustificato” al lavoro - della casetta delle favole. O del mulinobianco? È stata Luce Irigaray, per prima, credo, a rivendicare, almeno come progetto, un diritto materno. «Occorre interrogarsi - ha scritto- sulla rappresentatività scritta del diritto delle donne. È incredibile ma vero che discorsi teorici e pratici monosessuati possano legiferare e perfino esistere».Ma il diritto materno ancora non esiste. «L’avere acquisito alcuni vantaggi - scriveva Irigaray alla fine degli anni ‘80 - non ha cambiato granchè». Ed elencava il diritto alla contraccezione e all’aborto, la protezione civile (e legale) in caso di violenza sessuale, la penalizzazione di qualsiasi violenza inferta a una donna «in pubblico e in privato», concludendo: «Sono diritti elementari della vita che bisogna iscrivere nei codici per riconoscere le donne come cittadine». Già, e la follia femminile? Anna Maria Franzoni è stata giudicata dai magistrati sana di mente. Ma non è un caso che l’abbozzo di un progetto di diritto materno, peraltro dettagliato, punto per punto, in un altro scritto intitolato «La necessità di diritti sessuati», sia stato collegato, dalla filosofa e psicoanalista belga, al discorso su «Le donne e la pazzia», in occasione di un convegno psichiatrico su questo tema a cui era stata invitata a Montreal nel 1980. Ed a proposito del quale osservava: «Mi stupisce - o meglio non mi stupisce - che tra gli addetti ai lavori siano così pochi gli uomini venuti ad ascoltare quello che le donne hanno da dire sulla propria pazzia. Sembrano ben poco interessati a quello che le donne dicono. Per sapere quello che le riguarda e le cure da prescrivere essi si bastano tra di loro. Non c’è bisogno di ascoltarle, quelle...»
Nella terribile storia di Anna Maria Franzoni qualche indizio o tentativo d’ascolto sensibile, specie da parte delle magistrate, mi sembra vi sia stato. Ma, blindata nel familismo patriarcale che la sostiene, la donna non ha risposto. In quanto alla linea di difesa più recente, pur rafforzata dagli interventi di autorevoli legali - e cioè “l’assenza di motivo” per uccidere il figlio - c’è da chiedersi: quando mai una donna che quel figlio l’ha partorito e poi l’ha ucciso sarebbe in grado di darsene uno? E quando mai noi, osservatori esterni, potremmo individuare una logica plausibile in un gesto simile, se non la logica della Medea di Euripide? Ma quella Medea si invola insieme ai figli bambini su un carro inviatole dal Sole... Non è costretta a subire le maledizioni delle povere detenute del braccio femminile del carcere di Bologna.
Euripide a Cogne
di Adele Cambria
Confesso che l’avevo pensato - ed anche scritto. E so che era facile, ma non era giusto, lasciarsi suggestionare da Euripide e dal mito di Medea, per sentire, visceralmente, se volete, chi era il (la) colpevole nel delitto di Cogne. Ricordate una frase del Coro, in quella tragedia, quando la protagonista annuncia il suo proposito omicida? «Per te, sfortunata figlia di Creonte, quanta pietà...», lamentano le donne. Ed una simile pietas, ma tanto forte e impetuosa da rischiare la complicità, deve essere scattata quella mattina del 30 gennaio 2002, nella pancia e nel cuore di una donna-medico, Ada Satragni; che arriva per il soccorso richiesto da una madre (ed amica) in lacrime, arriva con la sua borsa da medico, vede il massacro di Samuele, e istintivamente spera che non sia stato un massacro, e diagnostica, compromettendo la propria stessa professionalità, un aneurisma che avrebbe fatto schizzare dovunque nella stanza sangue e brandelli del cervello dello sventurato bambino. Ed ora che Anna Maria Franzoni è condannata con sentenza definitiva a 16 anni di carcere, non sentite come quella pietas trapeli e cerchi di trovare un varco persino tra i meccanismi faticosi della legge? L’indulto, le visite dei figli bambini sei volte al mese - e sono già incominciate - la libertà condizionale fra quattro anni... Perché anche gli uomini e le donne della legge sentono che il carcere non ha senso in una storia come questa: una storia enorme che contiene in sé il gesto della tragedia e il mito, l’oscura voragine conflittuale del sentimento materno intuita fin dalle origini della nostra cultura (da Medea alla Lalla Romano de «Le parole tra noi leggere»); e la sua, se possibile, ancora più atroce “modernizzazione”, nella solitudine simbiotica - tutt’il giorno insieme, madre e bambini, il papà, “ assente giustificato” al lavoro - della casetta delle favole. O del mulinobianco? È stata Luce Irigaray, per prima, credo, a rivendicare, almeno come progetto, un diritto materno. «Occorre interrogarsi - ha scritto- sulla rappresentatività scritta del diritto delle donne. È incredibile ma vero che discorsi teorici e pratici monosessuati possano legiferare e perfino esistere».Ma il diritto materno ancora non esiste. «L’avere acquisito alcuni vantaggi - scriveva Irigaray alla fine degli anni ‘80 - non ha cambiato granchè». Ed elencava il diritto alla contraccezione e all’aborto, la protezione civile (e legale) in caso di violenza sessuale, la penalizzazione di qualsiasi violenza inferta a una donna «in pubblico e in privato», concludendo: «Sono diritti elementari della vita che bisogna iscrivere nei codici per riconoscere le donne come cittadine». Già, e la follia femminile? Anna Maria Franzoni è stata giudicata dai magistrati sana di mente. Ma non è un caso che l’abbozzo di un progetto di diritto materno, peraltro dettagliato, punto per punto, in un altro scritto intitolato «La necessità di diritti sessuati», sia stato collegato, dalla filosofa e psicoanalista belga, al discorso su «Le donne e la pazzia», in occasione di un convegno psichiatrico su questo tema a cui era stata invitata a Montreal nel 1980. Ed a proposito del quale osservava: «Mi stupisce - o meglio non mi stupisce - che tra gli addetti ai lavori siano così pochi gli uomini venuti ad ascoltare quello che le donne hanno da dire sulla propria pazzia. Sembrano ben poco interessati a quello che le donne dicono. Per sapere quello che le riguarda e le cure da prescrivere essi si bastano tra di loro. Non c’è bisogno di ascoltarle, quelle...»
Nella terribile storia di Anna Maria Franzoni qualche indizio o tentativo d’ascolto sensibile, specie da parte delle magistrate, mi sembra vi sia stato. Ma, blindata nel familismo patriarcale che la sostiene, la donna non ha risposto. In quanto alla linea di difesa più recente, pur rafforzata dagli interventi di autorevoli legali - e cioè “l’assenza di motivo” per uccidere il figlio - c’è da chiedersi: quando mai una donna che quel figlio l’ha partorito e poi l’ha ucciso sarebbe in grado di darsene uno? E quando mai noi, osservatori esterni, potremmo individuare una logica plausibile in un gesto simile, se non la logica della Medea di Euripide? Ma quella Medea si invola insieme ai figli bambini su un carro inviatole dal Sole... Non è costretta a subire le maledizioni delle povere detenute del braccio femminile del carcere di Bologna.
Thursday, May 22, 2008
«Orrori del passato e violenza popolare»
«Orrori del passato e violenza popolare»
Corriere della Sera del 22 maggio 2008, pag. 17
di Alessandra Muglia
«La caccia alle streghe in Kenya? È simile alla caccia ai rifugiati che si è scatenata in Sudafrica». Ne è convinta la storica Anna Foa, docente all'Università di Roma e autrice, tra l'altro, di Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti (Il Mulino).
Le streghe come gli immigrati dice lei: ma cos'hanno in comune?
«Sono tutti vittime della violenza popolare, una violenza incontrollabile proveniente dal basso che si accanisce contro il diverso. I due casi segnalano una situazione di forte tensione sociale. I moventi, i meccanismi sociali e le paure che ne stanno alla base sono gli stessi. Del resto ci siamo passati anche noi in Europa neanche troppo tempo fa: nel '500-'600 i protestanti scatenarono la caccia alle streghe in periodi turbolenti, durante le rivoluzione inglese e la guerra dei Trent'anni».
E il pensiero magico che ruolo gioca?
«Bruciando la strega si brucia il male che si è impossessato di lei, viene annientato il suo potere di agire. È un atto di purificazione. Buona parte dell'Africa è impregnata di pensiero magico e anche da noi oggi imperversano maghi e astrologhi. Ma, come dire, questo pensiero è spesso neutralizzato, da solo di solito non basta a generare la furia omicida, ci vogliono altri elementi. Le violenze scaricano sul nemico esterno tensioni che hanno poco a che vedere con la stregoneria ».
Le streghe però sono sempre donne.
«Le donne sono considerate streghe in più culture: in quella occidentale- cristiana-europea perché ritenute più deboli e più lontane dalla divinità rispetto all'uomo. In Africa sono viste come tramite del male perché hanno un rapporto più stretto con la natura e i suoi poteri: la guaritrice è anche strega. Ma nei momenti di panico, quando si scatena la violenza popolare per riportare l'ordine, tutti possono essere presi di mira. Anche e soprattutto i bambini».
Come guarda a questi episodi?
«Con orrore. Ho il senso di una modernità incompiuta. Una modernità così piena degli orrori del passato non è una modernità liberata. E temo che non si tratti di residui del passato, di epigoni. Troppo volte lo abbiamo pensato».
Rimedi?
«La pressione internazionale. Sono violenze da reprimere con la forza: questa è una condizione da porre ai governi interessati per poter ricevere aiuti. Questi episodi devono essere considerati così gravi da mettere in crisi l'immagine del Paese. Altro che deviazioni marginali ».
Corriere della Sera del 22 maggio 2008, pag. 17
di Alessandra Muglia
«La caccia alle streghe in Kenya? È simile alla caccia ai rifugiati che si è scatenata in Sudafrica». Ne è convinta la storica Anna Foa, docente all'Università di Roma e autrice, tra l'altro, di Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti (Il Mulino).
Le streghe come gli immigrati dice lei: ma cos'hanno in comune?
«Sono tutti vittime della violenza popolare, una violenza incontrollabile proveniente dal basso che si accanisce contro il diverso. I due casi segnalano una situazione di forte tensione sociale. I moventi, i meccanismi sociali e le paure che ne stanno alla base sono gli stessi. Del resto ci siamo passati anche noi in Europa neanche troppo tempo fa: nel '500-'600 i protestanti scatenarono la caccia alle streghe in periodi turbolenti, durante le rivoluzione inglese e la guerra dei Trent'anni».
E il pensiero magico che ruolo gioca?
«Bruciando la strega si brucia il male che si è impossessato di lei, viene annientato il suo potere di agire. È un atto di purificazione. Buona parte dell'Africa è impregnata di pensiero magico e anche da noi oggi imperversano maghi e astrologhi. Ma, come dire, questo pensiero è spesso neutralizzato, da solo di solito non basta a generare la furia omicida, ci vogliono altri elementi. Le violenze scaricano sul nemico esterno tensioni che hanno poco a che vedere con la stregoneria ».
Le streghe però sono sempre donne.
«Le donne sono considerate streghe in più culture: in quella occidentale- cristiana-europea perché ritenute più deboli e più lontane dalla divinità rispetto all'uomo. In Africa sono viste come tramite del male perché hanno un rapporto più stretto con la natura e i suoi poteri: la guaritrice è anche strega. Ma nei momenti di panico, quando si scatena la violenza popolare per riportare l'ordine, tutti possono essere presi di mira. Anche e soprattutto i bambini».
Come guarda a questi episodi?
«Con orrore. Ho il senso di una modernità incompiuta. Una modernità così piena degli orrori del passato non è una modernità liberata. E temo che non si tratti di residui del passato, di epigoni. Troppo volte lo abbiamo pensato».
Rimedi?
«La pressione internazionale. Sono violenze da reprimere con la forza: questa è una condizione da porre ai governi interessati per poter ricevere aiuti. Questi episodi devono essere considerati così gravi da mettere in crisi l'immagine del Paese. Altro che deviazioni marginali ».
Kenya, quindici donne bruciate vive per stregoneria
Liberazione, 22 Maggio 2008, pagina 11
Kenya, quindici donne bruciate vive per stregoneria
in un villaggio occidentale
Una folla delirante ha ucciso sul rogo quindici donne accusate di stregoneria in un villaggio del Kenya occidentale. Lo hanno riferito fonti ufficiali e testimoni. Un centinaio di persone sono passate casa per casa, legato le vittime e gli hanno dato fuoco. Nella stessa operazione sono state date alle fiamme cinquanta abitazioni del villaggio di Nyakeo, situato circa 300 chilometri a nordovest della capitale Nairobi.
«Ancora non riesco a credere che mia moglie sia stata uccisa da gente che non può presentarsi neanche davanti a Dio», ha detto il marito di una vittima, un pastore di nome Enoch Obiero. «Mia madre è stata sempre un modello per l'intero villaggio. Resterà sempre un mistero per me il perchè l'abbiano uccisa», ha detto Emily Monari, 32 anni. La regione, abitata principalmente dalla tribù kisii, è nota come «la cintura della stregoneria» del Kenya, proprio per episodi analoghi .
22/05/2008
Kenya, quindici donne bruciate vive per stregoneria
in un villaggio occidentale
Una folla delirante ha ucciso sul rogo quindici donne accusate di stregoneria in un villaggio del Kenya occidentale. Lo hanno riferito fonti ufficiali e testimoni. Un centinaio di persone sono passate casa per casa, legato le vittime e gli hanno dato fuoco. Nella stessa operazione sono state date alle fiamme cinquanta abitazioni del villaggio di Nyakeo, situato circa 300 chilometri a nordovest della capitale Nairobi.
«Ancora non riesco a credere che mia moglie sia stata uccisa da gente che non può presentarsi neanche davanti a Dio», ha detto il marito di una vittima, un pastore di nome Enoch Obiero. «Mia madre è stata sempre un modello per l'intero villaggio. Resterà sempre un mistero per me il perchè l'abbiano uccisa», ha detto Emily Monari, 32 anni. La regione, abitata principalmente dalla tribù kisii, è nota come «la cintura della stregoneria» del Kenya, proprio per episodi analoghi .
22/05/2008
Vivere, curarsi, morire La lezione degli antichi e i pregiudizi moderni
Corriere della Sera 22.5.08
Raccolta di scritti a cura di Anacleto Postiglione
Vivere, curarsi, morire La lezione degli antichi e i pregiudizi moderni
di Eva Cantarella
Il suicidio non era considerato un atto di codardia, ma di coraggio. Il giudizio spesso dipendeva dall'arma scelta
Quanto i nostri antenati greci e romani fossero diversi da noi, da molti punti di vista, è cosa spesso dimenticata. Al mondo antico e ai suoi valori si usa far riferimento, più spesso, per mettere in luce discendenze e continuità, impoverendo la complessità del rapporto con un passato per alcune cose ancora vicino, per altre invece irrimediabilmente lontano. A dimo-strarlo, molto efficacemente, è in libreria da alcuni giorni la raccolta di testi curata da Anacleto Postiglione intitolata Della bella morte. Tra eroismo, onore, dignità: la libertà di morire nel mondo antico
(Bur). Sono testi importanti, che rimandano a temi (il suicidio, l'eutanasia, l'aborto) sui quali lo sguardo degli antichi era molto diverso dal nostro. A determinare il cambiamento, ovviamente, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo.
Molto opportunamente, nella introduzione, Postiglione ricorda le prese di posizione della Chiesa cattolica su questi argomenti, a partire da un documento firmato il 5 maggio 1980 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, che affermava tassativamente il carattere sacro della vita, dal suo concepimento alla morte naturale, con conseguente condanna del suicidio e dell'eutanasia. Per non parlare delle implicazioni di queste prese di posizione sull'aborto, sul quale il Papa è tornato recentemente, a Vienna, l'8 settembre del 2007, per ribadire che non può essere considerato un diritto naturale. Così come non può essere accettato un aiuto a morire. Argomento, quest'ultimo, sul quale — come ricorda Postiglione — poche settimane prima di morire si interrogava Indro Montanelli, nella «Stanza» che teneva su questo giornale: fermo restando l'ovvio diritto della Chiesa di restare fedele alla sua dottrina, è giusto che questa sia imposta a non credenti, laici, agnostici e seguaci di altre religioni?
Ma veniamo ai greci e ai romani. Il suicidio non era un atto di codardia, ma di coraggio. Per gli stoici, in particolare, era il supremo atto di dignità. Quando la vita è ridotta a sofferenza senza scampo non bisogna «mendicare l'esistenza», diceva Seneca; e nel De ira scriveva: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo». Coerentemente dunque, nel 65 d.C., accusato di aver partecipato a una congiura contro Nerone, pose fine alla vita tagliandosi le vene. Ma attenzione, non tutti i suicidi erano nobili: il giudizio sociale dipendeva dal mezzo. L'impiccagione, ad esempio, era disonorevole. Il dissanguamento invece era una morte degna, come quella per inedia, con il veleno e con il
laqueum, il laccio che, nascosto nelle vesti, consentiva di strangolarsi, evitando l'infamia di morire uccisi. Ma l'arma più nobile era la spada, simbolo virile per eccellenza. E se per caso un uomo esitava a impugnarla, a ricordargli il suo dovere di romano era la moglie. Come fece la celebre Arria, modello di ogni virtù femminile. Il marito di Arria, Cecina Peto, coinvolto in una congiura contro Claudio, era stato condannato a morte: ma esitava a fare il suo dovere. Arria allora, per incoraggiarlo, afferrò la spada, se la conficcò nel ventre e prima di cadere al suolo disse al marito: Pete, non dolet (Peto, non fa male!).
Passando all'aborto: giustamente messo in evidenza da Postiglione, ecco un passaggio del «giuramento del medico» di Ippocrate: «Neppure se richiesto darò a qualcuno un veleno mortale, né lo prescriverò; ugualmente non darò mai a una donna un veleno abortivo». Precetto interessante, va detto, in un mondo nel quale i mariti, se sospettavano che il figlio non fosse loro, o semplicemente se non volevano quel figlio, potevano obbligare la moglie ad abortire, così come potevano fare, e facevano, i padri di figlie nubili venute meno al loro dovere di castità... Varrebbe la pena riflettere sul punto, se ce ne fosse il tempo. E per finire un'osservazione di Postiglione a proposito dell'eutanasia: «La differenza tra gli antichi e noi non è di natura concettuale, ma di natura tecnica. Gli antichi non disponevano di macchine per prolungare artificialmente la vita. Oggi invece c'è la possibilità di prolungare la vita vegetativa per un tempo indefinito, e tenere il morente in un sonno senza risveglio, in uno stato di sospensione tra la vita e la morte». Non credo sia necessario insistere ulteriormente sull'interesse di questa raccolta. Chi leggerà quei testi se ne renderà conto da solo.
Raccolta di scritti a cura di Anacleto Postiglione
Vivere, curarsi, morire La lezione degli antichi e i pregiudizi moderni
di Eva Cantarella
Il suicidio non era considerato un atto di codardia, ma di coraggio. Il giudizio spesso dipendeva dall'arma scelta
Quanto i nostri antenati greci e romani fossero diversi da noi, da molti punti di vista, è cosa spesso dimenticata. Al mondo antico e ai suoi valori si usa far riferimento, più spesso, per mettere in luce discendenze e continuità, impoverendo la complessità del rapporto con un passato per alcune cose ancora vicino, per altre invece irrimediabilmente lontano. A dimo-strarlo, molto efficacemente, è in libreria da alcuni giorni la raccolta di testi curata da Anacleto Postiglione intitolata Della bella morte. Tra eroismo, onore, dignità: la libertà di morire nel mondo antico
(Bur). Sono testi importanti, che rimandano a temi (il suicidio, l'eutanasia, l'aborto) sui quali lo sguardo degli antichi era molto diverso dal nostro. A determinare il cambiamento, ovviamente, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo.
Molto opportunamente, nella introduzione, Postiglione ricorda le prese di posizione della Chiesa cattolica su questi argomenti, a partire da un documento firmato il 5 maggio 1980 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, che affermava tassativamente il carattere sacro della vita, dal suo concepimento alla morte naturale, con conseguente condanna del suicidio e dell'eutanasia. Per non parlare delle implicazioni di queste prese di posizione sull'aborto, sul quale il Papa è tornato recentemente, a Vienna, l'8 settembre del 2007, per ribadire che non può essere considerato un diritto naturale. Così come non può essere accettato un aiuto a morire. Argomento, quest'ultimo, sul quale — come ricorda Postiglione — poche settimane prima di morire si interrogava Indro Montanelli, nella «Stanza» che teneva su questo giornale: fermo restando l'ovvio diritto della Chiesa di restare fedele alla sua dottrina, è giusto che questa sia imposta a non credenti, laici, agnostici e seguaci di altre religioni?
Ma veniamo ai greci e ai romani. Il suicidio non era un atto di codardia, ma di coraggio. Per gli stoici, in particolare, era il supremo atto di dignità. Quando la vita è ridotta a sofferenza senza scampo non bisogna «mendicare l'esistenza», diceva Seneca; e nel De ira scriveva: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo». Coerentemente dunque, nel 65 d.C., accusato di aver partecipato a una congiura contro Nerone, pose fine alla vita tagliandosi le vene. Ma attenzione, non tutti i suicidi erano nobili: il giudizio sociale dipendeva dal mezzo. L'impiccagione, ad esempio, era disonorevole. Il dissanguamento invece era una morte degna, come quella per inedia, con il veleno e con il
laqueum, il laccio che, nascosto nelle vesti, consentiva di strangolarsi, evitando l'infamia di morire uccisi. Ma l'arma più nobile era la spada, simbolo virile per eccellenza. E se per caso un uomo esitava a impugnarla, a ricordargli il suo dovere di romano era la moglie. Come fece la celebre Arria, modello di ogni virtù femminile. Il marito di Arria, Cecina Peto, coinvolto in una congiura contro Claudio, era stato condannato a morte: ma esitava a fare il suo dovere. Arria allora, per incoraggiarlo, afferrò la spada, se la conficcò nel ventre e prima di cadere al suolo disse al marito: Pete, non dolet (Peto, non fa male!).
Passando all'aborto: giustamente messo in evidenza da Postiglione, ecco un passaggio del «giuramento del medico» di Ippocrate: «Neppure se richiesto darò a qualcuno un veleno mortale, né lo prescriverò; ugualmente non darò mai a una donna un veleno abortivo». Precetto interessante, va detto, in un mondo nel quale i mariti, se sospettavano che il figlio non fosse loro, o semplicemente se non volevano quel figlio, potevano obbligare la moglie ad abortire, così come potevano fare, e facevano, i padri di figlie nubili venute meno al loro dovere di castità... Varrebbe la pena riflettere sul punto, se ce ne fosse il tempo. E per finire un'osservazione di Postiglione a proposito dell'eutanasia: «La differenza tra gli antichi e noi non è di natura concettuale, ma di natura tecnica. Gli antichi non disponevano di macchine per prolungare artificialmente la vita. Oggi invece c'è la possibilità di prolungare la vita vegetativa per un tempo indefinito, e tenere il morente in un sonno senza risveglio, in uno stato di sospensione tra la vita e la morte». Non credo sia necessario insistere ulteriormente sull'interesse di questa raccolta. Chi leggerà quei testi se ne renderà conto da solo.
Tuesday, May 20, 2008
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
la Repubblica 20.5.08
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale
Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno
La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola
Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale
Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno
La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.
Thursday, May 15, 2008
Halloween diventa giorno di memoria
Liberazione, 31/10/2007
Halloween diventa giorno di memoria
L'Inquisizione e le "streghe" sue vittime
Federico Raponi
Nove milioni le vittime dell'Inquisizione, in poco meno di tre secoli. L'85% erano donne. I numeri - anche per approssimazione - parlano chiaro, e mettono i brividi. E le donne hanno deciso che il 31 ottobre - in concomitanza con la festa pagana di Halloween - sia giornata di commemorazione. In varie parti d'Italia verranno ricordate zle antenate cadute sotto la macchina omicida dell'Inquisizione e dei poteri temporali dei secoli passati», e due di queste iniziative avranno carattere anche istituzionale. A Firenze (presso l'Istituto degli Innocenti), il primo appuntamento di "Inchiostro Rosa" - rassegna di scrittura contemporanea sulla presenza femminile nella letteratura e nella storia - è dedicato al tema della caccia alle streghe. In programma, interventi di studiosi seguiti dalla lettura teatrale degli atti del "processo alle streghe di Triora" a cura di Paolo Bussagli a Carolina Gentili. A Perugia invece, sotto il titolo "Olocausto femminile - per non dimenticare", alla libreria Feltrinelli è prevista la lettura di brani tratti dal libro "La Settima Strega" di Paola Zannoner, mentre in Piazza della Repubblica si svolgerà lo spettacolo di arte circense "Psichè" di Viola Bruni. In entrambe le città sarà proiettato il documentario "I Tempi dei roghi" (the Burning times) di Donna Read.
31/10/2007
Halloween diventa giorno di memoria
L'Inquisizione e le "streghe" sue vittime
Federico Raponi
Nove milioni le vittime dell'Inquisizione, in poco meno di tre secoli. L'85% erano donne. I numeri - anche per approssimazione - parlano chiaro, e mettono i brividi. E le donne hanno deciso che il 31 ottobre - in concomitanza con la festa pagana di Halloween - sia giornata di commemorazione. In varie parti d'Italia verranno ricordate zle antenate cadute sotto la macchina omicida dell'Inquisizione e dei poteri temporali dei secoli passati», e due di queste iniziative avranno carattere anche istituzionale. A Firenze (presso l'Istituto degli Innocenti), il primo appuntamento di "Inchiostro Rosa" - rassegna di scrittura contemporanea sulla presenza femminile nella letteratura e nella storia - è dedicato al tema della caccia alle streghe. In programma, interventi di studiosi seguiti dalla lettura teatrale degli atti del "processo alle streghe di Triora" a cura di Paolo Bussagli a Carolina Gentili. A Perugia invece, sotto il titolo "Olocausto femminile - per non dimenticare", alla libreria Feltrinelli è prevista la lettura di brani tratti dal libro "La Settima Strega" di Paola Zannoner, mentre in Piazza della Repubblica si svolgerà lo spettacolo di arte circense "Psichè" di Viola Bruni. In entrambe le città sarà proiettato il documentario "I Tempi dei roghi" (the Burning times) di Donna Read.
31/10/2007
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo
Liberazione, 15 maggio 2008, Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa
Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa. Ottenute le informazioni necessarie, Menelao chiede, e ottiene, la verità sul destino degli altri eroi greci ritornati da Troia: apprende così della tragica fine di Aiace e Agamennone e dell'esilio di Odisseo.
Il mito di Proteo è stato interpretato come allegoria della conoscenza: "afferrare Proteo" significa ricondurre entro forme stabili quel reale che continuamente si trasforma, che si tratti di saper comprendere i mutamenti sociali che attraversavano l'Emilia degli anni Sessanta (così Togliatti, la cui penna era imbevuta di dotte citazioni tanto quanto le sue mani del sangue degli anarchici e dei trotzskisti), di ricondurre ad unità giuridica le molte tipologie dei contratti di lavoro (il giuslavorista Ghezzi) o unificare le diverse anime della sinistra. Afferrare Proteo indica l'azione con la quale la mente afferra, unificandolo, il reale.
Resta però sullo sfondo la dimensione narrativa del mito. La vicenda di Proteo e Menelao è infatti un racconto che Menelao fa a Telemaco; all'interno di questo racconto è a sua volta inserito il racconto della strategia da attuare che Eidotea fa a Menelao; Proteo si piega al vincitore raccontandogli il futuro, ma anche ciò che Menelao non è in grado di apprendere con i propri occhi, e che a sua volta viene narrato a Telemaco. Questa catena di racconti parte dagli dèi che hanno una visione d'insieme di quel tutto che appare proteiforme: la trasmissione di questo sapere è un parlare che trasforma una conoscenza altrimenti impotente. Il raccontare è un cogliere che mette in moto un'azione: un sapere performativo.
In tempi recenti questa necessità del raccontare per agire è presente nell'ultimo lavoro di Aldo Bonomi, Il rancore (Feltrinelli, 2008), che rimarca la necessità di saper raccontare la società per poter «fare società». Anche Zygmunt Bauman in Paura liquida (Laterza, 2008) ha insistito sulla necessità di scongiurare la «catastrofe inevitabile» narrandola «nel modo più appassionato e rumorosamente possibile».
Cercare di cogliere il molteplice con un colpo d'occhio è un gesto che si oppone al postmodernismo volgare, che si ferma al mero almanaccare degli eventi, assumendoli come oggetti naturali senza indagarne né criticarne la genesi (naturalismo ingenuo che ignora l'esistenza di una seconda natura). Una variante del postmodernismo volgare è l'idea che tutto sia rappresentazione, che dietro i fenomeni non vi sia alcunché di concreto: quando tutto è seconda natura, la realtà ingenua messa alla porta rientra dalla finestra, mentre il critico si compiace del suo lessico forbito. Che "tutto sia forma" o "rappresentazione", o che tutto sia natura ingenuamente assunta sono due facce della stessa medaglia: in qualche caso anything goes , in qualche altro non tutto va bene, ma in fondo potrebbe...
Da qualche anno a questa parte accade che in Italia alcuni scrittori abbiano fatto proprio un atteggiamento critico nei confronti del mondo: e per criticarlo cercano di afferrarlo, di far violenza alla sua sfuggente natura. Spesso questa attitudine a mordere il reale è stata confinata nella letteratura di genere, perché è un fatto che i generi si sono mostrati più adatti a praticare il conflitto, proprio come la sovversione del realismo ottocentesco ha beneficiato di un lungo scavo sotterraneo nei luoghi carsici del gotico. In prima battuta, direi che ciò che questi autori hanno in comune è il prendere sul serio il proprio lavoro. Per contro, i narratori dell'ultima generazione tendono a non prendere sul serio la critica letteraria italiana: e a furia di non prendere sul serio il vuoto pneumatico che la critica (salvo poche eccezioni) esprime, alcuni di questi scrittori, colti da horror vacui , hanno cominciato a lavorare anche sul versante della critica. Uno di questi è Wu Ming 1, che ha cercato di "afferrare Proteo" articolando alcune caratteristiche che danno forma a quello che ha denominato New Italian Epic .
È bene spazzare il campo da un fraintendimento: avere una visione d'insieme non significa imporre canoni normativi. La scienza moderna conosce l'esistenza di "sistemi deterministici non lineari" o "caotici", nei quali la vecchia contraddizione tra libertà e determinismo è caduta, nei quali comportamenti casuali danno luogo a figurazioni descrivibili matematicamente. Io credo che questo modo di "afferrare Proteo" sia qualcosa del genere: coglie una curva che collega movimenti narrativi stocastici, casuali, tra loro indipendenti.
Queste caratteristiche sono: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno (un impasto di ironia a tutti i costi e di deresponsabilizzazione autoriale); uno "sguardo obliquo", azzardato, sul mondo; il connubio di complessità narrativa e attitudine popular ; la presenza di storie alternative, di ucronie potenziali; la sovversione "nascosta" di linguaggio e stile; la mutazione del genere romanzesco in "oggetti narrativi non identificati" (U.N.O.), non codificabili, sfuggenti; il rinvio a una dimensione extra-testuale o transmediale.
A queste caratteristiche io aggiungerei l'attenzione al contesto urbano, e l'essere scrittori "col culo in strada".
L'attenzione al contesto urbano non implica necessariamente un carattere "realistico" del narrato: il contesto urbano può essere un luogo della memoria, come la Dublino del Ulysses (o, si parva licet , la Bologna del mio Scirocco ), così come un luogo immaginario può essere descritto come una città "reale" (la Vigata di Camilleri). Nel noir italiano il contesto urbano è continuamente attraversato da transiti, linee di fuga, conflitti: è uno spazio non omogeneo, ma granulare, più denso in alcuni punti, più fluido in altri. La Milano-Quarto Oggiaro di Biondillo e i quartieri romani di De Cataldo ne sono un esempio.
"Scrittori col culo in strada": pochissimi degli scrittori dell'ultima generazione vivono esclusivamente del proprio mestiere letterario: nella maggior parte dei casi sono, volenti o nolenti, costretti ad immergersi all'interno di contesti lavorativi "altri" (fabbriche, scuole, uffici pubblici o privati, palestre, biblioteche, locali musicali), a frequentare molti più ambienti, e molto più differenziati, di altri "scrittori laureati" che, frequentandosi tra di loro all'interno dei propri salotti (metaforici o reali), finiscono per parlare sempre dello stesso piccolo mondo. Sia chiaro, non c'è nulla di rivoluzionario: erano scrittori col culo in strada Dante, Boccaccio, Ariosto, Michelangelo, Manzoni, Pasolini.
Se dovessi sintetizzare le caratteristiche elencate, direi che la principale è il prendere sul serio il proprio mestiere, la propria lingua e i propri contenuti, e il lettore che li legge. Prendere sul serio significa non cercare sponde al consolatorio, farsi carico del portato etico implicito nel proprio narrare. Un esempio. In Testimone inconsapevole (Sellerio, 2004) di Carofiglio la questione migrante è posta in modo assolutamente consolatorio: sembra di capire che se ciascuno facesse il proprio dovere, se ci fosse scrupolo e serietà nell'applicazione del diritto non ci sarebbero errori giudiziari, e forse neanche una questione migrante. Per fortuna prima o poi arriva un brav'uomo che rimette le cose al loro posto: nei gialli di Carofiglio si assiste, sotto mentite spoglie, all'apologia del connubio Legge-Ordine, senza che vengano mai sfiorate le ragioni di sistema che producono il migrante-deviante. Al contrario, ne Il giovane sbirro (Guanda, 2007) di Biondillo appare chiaro che l'eccezione, date le condizioni di sistema, non è il migrante finito in quei Lager che chiamiamo Centri di permanenza temporanea: il problema è semmai, dato un sistema criminogeno che necessariamente produce devianza sociale, perché ci siano migranti che non sono incarcerati nei Cpt. Diceva Manchette: nel noir «la lotta di classe non è assente come nel romanzo ad enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Il romanzo italiano dell'ultima generazione mostra un'esplicita consapevolezza di questa catastrofe. Basta pensare ad Ammaniti: i suoi romanzi sono la descrizione delle forse irredimibili rovine lasciate dal conflitto di classe, sulle quali si agitano gli sconfitti, i reietti, gli esclusi.
Nella nota conclusiva del suo romanzo ucronico Il signor figlio (Mondadori, 2007), Alessandro Zaccuri si fa vanto di aver violato il precetto di Monaldo Leopardi: «Meglio è tacere una storia, che narrarla ingombrata di fole». In un'Italia che sempre più assomiglia a quella desiderata dal conte Monaldo, la pecora bianca della famiglia Leopardi, disobbedire ai suoi precetti è ben più che un vezzo: è un dovere etico.
15/05/2008
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa
Girolamo De Michele
Nell'Odissea viene narrato l'incontro tra Proteo, dio capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela attraverso quale via fare ritorno a casa. Ottenute le informazioni necessarie, Menelao chiede, e ottiene, la verità sul destino degli altri eroi greci ritornati da Troia: apprende così della tragica fine di Aiace e Agamennone e dell'esilio di Odisseo.
Il mito di Proteo è stato interpretato come allegoria della conoscenza: "afferrare Proteo" significa ricondurre entro forme stabili quel reale che continuamente si trasforma, che si tratti di saper comprendere i mutamenti sociali che attraversavano l'Emilia degli anni Sessanta (così Togliatti, la cui penna era imbevuta di dotte citazioni tanto quanto le sue mani del sangue degli anarchici e dei trotzskisti), di ricondurre ad unità giuridica le molte tipologie dei contratti di lavoro (il giuslavorista Ghezzi) o unificare le diverse anime della sinistra. Afferrare Proteo indica l'azione con la quale la mente afferra, unificandolo, il reale.
Resta però sullo sfondo la dimensione narrativa del mito. La vicenda di Proteo e Menelao è infatti un racconto che Menelao fa a Telemaco; all'interno di questo racconto è a sua volta inserito il racconto della strategia da attuare che Eidotea fa a Menelao; Proteo si piega al vincitore raccontandogli il futuro, ma anche ciò che Menelao non è in grado di apprendere con i propri occhi, e che a sua volta viene narrato a Telemaco. Questa catena di racconti parte dagli dèi che hanno una visione d'insieme di quel tutto che appare proteiforme: la trasmissione di questo sapere è un parlare che trasforma una conoscenza altrimenti impotente. Il raccontare è un cogliere che mette in moto un'azione: un sapere performativo.
In tempi recenti questa necessità del raccontare per agire è presente nell'ultimo lavoro di Aldo Bonomi, Il rancore (Feltrinelli, 2008), che rimarca la necessità di saper raccontare la società per poter «fare società». Anche Zygmunt Bauman in Paura liquida (Laterza, 2008) ha insistito sulla necessità di scongiurare la «catastrofe inevitabile» narrandola «nel modo più appassionato e rumorosamente possibile».
Cercare di cogliere il molteplice con un colpo d'occhio è un gesto che si oppone al postmodernismo volgare, che si ferma al mero almanaccare degli eventi, assumendoli come oggetti naturali senza indagarne né criticarne la genesi (naturalismo ingenuo che ignora l'esistenza di una seconda natura). Una variante del postmodernismo volgare è l'idea che tutto sia rappresentazione, che dietro i fenomeni non vi sia alcunché di concreto: quando tutto è seconda natura, la realtà ingenua messa alla porta rientra dalla finestra, mentre il critico si compiace del suo lessico forbito. Che "tutto sia forma" o "rappresentazione", o che tutto sia natura ingenuamente assunta sono due facce della stessa medaglia: in qualche caso anything goes , in qualche altro non tutto va bene, ma in fondo potrebbe...
Da qualche anno a questa parte accade che in Italia alcuni scrittori abbiano fatto proprio un atteggiamento critico nei confronti del mondo: e per criticarlo cercano di afferrarlo, di far violenza alla sua sfuggente natura. Spesso questa attitudine a mordere il reale è stata confinata nella letteratura di genere, perché è un fatto che i generi si sono mostrati più adatti a praticare il conflitto, proprio come la sovversione del realismo ottocentesco ha beneficiato di un lungo scavo sotterraneo nei luoghi carsici del gotico. In prima battuta, direi che ciò che questi autori hanno in comune è il prendere sul serio il proprio lavoro. Per contro, i narratori dell'ultima generazione tendono a non prendere sul serio la critica letteraria italiana: e a furia di non prendere sul serio il vuoto pneumatico che la critica (salvo poche eccezioni) esprime, alcuni di questi scrittori, colti da horror vacui , hanno cominciato a lavorare anche sul versante della critica. Uno di questi è Wu Ming 1, che ha cercato di "afferrare Proteo" articolando alcune caratteristiche che danno forma a quello che ha denominato New Italian Epic .
È bene spazzare il campo da un fraintendimento: avere una visione d'insieme non significa imporre canoni normativi. La scienza moderna conosce l'esistenza di "sistemi deterministici non lineari" o "caotici", nei quali la vecchia contraddizione tra libertà e determinismo è caduta, nei quali comportamenti casuali danno luogo a figurazioni descrivibili matematicamente. Io credo che questo modo di "afferrare Proteo" sia qualcosa del genere: coglie una curva che collega movimenti narrativi stocastici, casuali, tra loro indipendenti.
Queste caratteristiche sono: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno (un impasto di ironia a tutti i costi e di deresponsabilizzazione autoriale); uno "sguardo obliquo", azzardato, sul mondo; il connubio di complessità narrativa e attitudine popular ; la presenza di storie alternative, di ucronie potenziali; la sovversione "nascosta" di linguaggio e stile; la mutazione del genere romanzesco in "oggetti narrativi non identificati" (U.N.O.), non codificabili, sfuggenti; il rinvio a una dimensione extra-testuale o transmediale.
A queste caratteristiche io aggiungerei l'attenzione al contesto urbano, e l'essere scrittori "col culo in strada".
L'attenzione al contesto urbano non implica necessariamente un carattere "realistico" del narrato: il contesto urbano può essere un luogo della memoria, come la Dublino del Ulysses (o, si parva licet , la Bologna del mio Scirocco ), così come un luogo immaginario può essere descritto come una città "reale" (la Vigata di Camilleri). Nel noir italiano il contesto urbano è continuamente attraversato da transiti, linee di fuga, conflitti: è uno spazio non omogeneo, ma granulare, più denso in alcuni punti, più fluido in altri. La Milano-Quarto Oggiaro di Biondillo e i quartieri romani di De Cataldo ne sono un esempio.
"Scrittori col culo in strada": pochissimi degli scrittori dell'ultima generazione vivono esclusivamente del proprio mestiere letterario: nella maggior parte dei casi sono, volenti o nolenti, costretti ad immergersi all'interno di contesti lavorativi "altri" (fabbriche, scuole, uffici pubblici o privati, palestre, biblioteche, locali musicali), a frequentare molti più ambienti, e molto più differenziati, di altri "scrittori laureati" che, frequentandosi tra di loro all'interno dei propri salotti (metaforici o reali), finiscono per parlare sempre dello stesso piccolo mondo. Sia chiaro, non c'è nulla di rivoluzionario: erano scrittori col culo in strada Dante, Boccaccio, Ariosto, Michelangelo, Manzoni, Pasolini.
Se dovessi sintetizzare le caratteristiche elencate, direi che la principale è il prendere sul serio il proprio mestiere, la propria lingua e i propri contenuti, e il lettore che li legge. Prendere sul serio significa non cercare sponde al consolatorio, farsi carico del portato etico implicito nel proprio narrare. Un esempio. In Testimone inconsapevole (Sellerio, 2004) di Carofiglio la questione migrante è posta in modo assolutamente consolatorio: sembra di capire che se ciascuno facesse il proprio dovere, se ci fosse scrupolo e serietà nell'applicazione del diritto non ci sarebbero errori giudiziari, e forse neanche una questione migrante. Per fortuna prima o poi arriva un brav'uomo che rimette le cose al loro posto: nei gialli di Carofiglio si assiste, sotto mentite spoglie, all'apologia del connubio Legge-Ordine, senza che vengano mai sfiorate le ragioni di sistema che producono il migrante-deviante. Al contrario, ne Il giovane sbirro (Guanda, 2007) di Biondillo appare chiaro che l'eccezione, date le condizioni di sistema, non è il migrante finito in quei Lager che chiamiamo Centri di permanenza temporanea: il problema è semmai, dato un sistema criminogeno che necessariamente produce devianza sociale, perché ci siano migranti che non sono incarcerati nei Cpt. Diceva Manchette: nel noir «la lotta di classe non è assente come nel romanzo ad enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Il romanzo italiano dell'ultima generazione mostra un'esplicita consapevolezza di questa catastrofe. Basta pensare ad Ammaniti: i suoi romanzi sono la descrizione delle forse irredimibili rovine lasciate dal conflitto di classe, sulle quali si agitano gli sconfitti, i reietti, gli esclusi.
Nella nota conclusiva del suo romanzo ucronico Il signor figlio (Mondadori, 2007), Alessandro Zaccuri si fa vanto di aver violato il precetto di Monaldo Leopardi: «Meglio è tacere una storia, che narrarla ingombrata di fole». In un'Italia che sempre più assomiglia a quella desiderata dal conte Monaldo, la pecora bianca della famiglia Leopardi, disobbedire ai suoi precetti è ben più che un vezzo: è un dovere etico.
15/05/2008
Sunday, May 11, 2008
La giustizia di Afrodite di James Hillman
La giustizia di Afrodite di James Hillman
"Non c’è bisogno di leggere la Repubblica di Platone, e neppure il Fedro o il Simposio, per sapere che secondo gli antichi greci la bellezza e la bontà erano la stessa cosa. Anzi, la stessa parola. C’è una specifica espressione in greco, kalokagathòs, 'bello e buono', per esprimere la loro indissolubilità. Più propriamente, nella teologia globale degli antichi che oggi diciamo platonica, la bontà è la forma interiore, la bellezza la forma esteriore di quello che metafisicamente può definirsi il bene o anche la divinità. Ma che possiamo, se siamo belli, e cioè buoni, o buoni, e cioè belli, trasferire nel mondo empirico. Questo indissolubile legame tra la sfera estetica e quella etica, proprio della teologia pagana, verrà, si dice, spezzato, nella storia del pensiero antico, dal cristianesimo. Che produrrà, si dice, un divorzio tra i due princìpi e sarà responsabile di alcuni pregiudizi ancora oggi presenti nella nostra cultura. Per esempio, che una grande bellezza fisica escluda un’interiorità intellettuale profonda. Non è vero. Il cristianesimo ha anzi sviluppato e proseguito, per vie sempre più alte e impervie, la concezione platonica, l’ha traghettata fino alla modernità. L’identità tra la sfera etica e quella estetica si è perpetuata a tal punto, nel pensiero greco e bizantino, che la rispecchia l’evoluzione stessa della lingua: quella parola kalòs, che nel greco classico significava 'bello', ha cominciato a significare, e ancora oggi in greco moderno significa, 'buono'. Ed è proprio lo sviluppo della concezione platonica a Bisanzio, e in particolare il suo esito in ciò che chiamiamo la teologia dell’icona, a spiegare meglio la frase di Dostoevskij: 'La bellezza salverà il mondo'. Questo era già, in un certo senso, il principio fondamentale dell’estetica bizantina. Per i padri della Chiesa ortodossa, l’icona di per sé salva, porta verso l’alto e la luce, è l’interfaccia tra il visibile e l’invisibile e la dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a contatto. Ora, nell’icona la figura umana viene reinventata. I tratti sono
asciugati e privi di sensualità. La fisionomia della persona ritratta nell’icona è esattamente il contrario di quella apprezzata dalla comune umanità vivente. Che sia uomo o donna, il naso è lungo e ossuto, la bocca piccola. E’ imperativo che le labbra siano sottili, e non si vedranno mai, in un’icona, labbra carnose. E’ il viso di chi è 'uscito dal mondo'. E’ un viso distaccato, con le sopracciglia arcuate in un’espressione impassibile e insieme lievemente interrogativa. E’ un viso ascetico, anoressico, con qualcosa di lievemente mortuario nelle occhiaie profonde, nell’evidenza delle ossa sotto la pelle sottile. Un viso su cui la lotta dell’esistenza, le convulsioni dell’intelligenza, gli spasmi dell’insonnia hanno lasciato traccia. Per questo non mancano mai, nelle icone, le rughe, supremo segno di bellezza. Il volto di un’icona non sarà mai liscio, perché esprime un ideale che è esattamente il contrario di quello perseguito nelle nostre icone contemporanee, dal cinema, dalla pubblicità: esprimere il superamento del mondo esterno, il valore di un’interiorità conquistata calandosi nel mistero che trascende la carne ma è immanente alla psiche. Ma non è forse proprio questa la visione che Platone aveva della bellezza? Non era forse proprio Platone a mettere in guardia dalle immagini che della bellezza umana davano i suoi contemporanei? A condannare, anzi, l’immagine, scorgendovi una deviazione da ciò cui l’anima umana deve tendere, dalla bellezza dell’iperuranio, da quella bellezza assoluta che è anche bontà? Tutto sta a intendersi, dunque, su cosa sia la bellezza, anche proprio fisica, secondo quell’unica teologia globale degli antichi che si protrae lungo il millennio bizantino e si cristianizza nelle forme più alte della speculazione. Per capire veramente l’idea di bellezza per gli antichi dobbiamo prescindere dall’associazione automatica che a volte facciamo, quando pensiamo al mondo greco, tra filosofia platonica e statuaria classica. La bellezza anche fisica di cui parla il platonismo, quando la identifica con la bontà, è quella che oggi manca di più al mondo: la bellezza interiore che si presenta nell’immagine esteriore (in greco eikone) di un volto o di un corpo umano agli occhi che la sanno cogliere. Non la bellezza patinata, ridotta alla propria superficie e dunque alla superficialità, ma la bellezza come espressione di un ordine insieme interioree superiore. Quando parliamo oggi di 'cosmetica', spesso proprio in associazione alla falsa bellezza celebrata dai media, a quella che James Hillman ha chiamato la 'pornografizzazione di Afrodite', spesso dimentichiamo che quella parola viene dal greco kosmos, l’ordine che per definizione accomuna e unisce l’interiorità individuale alla legge del mondo in un’armonia che è anche sensibile, estetica. 'Il cosmo stellato sopra di me, la legge morale in me', si meraviglierà Kant. Ma è per questo che alla dea della bellezza, Afrodite, gli antichi associavano anche quella particolare forma di giustizia, che Hillman ha analizzato nel suo ultimo saggio ora in uscita per La Conchiglia, La giustizia di Afrodite. La bellezza come giustizia, intesa cioè, nelle parole di Hillman, come adeguatezza, giusta collocazione, ordine; e la giustizia come suprema bellezza. Non è un caso che anche lei sia compresa nella triade essenziale: non solo la bontà ma anche la giustizia compongono il paradigma della vera bellezza, completando quell’identificazione tra sfera estetica e sfera etica che tutto il pensiero antico, anche quello cristianizzato, non farà che riaffermare. Come scrive Agostino: 'Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu eri dentro e io ero fuori e là ti cercavo'." (da Silvia Ronchey, Ma se è kalòs è anche buono, "TuttoLibri", "La Stampa",
"Non c’è bisogno di leggere la Repubblica di Platone, e neppure il Fedro o il Simposio, per sapere che secondo gli antichi greci la bellezza e la bontà erano la stessa cosa. Anzi, la stessa parola. C’è una specifica espressione in greco, kalokagathòs, 'bello e buono', per esprimere la loro indissolubilità. Più propriamente, nella teologia globale degli antichi che oggi diciamo platonica, la bontà è la forma interiore, la bellezza la forma esteriore di quello che metafisicamente può definirsi il bene o anche la divinità. Ma che possiamo, se siamo belli, e cioè buoni, o buoni, e cioè belli, trasferire nel mondo empirico. Questo indissolubile legame tra la sfera estetica e quella etica, proprio della teologia pagana, verrà, si dice, spezzato, nella storia del pensiero antico, dal cristianesimo. Che produrrà, si dice, un divorzio tra i due princìpi e sarà responsabile di alcuni pregiudizi ancora oggi presenti nella nostra cultura. Per esempio, che una grande bellezza fisica escluda un’interiorità intellettuale profonda. Non è vero. Il cristianesimo ha anzi sviluppato e proseguito, per vie sempre più alte e impervie, la concezione platonica, l’ha traghettata fino alla modernità. L’identità tra la sfera etica e quella estetica si è perpetuata a tal punto, nel pensiero greco e bizantino, che la rispecchia l’evoluzione stessa della lingua: quella parola kalòs, che nel greco classico significava 'bello', ha cominciato a significare, e ancora oggi in greco moderno significa, 'buono'. Ed è proprio lo sviluppo della concezione platonica a Bisanzio, e in particolare il suo esito in ciò che chiamiamo la teologia dell’icona, a spiegare meglio la frase di Dostoevskij: 'La bellezza salverà il mondo'. Questo era già, in un certo senso, il principio fondamentale dell’estetica bizantina. Per i padri della Chiesa ortodossa, l’icona di per sé salva, porta verso l’alto e la luce, è l’interfaccia tra il visibile e l’invisibile e la dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a contatto. Ora, nell’icona la figura umana viene reinventata. I tratti sono
asciugati e privi di sensualità. La fisionomia della persona ritratta nell’icona è esattamente il contrario di quella apprezzata dalla comune umanità vivente. Che sia uomo o donna, il naso è lungo e ossuto, la bocca piccola. E’ imperativo che le labbra siano sottili, e non si vedranno mai, in un’icona, labbra carnose. E’ il viso di chi è 'uscito dal mondo'. E’ un viso distaccato, con le sopracciglia arcuate in un’espressione impassibile e insieme lievemente interrogativa. E’ un viso ascetico, anoressico, con qualcosa di lievemente mortuario nelle occhiaie profonde, nell’evidenza delle ossa sotto la pelle sottile. Un viso su cui la lotta dell’esistenza, le convulsioni dell’intelligenza, gli spasmi dell’insonnia hanno lasciato traccia. Per questo non mancano mai, nelle icone, le rughe, supremo segno di bellezza. Il volto di un’icona non sarà mai liscio, perché esprime un ideale che è esattamente il contrario di quello perseguito nelle nostre icone contemporanee, dal cinema, dalla pubblicità: esprimere il superamento del mondo esterno, il valore di un’interiorità conquistata calandosi nel mistero che trascende la carne ma è immanente alla psiche. Ma non è forse proprio questa la visione che Platone aveva della bellezza? Non era forse proprio Platone a mettere in guardia dalle immagini che della bellezza umana davano i suoi contemporanei? A condannare, anzi, l’immagine, scorgendovi una deviazione da ciò cui l’anima umana deve tendere, dalla bellezza dell’iperuranio, da quella bellezza assoluta che è anche bontà? Tutto sta a intendersi, dunque, su cosa sia la bellezza, anche proprio fisica, secondo quell’unica teologia globale degli antichi che si protrae lungo il millennio bizantino e si cristianizza nelle forme più alte della speculazione. Per capire veramente l’idea di bellezza per gli antichi dobbiamo prescindere dall’associazione automatica che a volte facciamo, quando pensiamo al mondo greco, tra filosofia platonica e statuaria classica. La bellezza anche fisica di cui parla il platonismo, quando la identifica con la bontà, è quella che oggi manca di più al mondo: la bellezza interiore che si presenta nell’immagine esteriore (in greco eikone) di un volto o di un corpo umano agli occhi che la sanno cogliere. Non la bellezza patinata, ridotta alla propria superficie e dunque alla superficialità, ma la bellezza come espressione di un ordine insieme interioree superiore. Quando parliamo oggi di 'cosmetica', spesso proprio in associazione alla falsa bellezza celebrata dai media, a quella che James Hillman ha chiamato la 'pornografizzazione di Afrodite', spesso dimentichiamo che quella parola viene dal greco kosmos, l’ordine che per definizione accomuna e unisce l’interiorità individuale alla legge del mondo in un’armonia che è anche sensibile, estetica. 'Il cosmo stellato sopra di me, la legge morale in me', si meraviglierà Kant. Ma è per questo che alla dea della bellezza, Afrodite, gli antichi associavano anche quella particolare forma di giustizia, che Hillman ha analizzato nel suo ultimo saggio ora in uscita per La Conchiglia, La giustizia di Afrodite. La bellezza come giustizia, intesa cioè, nelle parole di Hillman, come adeguatezza, giusta collocazione, ordine; e la giustizia come suprema bellezza. Non è un caso che anche lei sia compresa nella triade essenziale: non solo la bontà ma anche la giustizia compongono il paradigma della vera bellezza, completando quell’identificazione tra sfera estetica e sfera etica che tutto il pensiero antico, anche quello cristianizzato, non farà che riaffermare. Come scrive Agostino: 'Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu eri dentro e io ero fuori e là ti cercavo'." (da Silvia Ronchey, Ma se è kalòs è anche buono, "TuttoLibri", "La Stampa",
Saturday, May 10, 2008
L'enigma di Uria. Una Venere salvò il Gargano
L'enigma di Uria. Una Venere salvò il Gargano
23 N0V 2006 la GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
La prima attestazione archeologica del Gargano divenne subito leggenda. Già agli inizi del '500 il canonico Benedetto Cochorella, nel descrivere le Tremiti, favoleggiava degli scavi effettuati, molto tempo prima, da un eremita su una delle isole. A indicargli il luogo preciso da investigare si era scomodata addirittura la Vergine Maria. Il «buon'imo-mo» - come narrerà in seguito anche Pompeo Sarnelli, vescovo di Bisceglie - «aprendo le ruine antiche» scoprì niente-meno che il sepolcro del mitico Diomede, che a quelle isole aveva dato il suo nome: «qui trovò egli alquanti gran vasi, pieni di monete di argento, e d'oro, e quello che parve anche più mirabile, una bellissima corona tutta gioiellata in capo di quell'antichissimo cadavero».
Come ogni favola che si rispetti, anche nel rinvenimento dello sfarzoso sepolcro dell'eroe greco sì cela una Brande verità: il Gargano ci ha riservato (e ci riserva tutt'oggi) un inestimabile tesoro archeologico, benché molti dei reperti siano stati facile bottino per forestieri e - a causa di scavi non sempre condotti con rigore (cantieri scuola degli anni '50) -furono a volte destinati alla totale dispersione.
A documentare una più che centenaria attività sul promontorio pugliese contribuisce ora Gargano antico. Testimonianze archeologiche dalla Preistoria al tardoantico, scritto da Marina Mazzei e da Anna Maria Tunzi (edito da Claudio Grenzì, pp. 239, euro 34,00). Il volume è un'ulteriore prova di guanto l'ar-cheologa Marina Mazzei seppe ben seminare, se anche dopo la sua morte - avvenuta prematuramente nel 2004 -continuano ad apparire suoi contributi, postumi attestati di amore e di intelligenza verso la sua terra. Dìfatti il progetto di una «mappatura» di tutte le rilevanze archeologi-che era stato messo a punto tra lei e la Tunzi motti anni fa; e via via sospeso per l'accumularsi di aggiornamenti cui gli scavi necessariamente costringevano.
Ma Gargano antico è anche l'attestazione della ricchezza custodita in questo territorio bellissimo e fascinoso. Ufficialmente l'inizio delle indagini archeologiche sul Gargano si datano al 1872: allorché il capitano Angelo Angeluccì decise di raccogliere reperti di natura «bellica», databili dalla preistoria al medioevo, per rimpinguare la raccolta del Museo di Artiglieria di Torino. Si trattava perloppiù di ricerca di superficie, o, come avvenne in seguito con l'ingegnere Alberto Benucci, di ritrovamenti casuali, durante il rifacimento stradale tra Vico-Vieste-Rodi.
È solo nel 1909 che si effettua sul Gargano la prima indagine sistematica: Angelo Mosso a Coppa Nevigata, un sito che rivelerà la sua importanza nel panorama del neolitico italiano, perché abitato sin dal 6200 avanti Cristo. Mentre alla Grotta Paglicci, presso Rignano Garganico, va attribuita più di una primogenitura nella storia dell'espressione artistica del Paleolìtico italiano: qui sono stati scoperti i primi affreschi parietali in ocra (cavalli e mani), ma anche forme di arte «mobiliare», con incisioni su ossi o su ciottoli, raffiguranti cavalli, cervi, pinguini boreali, bovidi... Tre sepolture - due databili dai 25mila ai 23mila anni fa -ci documentano la liturgia funebre dei nostri progenitori: una giovane donna e un fanciullo furono qui sepolti con il capo adorno di diademi confezionati con denti di cervo, e poi pendagli di conchìglie, strumenti di selce. Per rimuovere il pallore funebre, le loro teste, il bacino e gli arti furono spalmati con sanguigna ocra.
Meno perspicui - e più misteriosamente naives - sono i profondi e rudimentali graffiti tracciati nei «ripari» presso Vieste: linee parallele, o in gruppi convergenti, o a graticola... A lanciarci questi inestricabili messaggi erano minatori che qui estraevano globuli di selce per farne strumenti dì guerra e di pace, i choppers. Una di queste miniere neolitiche (Vmillennio a. C.) è stata scoperta in località Defensola, sempre presso Vieste.
Tra grotte cultuali dedicate alle divinità dell'acqua (Scaloria, presso Manfredonia) e antri che assommarono tutte le funzioni, dalle abitative alle religiose, dalle produttive alle funerarie (Grottone Mannacora presso Peschici), tra fortificati insediamenti di capanne (Monte Saraceno presso Mattinata) e ville romane (Agnuli, sempre Mattinata, o la villa di Giulia sulle Tremiti), l'elenco delle emergenze archeologiche sarebbe immenso (perciò di grande utilità è la schedatura degli insediamen ti, nella seconda parte del volume).
Spicca l'enigma di Uria, l'antica città e porto del Gargano, sulla cui ubicazione si è a lungo discusso: pervenendo ormai alla convinzione ~ come sostiene Marina Mazzei – che non sia altro che Vieste. Lo inducono a credere le numerose rilevanze archeologiche, dai sepolcri (uno è riaffiorato in questi giorni) alle mura megalìtiche, dalle monete ai vasi apuli... Fino alla grotta di Sant'Eufemia, dedicata al culto di Venere Sosandra (Salvatrice), onorata evidentemente dai marinai salvati dalle tempeste, e che si apre al nostro sguardo come un palinsesto di iscrizioni accumulatesi nei secoli: tra queste, anche l'epigrafe del doge Órseolo, che venne a Bari, subito dopo il 1000 a difenderla dai saraceni; ma anche i più umili e recenti graffiti dei faristì dell'isolotto.
Naturalmente non sarebbe Gargano senza san Michele, insediatosi su quello che doveva essere l'antico monte Drion, dove altri riti pagani lo avevano preceduto. E suo culto e i precedenti vengono documentati dall'indagine archeologica. Inducendoci a pensare che le impronte dell'arcangelo, impresse su una roccia della grotta-santuario, siano in fin dei conti più fan-tastiche e sorprendenti di quelle che i dinosauri non mancarono di lasciare su questo territorio, da S. Marco in Lamis (Borgo Celano) a Mattinata, da Peschici ad Apricena.
Giacomo Annibaldis
23 N0V 2006 la GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
La prima attestazione archeologica del Gargano divenne subito leggenda. Già agli inizi del '500 il canonico Benedetto Cochorella, nel descrivere le Tremiti, favoleggiava degli scavi effettuati, molto tempo prima, da un eremita su una delle isole. A indicargli il luogo preciso da investigare si era scomodata addirittura la Vergine Maria. Il «buon'imo-mo» - come narrerà in seguito anche Pompeo Sarnelli, vescovo di Bisceglie - «aprendo le ruine antiche» scoprì niente-meno che il sepolcro del mitico Diomede, che a quelle isole aveva dato il suo nome: «qui trovò egli alquanti gran vasi, pieni di monete di argento, e d'oro, e quello che parve anche più mirabile, una bellissima corona tutta gioiellata in capo di quell'antichissimo cadavero».
Come ogni favola che si rispetti, anche nel rinvenimento dello sfarzoso sepolcro dell'eroe greco sì cela una Brande verità: il Gargano ci ha riservato (e ci riserva tutt'oggi) un inestimabile tesoro archeologico, benché molti dei reperti siano stati facile bottino per forestieri e - a causa di scavi non sempre condotti con rigore (cantieri scuola degli anni '50) -furono a volte destinati alla totale dispersione.
A documentare una più che centenaria attività sul promontorio pugliese contribuisce ora Gargano antico. Testimonianze archeologiche dalla Preistoria al tardoantico, scritto da Marina Mazzei e da Anna Maria Tunzi (edito da Claudio Grenzì, pp. 239, euro 34,00). Il volume è un'ulteriore prova di guanto l'ar-cheologa Marina Mazzei seppe ben seminare, se anche dopo la sua morte - avvenuta prematuramente nel 2004 -continuano ad apparire suoi contributi, postumi attestati di amore e di intelligenza verso la sua terra. Dìfatti il progetto di una «mappatura» di tutte le rilevanze archeologi-che era stato messo a punto tra lei e la Tunzi motti anni fa; e via via sospeso per l'accumularsi di aggiornamenti cui gli scavi necessariamente costringevano.
Ma Gargano antico è anche l'attestazione della ricchezza custodita in questo territorio bellissimo e fascinoso. Ufficialmente l'inizio delle indagini archeologiche sul Gargano si datano al 1872: allorché il capitano Angelo Angeluccì decise di raccogliere reperti di natura «bellica», databili dalla preistoria al medioevo, per rimpinguare la raccolta del Museo di Artiglieria di Torino. Si trattava perloppiù di ricerca di superficie, o, come avvenne in seguito con l'ingegnere Alberto Benucci, di ritrovamenti casuali, durante il rifacimento stradale tra Vico-Vieste-Rodi.
È solo nel 1909 che si effettua sul Gargano la prima indagine sistematica: Angelo Mosso a Coppa Nevigata, un sito che rivelerà la sua importanza nel panorama del neolitico italiano, perché abitato sin dal 6200 avanti Cristo. Mentre alla Grotta Paglicci, presso Rignano Garganico, va attribuita più di una primogenitura nella storia dell'espressione artistica del Paleolìtico italiano: qui sono stati scoperti i primi affreschi parietali in ocra (cavalli e mani), ma anche forme di arte «mobiliare», con incisioni su ossi o su ciottoli, raffiguranti cavalli, cervi, pinguini boreali, bovidi... Tre sepolture - due databili dai 25mila ai 23mila anni fa -ci documentano la liturgia funebre dei nostri progenitori: una giovane donna e un fanciullo furono qui sepolti con il capo adorno di diademi confezionati con denti di cervo, e poi pendagli di conchìglie, strumenti di selce. Per rimuovere il pallore funebre, le loro teste, il bacino e gli arti furono spalmati con sanguigna ocra.
Meno perspicui - e più misteriosamente naives - sono i profondi e rudimentali graffiti tracciati nei «ripari» presso Vieste: linee parallele, o in gruppi convergenti, o a graticola... A lanciarci questi inestricabili messaggi erano minatori che qui estraevano globuli di selce per farne strumenti dì guerra e di pace, i choppers. Una di queste miniere neolitiche (Vmillennio a. C.) è stata scoperta in località Defensola, sempre presso Vieste.
Tra grotte cultuali dedicate alle divinità dell'acqua (Scaloria, presso Manfredonia) e antri che assommarono tutte le funzioni, dalle abitative alle religiose, dalle produttive alle funerarie (Grottone Mannacora presso Peschici), tra fortificati insediamenti di capanne (Monte Saraceno presso Mattinata) e ville romane (Agnuli, sempre Mattinata, o la villa di Giulia sulle Tremiti), l'elenco delle emergenze archeologiche sarebbe immenso (perciò di grande utilità è la schedatura degli insediamen ti, nella seconda parte del volume).
Spicca l'enigma di Uria, l'antica città e porto del Gargano, sulla cui ubicazione si è a lungo discusso: pervenendo ormai alla convinzione ~ come sostiene Marina Mazzei – che non sia altro che Vieste. Lo inducono a credere le numerose rilevanze archeologiche, dai sepolcri (uno è riaffiorato in questi giorni) alle mura megalìtiche, dalle monete ai vasi apuli... Fino alla grotta di Sant'Eufemia, dedicata al culto di Venere Sosandra (Salvatrice), onorata evidentemente dai marinai salvati dalle tempeste, e che si apre al nostro sguardo come un palinsesto di iscrizioni accumulatesi nei secoli: tra queste, anche l'epigrafe del doge Órseolo, che venne a Bari, subito dopo il 1000 a difenderla dai saraceni; ma anche i più umili e recenti graffiti dei faristì dell'isolotto.
Naturalmente non sarebbe Gargano senza san Michele, insediatosi su quello che doveva essere l'antico monte Drion, dove altri riti pagani lo avevano preceduto. E suo culto e i precedenti vengono documentati dall'indagine archeologica. Inducendoci a pensare che le impronte dell'arcangelo, impresse su una roccia della grotta-santuario, siano in fin dei conti più fan-tastiche e sorprendenti di quelle che i dinosauri non mancarono di lasciare su questo territorio, da S. Marco in Lamis (Borgo Celano) a Mattinata, da Peschici ad Apricena.
Giacomo Annibaldis
Piramidi nel cuore d'Europa. Per l'archeologo Osmanagic sotto le strane colline vicino a Sarajevo ci sarebbero antichi templi
Piramidi nel cuore d'Europa. Per l'archeologo Osmanagic sotto le strane colline vicino a Sarajevo ci sarebbero antichi templi
ANTONIO ANGELI
Il Tempo, 11 dicembre 2006
Un esperto egiziano: «Sono costruzioni molto simili a quelle della piana di Giza»
NEL CUORE dell'Europa ci sono le piramidi più grandi e antiche del mondo: questa la tesi dell'archeologo Semir Osmanagic che sta richiamando l'attenzione dei media di tutto il mondo. La Storia potrebbe essere riscritta se sarà provato, come lui ritiene, che in Bosnia-Erzegovina a pochi chilometri da Sarajevo, vicino alla cittadina di Visoko, c'è, seppellita da terra e vegetazione, una piramide più alta di tutte le piramidi egiziane che risalirebbe a 12mila anni fa. Questa struttura, chiamata Piramide del Sole, farebbe parte di un complesso di quattro o cinque giganteschi edifici collegati da una fitta rete di gallerie.
Andiamo per ordine: da sempre, come si può vedere anche da antiche stampe, la cittadina di Visoko è sovrastata da una strana collina: ha quattro lati molto regolari e orientati secondo i punti cardinali. In più non è l'unica strana «collina» della zona; a poca distanza ce n'è almeno un'altra che presenta analoghe caratteristiche. Ce n'è abbastanza per stuzzicare la curiosità di più di uno studioso... ma quella di Visoko è stata una terra tormentata da continue guerre: restata per anni sotto il pugno di Tito (e si sa che quel regime aveva poca voglia di promuovere l'archeologia e la cultura in genere), poi piombata nella guerra civile. Da pochi anni quella regione può dirsi pacificata e dopo lo «scoppio della pace» Semir
Osmanagic, archeologo bosniaco trasferitosi negli Usa, decide di tornare per indagare sulle misteriose «colline».
Osmanagic, che ha 46 anni, è nato a Zenica, in Bosnia-Erzegovina, ha studiato a Sarajevo e si è poi trasferito a Houston. Per anni ha indagato sulle piramidi sudamericane dei Ma-ya. Incoraggiato dagli studiosi locali, più o meno nell'estate dello scorso anno, inizia una serie di scavi nella zona. Immediatamente, rimuovendo uno strato di un metro-un metro e mezzo di terra, affiorano antichi manufatti: lastre di pietra, una scalinata. Sulla sommità della grande collina, che ha i quattro lati inclinati perfettamente a 45 gradi, emergono delle costruzioni.
Qualcosa da scavare insomma c'è: si va avanti con le indagini. La zona inoltre è percorsa da numerosi cunicoli che si riteneva fossero miniere di epoca medievale, ma appare chiaro invece che questi passaggi servono a collega-re una serie di strutture create dall'uomo in epoche più remote. Il 10 gennaio 2006 il satellite Nasa Aster rivela con un'analisi termica che le «colline» hanno corridoi, cunicoli, stanze sotterranee. Dal Cairo arriva un geologo per esaminare i lastroni venuti alla luce. Il suo verdetto è breve, bruciante: «Difficile che la natura possa creare blocchi di pietra simili». Inoltre, la sabbia trovata tra i vari strati di roccia sembra essere simile al cemento che fu usato per le piramidi di Giza, in Egitto. «Per me - afferma - ci troviamo di fronte ad una piramide primitiva di un tipo finora sconosciuto».
Osmanagic è confortato da questi dati che possono fare anche girare la testa. Le dimensioni degli edifici coperti dalle colline, almeno tre, disposti a formare un triangolo equilatero, sono enormi: il più grande supera i 220 metri, più alto della piramide di Cheope. I tre edifici maggiori vengono denominati Piramide del Sole, della Luna e del Drago, oltre a questi ce ne sono probabilmente altri due più piccoli. Studiando la geologia dell'area Osmanagic formula una teoria: le piramidi sono state costruite da una comunità vissuta in quella che oggi è la Bosnia, 12.000 anni fa. Questo perché 12.500 anni fa la maggior parte dell'Europa era coperta dai ghiacci, mentre l'Europa del sud e i Balcani erano terre popolate. Circa 10mila anni prima di Cristo si è verifica-to un brusco innalzamento della temperatura e lo scioglimento dei ghiacci ha provocato vaste inondazioni. Immense aree vengono coperte dalle acque. Dopo molto tempo l'acqua si ritira e tornano in superficie gli edifici di questa antica civiltà, oramai coperti da terra e fango. Le colline di Visoko.
Storici e archeologi storcono il naso. La piramide di Cheope è stata costruita nel 2550 a.C, anche se, in verità, alcuni studiosi vorrebbero retrodatarla di ottomila anni. Diecimila anni prima di Cristo, comunque, nel Paleolitico superio-
re, nell'attuale Bosnia, come nel resto del mondo, poteva esserci qualche tribù nomade, forse qualche insediamento di palafitte. Niente più. Di certo non un popolo culturalmente avanzato come gli egiziani di 7.500 anni dopo.
C'è anche da dire che la divisione della Preistoria in periodi blindati e scatolati spesso è andata stretta a illustri studiosi. L'evoluzione è una macchina strana: molti popoli sono andati avanti per anni senza cambiare e, improvvisamente, hanno dato vita a svolte velocissime. Poi, ovviamente, non tutti i popoli della Terra si sono evoluti allo stesso modo e contemporaneamente. Ma la tesi di Osmanagic è dura da digerire per la scienza ufficiale. Più che una teoria scientifica somiglia alle fantasie di Robert Howard, lo scrittore che creò Conan il Barbaro. Nei suoi racconti Howard parlava di una storia prima della storia, con grandi e complesse civiltà sorte e scomparse migliaia di anni prima delle epoche conosciute.
Il 6 giugno scorso il presidente dell'Associazione archeologica europea, l'inglese Antony Hardin, afferma che in Bosnia non ci sono piramidi: le strane colline sarebbero una semplice struttura naturale, solo di una forma curiosa. Negli stessi giorni però l'Unesco decide di vederci chiaro: annuncia che invierà a Visoko un team di esperti per aiutare il progetto di ricerca riguardante la presunta prima piramide europea e stabilire «di che cosa esattamente si tratta».
Così Osmanagic, coadiuvato dalle autorità locali, non si scoraggia. Appoggiato dall'Università di Zenica, che afferma che il suo lavoro sta seguendo una ineccepibile metodologia scientifica, si appresta a varare un ampio piano di scavi tesi a studiare a fondo quella che ormai definisce senza esitazioni la «Valle delle piramidi bosniache». Tutta la zona, ha detto l'altro giorno Osmanagic durante una conferenza, «nel 2007 diventerà un immenso centro di ricerche in modo da svelare il mistero del complesso delle piramidi».
Il futuro vedrà la soluzione del mistero, per il momento alberghi e ristoranti locali sono euforici e, come si dice, ci inzuppano il pane. A Visoko già esiste il Motel «Piramide bosniaca del Sole» e i ristoranti servono una bella pizza a forma di piramide. Le piramidi nel cuore dell'Europa, se riusciranno a dare una mano all'economia della martoriata ex Jugoslavia, saranno comunque una bella realtà.
ANTONIO ANGELI
Il Tempo, 11 dicembre 2006
Un esperto egiziano: «Sono costruzioni molto simili a quelle della piana di Giza»
NEL CUORE dell'Europa ci sono le piramidi più grandi e antiche del mondo: questa la tesi dell'archeologo Semir Osmanagic che sta richiamando l'attenzione dei media di tutto il mondo. La Storia potrebbe essere riscritta se sarà provato, come lui ritiene, che in Bosnia-Erzegovina a pochi chilometri da Sarajevo, vicino alla cittadina di Visoko, c'è, seppellita da terra e vegetazione, una piramide più alta di tutte le piramidi egiziane che risalirebbe a 12mila anni fa. Questa struttura, chiamata Piramide del Sole, farebbe parte di un complesso di quattro o cinque giganteschi edifici collegati da una fitta rete di gallerie.
Andiamo per ordine: da sempre, come si può vedere anche da antiche stampe, la cittadina di Visoko è sovrastata da una strana collina: ha quattro lati molto regolari e orientati secondo i punti cardinali. In più non è l'unica strana «collina» della zona; a poca distanza ce n'è almeno un'altra che presenta analoghe caratteristiche. Ce n'è abbastanza per stuzzicare la curiosità di più di uno studioso... ma quella di Visoko è stata una terra tormentata da continue guerre: restata per anni sotto il pugno di Tito (e si sa che quel regime aveva poca voglia di promuovere l'archeologia e la cultura in genere), poi piombata nella guerra civile. Da pochi anni quella regione può dirsi pacificata e dopo lo «scoppio della pace» Semir
Osmanagic, archeologo bosniaco trasferitosi negli Usa, decide di tornare per indagare sulle misteriose «colline».
Osmanagic, che ha 46 anni, è nato a Zenica, in Bosnia-Erzegovina, ha studiato a Sarajevo e si è poi trasferito a Houston. Per anni ha indagato sulle piramidi sudamericane dei Ma-ya. Incoraggiato dagli studiosi locali, più o meno nell'estate dello scorso anno, inizia una serie di scavi nella zona. Immediatamente, rimuovendo uno strato di un metro-un metro e mezzo di terra, affiorano antichi manufatti: lastre di pietra, una scalinata. Sulla sommità della grande collina, che ha i quattro lati inclinati perfettamente a 45 gradi, emergono delle costruzioni.
Qualcosa da scavare insomma c'è: si va avanti con le indagini. La zona inoltre è percorsa da numerosi cunicoli che si riteneva fossero miniere di epoca medievale, ma appare chiaro invece che questi passaggi servono a collega-re una serie di strutture create dall'uomo in epoche più remote. Il 10 gennaio 2006 il satellite Nasa Aster rivela con un'analisi termica che le «colline» hanno corridoi, cunicoli, stanze sotterranee. Dal Cairo arriva un geologo per esaminare i lastroni venuti alla luce. Il suo verdetto è breve, bruciante: «Difficile che la natura possa creare blocchi di pietra simili». Inoltre, la sabbia trovata tra i vari strati di roccia sembra essere simile al cemento che fu usato per le piramidi di Giza, in Egitto. «Per me - afferma - ci troviamo di fronte ad una piramide primitiva di un tipo finora sconosciuto».
Osmanagic è confortato da questi dati che possono fare anche girare la testa. Le dimensioni degli edifici coperti dalle colline, almeno tre, disposti a formare un triangolo equilatero, sono enormi: il più grande supera i 220 metri, più alto della piramide di Cheope. I tre edifici maggiori vengono denominati Piramide del Sole, della Luna e del Drago, oltre a questi ce ne sono probabilmente altri due più piccoli. Studiando la geologia dell'area Osmanagic formula una teoria: le piramidi sono state costruite da una comunità vissuta in quella che oggi è la Bosnia, 12.000 anni fa. Questo perché 12.500 anni fa la maggior parte dell'Europa era coperta dai ghiacci, mentre l'Europa del sud e i Balcani erano terre popolate. Circa 10mila anni prima di Cristo si è verifica-to un brusco innalzamento della temperatura e lo scioglimento dei ghiacci ha provocato vaste inondazioni. Immense aree vengono coperte dalle acque. Dopo molto tempo l'acqua si ritira e tornano in superficie gli edifici di questa antica civiltà, oramai coperti da terra e fango. Le colline di Visoko.
Storici e archeologi storcono il naso. La piramide di Cheope è stata costruita nel 2550 a.C, anche se, in verità, alcuni studiosi vorrebbero retrodatarla di ottomila anni. Diecimila anni prima di Cristo, comunque, nel Paleolitico superio-
re, nell'attuale Bosnia, come nel resto del mondo, poteva esserci qualche tribù nomade, forse qualche insediamento di palafitte. Niente più. Di certo non un popolo culturalmente avanzato come gli egiziani di 7.500 anni dopo.
C'è anche da dire che la divisione della Preistoria in periodi blindati e scatolati spesso è andata stretta a illustri studiosi. L'evoluzione è una macchina strana: molti popoli sono andati avanti per anni senza cambiare e, improvvisamente, hanno dato vita a svolte velocissime. Poi, ovviamente, non tutti i popoli della Terra si sono evoluti allo stesso modo e contemporaneamente. Ma la tesi di Osmanagic è dura da digerire per la scienza ufficiale. Più che una teoria scientifica somiglia alle fantasie di Robert Howard, lo scrittore che creò Conan il Barbaro. Nei suoi racconti Howard parlava di una storia prima della storia, con grandi e complesse civiltà sorte e scomparse migliaia di anni prima delle epoche conosciute.
Il 6 giugno scorso il presidente dell'Associazione archeologica europea, l'inglese Antony Hardin, afferma che in Bosnia non ci sono piramidi: le strane colline sarebbero una semplice struttura naturale, solo di una forma curiosa. Negli stessi giorni però l'Unesco decide di vederci chiaro: annuncia che invierà a Visoko un team di esperti per aiutare il progetto di ricerca riguardante la presunta prima piramide europea e stabilire «di che cosa esattamente si tratta».
Così Osmanagic, coadiuvato dalle autorità locali, non si scoraggia. Appoggiato dall'Università di Zenica, che afferma che il suo lavoro sta seguendo una ineccepibile metodologia scientifica, si appresta a varare un ampio piano di scavi tesi a studiare a fondo quella che ormai definisce senza esitazioni la «Valle delle piramidi bosniache». Tutta la zona, ha detto l'altro giorno Osmanagic durante una conferenza, «nel 2007 diventerà un immenso centro di ricerche in modo da svelare il mistero del complesso delle piramidi».
Il futuro vedrà la soluzione del mistero, per il momento alberghi e ristoranti locali sono euforici e, come si dice, ci inzuppano il pane. A Visoko già esiste il Motel «Piramide bosniaca del Sole» e i ristoranti servono una bella pizza a forma di piramide. Le piramidi nel cuore dell'Europa, se riusciranno a dare una mano all'economia della martoriata ex Jugoslavia, saranno comunque una bella realtà.
L'Afrodite di Cnido seduce gli Emirati arabi
L'Afrodite di Cnido seduce gli Emirati arabi
Eric Jozsef
8 Gennaio 2007, Il Sardegna
Il governo francese vende il marchio del Louvre alla città di Abu Dhabi: operazione meramente economica o dai risvolti culturali?
È l'ultimo dibattito a Parigi tra moderni e conservatori, tra difensori del patrimonio e sostenitori dell'azione culturale in un mondo globalizzato. La decisione del governo francese di prestare il marchio del Louvre agli Emirati di Abu Dhabi, che segue un accordo quasi simile con gli americani di Atlanta, sta provocando una viva polemica sulle rive della Senna. Le autorità politiche hanno in effetti accettato di favorire la costruzione di un nuovo museo nel golfo Persico che si chiamerà, in cambio di 500 milioni di euro, “Louvre Abu Dhabi”. I francesi forniranno consiglieri in museologia, esperti artistici e presteranno in modo temporaneo tra 400 e 500 opere d'arte, quadri, mobili, oggetti vari, gioielli ecc. “I musei non sono in vendita” hanno criticato diversi intellettuali tra cui il geniale ma conservatore storico dell'arte Jean Clair e l'ex-direttrice dei musei di Francia Françoise Cachin. Sostengono che con questa iniziativa la Francia si appresta a vendersi l'anima. Cioè a cedere il suo patrimonio per un piatto di lenticchie e più largamente a frantumare l'idea di eccezione culturale portata avanti da Parigi che permette di considerare l'arte e lo spettacolo come delle merci particolari che non possono essere sottomesse alle sole regole di mercato. Questo accordo con Abu Dhabi è stato concepito nell'ambito di accordi commerciali (in particolare con la vendita di 40 Airbus A- 380) e assomiglia più a un operazione di promozione diplomatica per il governo de Villepin che al primo capitolo di un grande progetto culturale. Tuttavia, la reazione negativa di alcuni ambienti culturali francesi non può che tradurre una paura anacronistica di fronte ai cambiamenti nella diffusione della cultura. Il museo del terzo millennio non sarà come quello della fine del settecento dove, nello spirito dei Lumi, si presentavano al pubblico le opere fino ad allora riservate a pochi aristocratici in un spazio fisso e quasi intangibile. Il “museo immaginario” annunciato da André Malraux cinquanta anni fa, che tramite la diffusione della fotografia e del cinema permettesse di diffondere l'arte dappertutto è già iniziato, quello del museo globalizzato si sta costruendo attraverso delle collaborazioni internazionali. Le collezioni pubbliche del Louvre rimangono inalienabili e staranno solo in prestito fuori. Ma è un passo avanti pensare che delle opere, spesso realizzate da artisti stranieri e chiuse nei magazzini per mancanza di spazio, potranno essere ammirate a migliaia di chilometri da Parigi e pure nel Golfo Persico. In una regione dove la donna e la sua immagine sono spesso controllate, non ci potrebbe essere scambio culturale più proficuo e sovversivo che esporre e condividere l'Afrodite di Cnide, l'Olympia di Manet o la grande odalisca di Ingres nel Louvre di Abu Dhabi. *Corrispondente di Liberation
Eric Jozsef
8 Gennaio 2007, Il Sardegna
Il governo francese vende il marchio del Louvre alla città di Abu Dhabi: operazione meramente economica o dai risvolti culturali?
È l'ultimo dibattito a Parigi tra moderni e conservatori, tra difensori del patrimonio e sostenitori dell'azione culturale in un mondo globalizzato. La decisione del governo francese di prestare il marchio del Louvre agli Emirati di Abu Dhabi, che segue un accordo quasi simile con gli americani di Atlanta, sta provocando una viva polemica sulle rive della Senna. Le autorità politiche hanno in effetti accettato di favorire la costruzione di un nuovo museo nel golfo Persico che si chiamerà, in cambio di 500 milioni di euro, “Louvre Abu Dhabi”. I francesi forniranno consiglieri in museologia, esperti artistici e presteranno in modo temporaneo tra 400 e 500 opere d'arte, quadri, mobili, oggetti vari, gioielli ecc. “I musei non sono in vendita” hanno criticato diversi intellettuali tra cui il geniale ma conservatore storico dell'arte Jean Clair e l'ex-direttrice dei musei di Francia Françoise Cachin. Sostengono che con questa iniziativa la Francia si appresta a vendersi l'anima. Cioè a cedere il suo patrimonio per un piatto di lenticchie e più largamente a frantumare l'idea di eccezione culturale portata avanti da Parigi che permette di considerare l'arte e lo spettacolo come delle merci particolari che non possono essere sottomesse alle sole regole di mercato. Questo accordo con Abu Dhabi è stato concepito nell'ambito di accordi commerciali (in particolare con la vendita di 40 Airbus A- 380) e assomiglia più a un operazione di promozione diplomatica per il governo de Villepin che al primo capitolo di un grande progetto culturale. Tuttavia, la reazione negativa di alcuni ambienti culturali francesi non può che tradurre una paura anacronistica di fronte ai cambiamenti nella diffusione della cultura. Il museo del terzo millennio non sarà come quello della fine del settecento dove, nello spirito dei Lumi, si presentavano al pubblico le opere fino ad allora riservate a pochi aristocratici in un spazio fisso e quasi intangibile. Il “museo immaginario” annunciato da André Malraux cinquanta anni fa, che tramite la diffusione della fotografia e del cinema permettesse di diffondere l'arte dappertutto è già iniziato, quello del museo globalizzato si sta costruendo attraverso delle collaborazioni internazionali. Le collezioni pubbliche del Louvre rimangono inalienabili e staranno solo in prestito fuori. Ma è un passo avanti pensare che delle opere, spesso realizzate da artisti stranieri e chiuse nei magazzini per mancanza di spazio, potranno essere ammirate a migliaia di chilometri da Parigi e pure nel Golfo Persico. In una regione dove la donna e la sua immagine sono spesso controllate, non ci potrebbe essere scambio culturale più proficuo e sovversivo che esporre e condividere l'Afrodite di Cnide, l'Olympia di Manet o la grande odalisca di Ingres nel Louvre di Abu Dhabi. *Corrispondente di Liberation
Thursday, May 08, 2008
«Gli amori di Saffo? Diversi da quelli omosessuali di oggi»
Corriere della Sera 8.5.08
«Gli amori di Saffo? Diversi da quelli omosessuali di oggi»
di Eva Cantarella
Attide, Gongila, Anactoria, le fanciulle oggetto di quell'«amore che squassa l'anima» come «vento sulle querce», nella poesia di Saffo sono presenze vive e sensuali, l'una «piccola e senza grazia», l'altra «circonfusa di desiderio» nella «tunica bianchissima». Questa concretezza e precisione nel dire il sentimento autorizzano più di tante analisi a credere che la poetessa e le sue allieve fossero legate da rapporti d'amore, comunanza di ideali ma anche «eros che scioglie le membra».
Professoressa Eva Cantarella, Saffo era lesbica?
«Prima occorre precisare: il termine "lesbismo", che oggi denota l'omosessualità femminile, deriva dalla fama della quale godevano nell'antichità le donne dell'isola di Lesbo, mentre si ricorreva al verbo "lesbiazein" per indicare la pratica del sesso orale. Quanto all'amore gay come noi lo intendiamo, il concetto era del tutto estraneo alla cultura greca. In particolare il mondo dei tiasoi, le comunità femminili di carattere religioso-iniziatico dove le ragazze ricevevano un'educazione in vista del matrimonio, appartiene a una società precivica che ancora ammette l'amore tra donne, come quello che senz'altro esisteva tra Saffo e le sue allieve. Sarà la polis a bandirlo».
E l'amore tra uomini?
«Sopravviverà, anche alla polis».
«Gli amori di Saffo? Diversi da quelli omosessuali di oggi»
di Eva Cantarella
Attide, Gongila, Anactoria, le fanciulle oggetto di quell'«amore che squassa l'anima» come «vento sulle querce», nella poesia di Saffo sono presenze vive e sensuali, l'una «piccola e senza grazia», l'altra «circonfusa di desiderio» nella «tunica bianchissima». Questa concretezza e precisione nel dire il sentimento autorizzano più di tante analisi a credere che la poetessa e le sue allieve fossero legate da rapporti d'amore, comunanza di ideali ma anche «eros che scioglie le membra».
Professoressa Eva Cantarella, Saffo era lesbica?
«Prima occorre precisare: il termine "lesbismo", che oggi denota l'omosessualità femminile, deriva dalla fama della quale godevano nell'antichità le donne dell'isola di Lesbo, mentre si ricorreva al verbo "lesbiazein" per indicare la pratica del sesso orale. Quanto all'amore gay come noi lo intendiamo, il concetto era del tutto estraneo alla cultura greca. In particolare il mondo dei tiasoi, le comunità femminili di carattere religioso-iniziatico dove le ragazze ricevevano un'educazione in vista del matrimonio, appartiene a una società precivica che ancora ammette l'amore tra donne, come quello che senz'altro esisteva tra Saffo e le sue allieve. Sarà la polis a bandirlo».
E l'amore tra uomini?
«Sopravviverà, anche alla polis».
Grecia, l'isola di Lesbo fa causa ai gay
Corriere della Sera 8.5.08
Battaglia nell'Egeo «Lesa l'identità della comunità»
Grecia, l'isola di Lesbo fa causa ai gay
La protesta degli abitanti: ci hanno rubato il nome e un pezzo della nostra storia
di Maria Serena Natale
Sulle sponde dell'Egeo conoscono il potere della parola e nell'isola di Lesbo, che secondo il mito accolse il capo di Orfeo straziato dalle donne tracie e dove tra il VII e il VI secolo a. C. una donna, Saffo, trovò al tormento d'amore parole mai tentate, un nome chiama vendetta.
Comincia tutto lo scorso aprile quando, stanco di sentirsi chiamare «lesbico», il combattivo editore della rivista culturale
Davlos, Dimitris Lambrou, decide di porre fine a una situazione che «per un'intera comunità equivale a subire violenza psicologica e morale », citando in giudizio la maggiore organizzazione nazionale per i diritti degli omosessuali, «Olke-Unione Greca Gay e Lesbiche», rea di essersi appropriata del nome che spetterebbe «di diritto» ai soli abitanti dell'isola di Saffo. Da «saffico» a «lesbico», nei secoli gli aggettivi legati alla figlia di Lesbo sono entrati a far parte del vocabolario gay; in particolare «lesbico », negli anni Settanta del Novecento, è passato a denotare quel movimento femminile (e femminista) che rivendicava alla cultura omosessuale la responsabilità di oltrepassare il dato puramente sessuale, sul quale le società patriarcali tendono ad appiattire la più articolata sfera affettiva.
«"Loro" si chiamano lesbiche da qualche decennio appena, noi siamo lesbici da migliaia di anni, queste signore non hanno nulla in comune con Lesbo» rivendica Lambrou, che aggiunge: «All'estero mia sorella non può neanche dire di essere lesbica», tanto è disdicevole l'accostamento alla comunità gay, causa di «quotidiani problemi» e lesivo dell'identità storica dei 100 mila nativi, nonché dei 250 mila espatriati. Precisa: «La nostra non è un'aggressione. Vengano a Lesbo, si sposino (è di attualità nell'ortodossa Grecia il dibattito sul riconoscimento delle unioni gay, ndr), facciano quello che credono. Chiediamo solo che il gruppo rimuova la parola "lesbiche" dal proprio nome». E conclude: «Saffo non era neanche omosessuale. Ebbe un marito e una figlia». Oltre a diverse amanti.
Il prossimo 10 giugno il caso sarà esaminato dal tribunale di Atene. «Se non ci fosse in gioco un'ingiustificabile violazione della libertà d'espressione la faccenda avrebbe del ridicolo — commenta la portavoce di Olke, Evangelia Vlami —. Il termine "lesbica" è stato accettato dalla società, dalla scienza, dalla storia, dalle Nazioni Unite. In aula ci sarà da ridere, ci faremo sentire».
In rete parte il toto- nome. La rivista lesbo El Reg propone che le lesbiche greche comincino a chiamarsi «saffiste», gli abitanti dell'isola «mitileni » dal nome della città capoluogo, e le lesbiche non greche restino tali, ma non durante eventuali vacanze sull'isola. Su tutto, il sorriso di Saffo, perché «a noi il pianto non si addice», piuttosto, le dolcezze di Afrodite «tessitrice d'inganni ».
Battaglia nell'Egeo «Lesa l'identità della comunità»
Grecia, l'isola di Lesbo fa causa ai gay
La protesta degli abitanti: ci hanno rubato il nome e un pezzo della nostra storia
di Maria Serena Natale
Sulle sponde dell'Egeo conoscono il potere della parola e nell'isola di Lesbo, che secondo il mito accolse il capo di Orfeo straziato dalle donne tracie e dove tra il VII e il VI secolo a. C. una donna, Saffo, trovò al tormento d'amore parole mai tentate, un nome chiama vendetta.
Comincia tutto lo scorso aprile quando, stanco di sentirsi chiamare «lesbico», il combattivo editore della rivista culturale
Davlos, Dimitris Lambrou, decide di porre fine a una situazione che «per un'intera comunità equivale a subire violenza psicologica e morale », citando in giudizio la maggiore organizzazione nazionale per i diritti degli omosessuali, «Olke-Unione Greca Gay e Lesbiche», rea di essersi appropriata del nome che spetterebbe «di diritto» ai soli abitanti dell'isola di Saffo. Da «saffico» a «lesbico», nei secoli gli aggettivi legati alla figlia di Lesbo sono entrati a far parte del vocabolario gay; in particolare «lesbico », negli anni Settanta del Novecento, è passato a denotare quel movimento femminile (e femminista) che rivendicava alla cultura omosessuale la responsabilità di oltrepassare il dato puramente sessuale, sul quale le società patriarcali tendono ad appiattire la più articolata sfera affettiva.
«"Loro" si chiamano lesbiche da qualche decennio appena, noi siamo lesbici da migliaia di anni, queste signore non hanno nulla in comune con Lesbo» rivendica Lambrou, che aggiunge: «All'estero mia sorella non può neanche dire di essere lesbica», tanto è disdicevole l'accostamento alla comunità gay, causa di «quotidiani problemi» e lesivo dell'identità storica dei 100 mila nativi, nonché dei 250 mila espatriati. Precisa: «La nostra non è un'aggressione. Vengano a Lesbo, si sposino (è di attualità nell'ortodossa Grecia il dibattito sul riconoscimento delle unioni gay, ndr), facciano quello che credono. Chiediamo solo che il gruppo rimuova la parola "lesbiche" dal proprio nome». E conclude: «Saffo non era neanche omosessuale. Ebbe un marito e una figlia». Oltre a diverse amanti.
Il prossimo 10 giugno il caso sarà esaminato dal tribunale di Atene. «Se non ci fosse in gioco un'ingiustificabile violazione della libertà d'espressione la faccenda avrebbe del ridicolo — commenta la portavoce di Olke, Evangelia Vlami —. Il termine "lesbica" è stato accettato dalla società, dalla scienza, dalla storia, dalle Nazioni Unite. In aula ci sarà da ridere, ci faremo sentire».
In rete parte il toto- nome. La rivista lesbo El Reg propone che le lesbiche greche comincino a chiamarsi «saffiste», gli abitanti dell'isola «mitileni » dal nome della città capoluogo, e le lesbiche non greche restino tali, ma non durante eventuali vacanze sull'isola. Su tutto, il sorriso di Saffo, perché «a noi il pianto non si addice», piuttosto, le dolcezze di Afrodite «tessitrice d'inganni ».
Tuesday, May 06, 2008
Il ciclo del grano nei campi di Demetra
SICILIA - Il ciclo del grano nei campi di Demetra
MARCELLA CROCE
6 maggio 2008, LA REPUBBLICA - Palermo
Un libro ricostruisce miti e tradizioni collegati alla fertilità della terra
Formule magiche nei riti antichi per propiziare i raccolti in tutta l´Isola dalla semina alla mietitura fino alla cottura del pane
icerone dava per scontato che l´intera Sicilia appartenesse alla dea Demetra, dea del grano e della terra; dopo il furto della statua della dea dal santuario ennese da parte di Verre, gli abitanti attribuirono a questo sacrilegio le carestie che colpirono molte città dell´Isola. La Sicilia antica pullulava di templi dedicati al culto di Demetra e a sua figlia Persefone (detta anche Kore, cioè "ragazza"), e in essi potevano entrare solo le donne: a Catania c´erano due templi delle dee, uno dentro e l´altro fuori la città, e quando Verre tentò di portare via il simulacro della dea anche da lì, le sacerdotesse reclamarono davanti ai magistrati. Ancora nel 1756, in occasione di una spaventosa carestia, i catanesi eressero una statua alla dea Cerere che si trova attualmente in piazza Università e il marchese di Villabianca riferisce che a Palermo il giorno dell´Assunzione, malgrado i ripetuti tentativi di proibire questa pratica, si continuava a fare una solenne processione a Maredolce dove si sapeva avessero avuto anticamente luogo i riti di Cerere/Demetra.
«Gli Ennesi credono che Cerere abiti presso di loro, tanto che mi sembravano non cittadini di quella città, ma tutti sacerdoti, tutti ministri della Dea» (Verrem IV, 49, 50): le città di Enna, Morgantina, Assoro e Agira vengono citate da Cicerone come i territori dove la produzione di frumento era talmente ricca che «a vederli coperti di spighe si cessava di temere la carestia»; molti secoli dopo anche Goethe visitando le province interne della Sicilia rimase colpito dalla vista di tutti quei campi di frumento. Nel volume "Il ciclo del grano nella terra di Demetr"a, recentemente pubblicato dalla Sovrintendenza regionale dei Beni culturali della Provincia di Enna, Claudio Paterna ha curato la parte riguardante le relazioni pubbliche, sociali e simboliche dell´agricoltore, e Salvatore Scalisi quella relativa all´intero ciclo del grano, con un´accurata esposizione di tutto lo svolgimento del calendario solare agrario mediterraneo, dall´aratura e semina dell´autunno, al magico spuntare del primo germoglio primaverile, dalla raccolta e trebbiatura dell´estate fino alla molitura e infine al miracolo della panificazione.
La luna, il cielo, il mondo, il paesaggio, gli animali, il fuoco, la luce: tutti elementi che nel mondo contadino venivano considerati controllabili a opera di forze magico-religiose che intendevano esorcizzare la pericolosa precarietà legata agli eventi atmosferici. Nel volume della Regione, Paterna ha esaminato gli auspici, i pronostici, il computo del tempo, il valore simbolico degli attrezzi, le feste, i proverbi e le tradizioni che riflettono le credenze nella forze della natura e della Madre Terra.
Nell´inno omerico a Demetra si trova la narrazione più antica del mito: mentre Persefone stava giocando sulle sponde del lago di Pergusa con alcune ninfe, Ade la rapì dalla terra e la portò con sé nel suo regno. La vita sulla terra si fermò e la disperata Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta. Alla fine Zeus, non potendo più permettere che la terra morisse, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone e mandò Hermes a riprenderla. Prima di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melograno magici, che l´avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all´anno. Da quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose ma per quattro mesi all´anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda.
Da numerose fonti antiche sappiamo che gli abitanti della Sicilia, che per il mito avevano ricevuto per primi il dono del grano, istituirono in onore di Demetra e Kore sacrifici e feste, tra cui la katagogè della fanciulla, cioè il suo "rapimento verso gli Inferi", e il suo ritorno (anagoghé). Nella monetazione e nella coroplastica antica Demetra e Persefone sono accompagnate da una spiga o da focacce di pane o da un maialino, simbolo di abbondanza o ancora dalle fiaccole che erano loro necessarie per illuminare il regno dell´Ade. Diodoro Siculo riferisce che Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell´Etna, e fino a una cinquantina di anni fa la grotta di Galerno alle falde del vulcano veniva indicata come il luogo da cui si sarebbe mosso Ade per rapire Proserpina: sulla strada si sarebbe fermato ad Aidone che da lui aveva preso nome. Innumerevoli immagini sacre delle due Dee sono state ritrovate nel santuario della Malophoros a Selinunte, e tra i più celebri santuari era soprattutto quello di Enna: come parte del suo progetto di ellenizzazione, il tiranno di Siracusa Gelone aveva diffuso il culto di Demetra nell´interno dell´Isola. Un forte legame mitico si era così venuto a creare fra Siracusa e Enna, rafforzato dal carattere fortemente plebeo e popolare del culto di Demetra. Le feste Tesmophorie erano riservate alle donne e vietate agli uomini, i quali non potevano neanche guardare il simulacro della dea. Ateneo racconta che per l´occasione venivano confezionati dolci detti mylloi a forma degli organi sessuali femminili, era inoltre permesso il turpiloquio (aiscrologein), il cui scopo era quello di suscitare il riso sulle labbra della dea afflitta per la perdita della figlia; nel lancio di motti e lazzi osceni sarebbe stata l´origine della poesia giambica. Un forte legame fra sesso e agricoltura è rintracciabile in molte culture del mondo ed era presente fin dagli albori della civiltà umana. «La mia terra giace incolta», cantavano i riti ierogamici dei Sumeri, «che sarà di me Inanna? Chi seminerà la mia vagina con l´aratro?». Antonino Uccello riferisce che fino a un´epoca abbastanza recente nelle campagne di Noto si soleva invocare San Benedetto per "ingravidare il frumento" (San Binidittu ‘mprena li lavuri). Con la pubblicazione di "Il ciclo del grano nella terra di Demetra", realizzata con il contributo della Camera di commercio di Enna e della società concertile Rocca di Cerere, la Regione Siciliana ha inteso porgere omaggio a una delle vocazioni più antiche della Sicilia, la coltivazione del grano.
MARCELLA CROCE
6 maggio 2008, LA REPUBBLICA - Palermo
Un libro ricostruisce miti e tradizioni collegati alla fertilità della terra
Formule magiche nei riti antichi per propiziare i raccolti in tutta l´Isola dalla semina alla mietitura fino alla cottura del pane
icerone dava per scontato che l´intera Sicilia appartenesse alla dea Demetra, dea del grano e della terra; dopo il furto della statua della dea dal santuario ennese da parte di Verre, gli abitanti attribuirono a questo sacrilegio le carestie che colpirono molte città dell´Isola. La Sicilia antica pullulava di templi dedicati al culto di Demetra e a sua figlia Persefone (detta anche Kore, cioè "ragazza"), e in essi potevano entrare solo le donne: a Catania c´erano due templi delle dee, uno dentro e l´altro fuori la città, e quando Verre tentò di portare via il simulacro della dea anche da lì, le sacerdotesse reclamarono davanti ai magistrati. Ancora nel 1756, in occasione di una spaventosa carestia, i catanesi eressero una statua alla dea Cerere che si trova attualmente in piazza Università e il marchese di Villabianca riferisce che a Palermo il giorno dell´Assunzione, malgrado i ripetuti tentativi di proibire questa pratica, si continuava a fare una solenne processione a Maredolce dove si sapeva avessero avuto anticamente luogo i riti di Cerere/Demetra.
«Gli Ennesi credono che Cerere abiti presso di loro, tanto che mi sembravano non cittadini di quella città, ma tutti sacerdoti, tutti ministri della Dea» (Verrem IV, 49, 50): le città di Enna, Morgantina, Assoro e Agira vengono citate da Cicerone come i territori dove la produzione di frumento era talmente ricca che «a vederli coperti di spighe si cessava di temere la carestia»; molti secoli dopo anche Goethe visitando le province interne della Sicilia rimase colpito dalla vista di tutti quei campi di frumento. Nel volume "Il ciclo del grano nella terra di Demetr"a, recentemente pubblicato dalla Sovrintendenza regionale dei Beni culturali della Provincia di Enna, Claudio Paterna ha curato la parte riguardante le relazioni pubbliche, sociali e simboliche dell´agricoltore, e Salvatore Scalisi quella relativa all´intero ciclo del grano, con un´accurata esposizione di tutto lo svolgimento del calendario solare agrario mediterraneo, dall´aratura e semina dell´autunno, al magico spuntare del primo germoglio primaverile, dalla raccolta e trebbiatura dell´estate fino alla molitura e infine al miracolo della panificazione.
La luna, il cielo, il mondo, il paesaggio, gli animali, il fuoco, la luce: tutti elementi che nel mondo contadino venivano considerati controllabili a opera di forze magico-religiose che intendevano esorcizzare la pericolosa precarietà legata agli eventi atmosferici. Nel volume della Regione, Paterna ha esaminato gli auspici, i pronostici, il computo del tempo, il valore simbolico degli attrezzi, le feste, i proverbi e le tradizioni che riflettono le credenze nella forze della natura e della Madre Terra.
Nell´inno omerico a Demetra si trova la narrazione più antica del mito: mentre Persefone stava giocando sulle sponde del lago di Pergusa con alcune ninfe, Ade la rapì dalla terra e la portò con sé nel suo regno. La vita sulla terra si fermò e la disperata Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta. Alla fine Zeus, non potendo più permettere che la terra morisse, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone e mandò Hermes a riprenderla. Prima di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melograno magici, che l´avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all´anno. Da quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose ma per quattro mesi all´anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda.
Da numerose fonti antiche sappiamo che gli abitanti della Sicilia, che per il mito avevano ricevuto per primi il dono del grano, istituirono in onore di Demetra e Kore sacrifici e feste, tra cui la katagogè della fanciulla, cioè il suo "rapimento verso gli Inferi", e il suo ritorno (anagoghé). Nella monetazione e nella coroplastica antica Demetra e Persefone sono accompagnate da una spiga o da focacce di pane o da un maialino, simbolo di abbondanza o ancora dalle fiaccole che erano loro necessarie per illuminare il regno dell´Ade. Diodoro Siculo riferisce che Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell´Etna, e fino a una cinquantina di anni fa la grotta di Galerno alle falde del vulcano veniva indicata come il luogo da cui si sarebbe mosso Ade per rapire Proserpina: sulla strada si sarebbe fermato ad Aidone che da lui aveva preso nome. Innumerevoli immagini sacre delle due Dee sono state ritrovate nel santuario della Malophoros a Selinunte, e tra i più celebri santuari era soprattutto quello di Enna: come parte del suo progetto di ellenizzazione, il tiranno di Siracusa Gelone aveva diffuso il culto di Demetra nell´interno dell´Isola. Un forte legame mitico si era così venuto a creare fra Siracusa e Enna, rafforzato dal carattere fortemente plebeo e popolare del culto di Demetra. Le feste Tesmophorie erano riservate alle donne e vietate agli uomini, i quali non potevano neanche guardare il simulacro della dea. Ateneo racconta che per l´occasione venivano confezionati dolci detti mylloi a forma degli organi sessuali femminili, era inoltre permesso il turpiloquio (aiscrologein), il cui scopo era quello di suscitare il riso sulle labbra della dea afflitta per la perdita della figlia; nel lancio di motti e lazzi osceni sarebbe stata l´origine della poesia giambica. Un forte legame fra sesso e agricoltura è rintracciabile in molte culture del mondo ed era presente fin dagli albori della civiltà umana. «La mia terra giace incolta», cantavano i riti ierogamici dei Sumeri, «che sarà di me Inanna? Chi seminerà la mia vagina con l´aratro?». Antonino Uccello riferisce che fino a un´epoca abbastanza recente nelle campagne di Noto si soleva invocare San Benedetto per "ingravidare il frumento" (San Binidittu ‘mprena li lavuri). Con la pubblicazione di "Il ciclo del grano nella terra di Demetra", realizzata con il contributo della Camera di commercio di Enna e della società concertile Rocca di Cerere, la Regione Siciliana ha inteso porgere omaggio a una delle vocazioni più antiche della Sicilia, la coltivazione del grano.
Turchia: Un santuario nell’era paleolitica
La Repubblica 6.5.08
La rivista "Archeo" rivela la scoperta in Turchia
Un santuario nell’era paleolitica
di Giuseppe M. Della Fina
La collinetta Göbekli Tepe nascondeva un complesso sacro con grandi stele scolpite: impresa finora ritenuta impossibile per quel livello di sviluppo
Göbekli Tepe è il nome di una collinetta situata nella Turchia sud - orientale a pochi chilometri dalla città di Urfa conosciuto ancora da un numero limitato di persone, ma è destinato a divenire presto molto noto al pari dei maggiori siti archeologici del mondo. Archeologi tedeschi dell´Università di Heidelberg, guidati da Klaus Schmidt, vi hanno rinvenuto infatti un complesso monumentale, con ogni probabilità un santuario, databile agli inizi del Neolitico vale a dire circa seimila anni prima della costruzione delle piramidi in Egitto.
Gli straordinari risultati sono presentati in anteprima per l´Italia nel numero di maggio della rivista Archeo. Gli archeologi hanno riportato alla luce quattro strutture circolari delimitate da muri, realizzati in fango essiccato e frammenti di pietra, alti sino a 3 metri. I circoli raggiungono un diametro tra i 10 e i 20 metri e sono datati alla fase più antica del sito denominata Göbekli Tepe 3 (9500-8500 a. C.). Nei muri risultano inserite grandi stele monolitiche a forma di T, alte dai 3 ai 7 metri e con un peso che può raggiungere le 5 tonnellate. Sinora ne sono state individuate 44 e appaiono decorate da immagini di animali reali resi con un tratto naturalistico: cinghiali, leoni, volpi, tori, gazzelle, asini selvatici, anitre, avvoltoi, serpenti, ragni, scorpioni. Vi sono raffigurati anche esseri umani con teste di animali che potrebbero – a giudizio degli scavatori – rappresentare degli sciamani.
Klaus Schmidt nel 1995 giunse per la prima volta sul posto e si rese conto subito che la collina non era un´altura naturale, ma doveva nascondere un tesoro archeologico. Si trovava dunque «in presenza di un sito che risaliva alla prima fase del Neolitico, detta aceramica o preceramica». La scoperta era già considerevole, ma riservava ancora le sorprese maggiori. Negli anni successivi, agli occhi stupefatti degli archeologi sono apparsi i resti della prima stele, delle altre e i frammenti di una scultura animale.
Ora sappiamo che una comunità di cacciatori e raccoglitori era riuscita in un´impresa ritenuta sinora impossibile per il loro livello di sviluppo, vale a dire la costruzione di un complesso monumentale caratterizzato da grandi stele scolpite. Un risultato in grado di cambiare in profondità il giudizio sull´età paleolitica e di sconvolgere consolidati primati in fatto di architettura e scultura.
Siamo sicuri di trovarci di fronte a un santuario? Lo scopritore ne è certo: «si tratta di veri e propri recinti sacri, spazi separati dal mondo destinati a pratiche religiose, cultuali», dove dovrebbe essere stato praticato il culto totemico degli antenati, rappresentati dalle stele-pilastro, e quello dei morti incentrato su sepolture rituali.
Lo scavo ha interessato al momento soltanto una parte dell´area archeologica, forse soltanto il 5% dell´insediamento, e le indagini geofisiche hanno segnalato l´esistenza di altri 20 circoli da riportare alla luce. Una stima avanzata dagli scavatori prevede che le stele da scoprire siano ancora almeno 150. Una delle maggiori avventure dell´archeologia ha mosso i suoi passi iniziali.
La rivista "Archeo" rivela la scoperta in Turchia
Un santuario nell’era paleolitica
di Giuseppe M. Della Fina
La collinetta Göbekli Tepe nascondeva un complesso sacro con grandi stele scolpite: impresa finora ritenuta impossibile per quel livello di sviluppo
Göbekli Tepe è il nome di una collinetta situata nella Turchia sud - orientale a pochi chilometri dalla città di Urfa conosciuto ancora da un numero limitato di persone, ma è destinato a divenire presto molto noto al pari dei maggiori siti archeologici del mondo. Archeologi tedeschi dell´Università di Heidelberg, guidati da Klaus Schmidt, vi hanno rinvenuto infatti un complesso monumentale, con ogni probabilità un santuario, databile agli inizi del Neolitico vale a dire circa seimila anni prima della costruzione delle piramidi in Egitto.
Gli straordinari risultati sono presentati in anteprima per l´Italia nel numero di maggio della rivista Archeo. Gli archeologi hanno riportato alla luce quattro strutture circolari delimitate da muri, realizzati in fango essiccato e frammenti di pietra, alti sino a 3 metri. I circoli raggiungono un diametro tra i 10 e i 20 metri e sono datati alla fase più antica del sito denominata Göbekli Tepe 3 (9500-8500 a. C.). Nei muri risultano inserite grandi stele monolitiche a forma di T, alte dai 3 ai 7 metri e con un peso che può raggiungere le 5 tonnellate. Sinora ne sono state individuate 44 e appaiono decorate da immagini di animali reali resi con un tratto naturalistico: cinghiali, leoni, volpi, tori, gazzelle, asini selvatici, anitre, avvoltoi, serpenti, ragni, scorpioni. Vi sono raffigurati anche esseri umani con teste di animali che potrebbero – a giudizio degli scavatori – rappresentare degli sciamani.
Klaus Schmidt nel 1995 giunse per la prima volta sul posto e si rese conto subito che la collina non era un´altura naturale, ma doveva nascondere un tesoro archeologico. Si trovava dunque «in presenza di un sito che risaliva alla prima fase del Neolitico, detta aceramica o preceramica». La scoperta era già considerevole, ma riservava ancora le sorprese maggiori. Negli anni successivi, agli occhi stupefatti degli archeologi sono apparsi i resti della prima stele, delle altre e i frammenti di una scultura animale.
Ora sappiamo che una comunità di cacciatori e raccoglitori era riuscita in un´impresa ritenuta sinora impossibile per il loro livello di sviluppo, vale a dire la costruzione di un complesso monumentale caratterizzato da grandi stele scolpite. Un risultato in grado di cambiare in profondità il giudizio sull´età paleolitica e di sconvolgere consolidati primati in fatto di architettura e scultura.
Siamo sicuri di trovarci di fronte a un santuario? Lo scopritore ne è certo: «si tratta di veri e propri recinti sacri, spazi separati dal mondo destinati a pratiche religiose, cultuali», dove dovrebbe essere stato praticato il culto totemico degli antenati, rappresentati dalle stele-pilastro, e quello dei morti incentrato su sepolture rituali.
Lo scavo ha interessato al momento soltanto una parte dell´area archeologica, forse soltanto il 5% dell´insediamento, e le indagini geofisiche hanno segnalato l´esistenza di altri 20 circoli da riportare alla luce. Una stima avanzata dagli scavatori prevede che le stele da scoprire siano ancora almeno 150. Una delle maggiori avventure dell´archeologia ha mosso i suoi passi iniziali.
Sunday, May 04, 2008
ARCHEOLOGIA: ETRUSCHI, STUDIO CONFERMA ERODOTO SU ORIGINE
ARCHEOLOGIA: ETRUSCHI, STUDIO CONFERMA ERODOTO SU ORIGINE
New York, 4 aprILE 2007 - (Adnkronos) -
Nuova luce sulla controversa e dibattuta questione dell'origine degli Etruschi. I ricercatori del Laboratorio di Genetica Umana dell'Universita' di Pavia, diretto dal professor Antonio Torroni, partendo dallo studio del Dna mitocondriale dei toscani moderni, hanno concluso, in accordo con alcuni fonti classiche, tra cui Erodoto, che gli Etruschi sono di origine mediorientale e giunsero in Toscana via mare.
''Forse aveva ragione Erodoto, convinto che gli Etruschi migrarono nell'Italia centrale provenienti dal Vicino Oriente'', scrive il ''New York Times'' in un ampio articolo di Nicholas Wade dedicato ai piu' recenti studi scientifici pubblicati sul controverso tema dell'origine della popolazione etrusca.
Lo studio dei ricercatori di Pavia ha confrontato il Dna mitocondriale dei toscani con quello di oltre 15.000 soggetti provenienti da altre 55 popolazioni dell'Eurasia occidentale (tra cui sette italiane) sia a livello di aplotipo che di aplogruppo mitocondriale, intendendo per aplotipo mitocondriale l'insieme delle mutazioni del Dna mitocondriale di un individuo e per aplogruppo un gruppo di aplotipi che condivide alcune di queste varianti.
New York, 4 aprILE 2007 - (Adnkronos) -
Nuova luce sulla controversa e dibattuta questione dell'origine degli Etruschi. I ricercatori del Laboratorio di Genetica Umana dell'Universita' di Pavia, diretto dal professor Antonio Torroni, partendo dallo studio del Dna mitocondriale dei toscani moderni, hanno concluso, in accordo con alcuni fonti classiche, tra cui Erodoto, che gli Etruschi sono di origine mediorientale e giunsero in Toscana via mare.
''Forse aveva ragione Erodoto, convinto che gli Etruschi migrarono nell'Italia centrale provenienti dal Vicino Oriente'', scrive il ''New York Times'' in un ampio articolo di Nicholas Wade dedicato ai piu' recenti studi scientifici pubblicati sul controverso tema dell'origine della popolazione etrusca.
Lo studio dei ricercatori di Pavia ha confrontato il Dna mitocondriale dei toscani con quello di oltre 15.000 soggetti provenienti da altre 55 popolazioni dell'Eurasia occidentale (tra cui sette italiane) sia a livello di aplotipo che di aplogruppo mitocondriale, intendendo per aplotipo mitocondriale l'insieme delle mutazioni del Dna mitocondriale di un individuo e per aplogruppo un gruppo di aplotipi che condivide alcune di queste varianti.
Quanto tempo abbiamo per cambiare idea
Corriere della Sera 4.5.08
Neuroscienze Scoperti i meccanismi della capacità decisionale
Quanto tempo abbiamo per cambiare idea
Individuati anche i neuroni del «libero arbitrio»
Due recenti ricerche rivelano che dietro ogni scelta c'è un'attività cerebrale più complessa di quanto si ritenesse
di Cesare Peccarisi
Quando ci siamo recati alle urne, abbiamo fatto una libera scelta. Ne siamo tutti convinti. Ma potrebbe non essere così. E non ce lo dicono dei politologi, ma dei ricercatori.
Secondo vari scienziati, infatti — da Benjamin Libet della California University, a Patrick Haggard dell'Università di Londra — la sensazione di essere sempre liberi di cambiare idea è solo un'illusione, perché le nostre decisioni sono determinate da processi mentali inconsci iniziati tempo prima. Ora le teorie dei due studiosi, e di molti altri, hanno trovato conferma in uno studio pubblicato recentemente su Nature Neuroscience.
Per restare all'esempio "elettorale", la scelta di un simbolo avverrebbe "ben" un secondo prima che la matita tracci la croce (già molto per il sistema nervoso) e in un'area del cervello diversa da quella che farà muovere la mano.
Quest'area, poi, non è, come si pensava, la cosiddetta area motoria supplementare (un'anticamera intelligente dell'area motoria che ci fa eseguire le azioni), bensì la più "nobile" corteccia frontopolare (zona anteriore della corteccia frontale) che, prima di "avviare" la decisione alle aree motorie, la passa al precuneo, dove viene trattenuta finché non ne abbiamo presa piena coscienza. I ricercatori tedeschi, diretti da John Dylan Haynes dell'Istituto di Neuroscienze Max Planck, di Leipzig, che hanno identificato i ruoli di queste aree, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale in persone che potevano premere dei tasti assolutamente a piacere mentre osservavano alcuni segnali che comparivano sullo schermo di un computer posto davanti a loro.
Scoprire dove il pensiero trascorre l'intervallo fra decisione e azione non è un cavillo neurofisiologico, ma l'opportunità per considerazioni che investono la natura stessa dell'uomo. E non è finita qui. Sull'ultimo numero di Nature i ricercatori dell'Università di New York e del California Institute of Technology di Pasadena, diretti da Bijan Pesaran, sono andati oltre le ricerche tedesche, individuando, quantomeno nella scimmia, quello che nell'uomo potrebbe essere definito il "circuito del libero arbitrio".
Si tratta di un particolare gruppo di neuroni della corteccia frontale e parietale connessi fra loro, la cui attività aumenta solo quando si può scegliere liberamente che cosa fare, invece di dover seguire rigide istruzioni. Il prezioso dono del "libero arbitrio" risiederebbe, quindi, in un fascio di fibre nervose a cavallo fra corteccia frontale e parietale che vengono utilizzate quando si presenta la possibilità di operare una libera scelta.
Non c'è dubbio, però, che il riduzionismo scientifico di queste scoperte sembri stridere con i concetti di libertà di pensiero e di scelta che travalicano le scienze biomediche. E di questo si è parlato, l'11 aprile, in un convegno intitolato "Le patologie della volizione: libertà impedita, libertà liberata", convegno che ha raccolto a Milano neuroricercatori, giuristi e teologi di fama internazionale.
«Tradurre le intenzioni in azioni è una caratteristica distintiva dell'uomo e richiede la consapevolezza di sé e delle situazioni ambientali e sociali — ha commentato Paolo Maria Rossini, dell'Università Campus Bio-Medico di Roma —. Ecco perché i disturbi della volizione dovuti ad alcune malattie neurologiche, impongono sempre problemi etici legati all'attribuzione di responsabilità delle azioni dei pazienti, soprattutto nelle fasi precoci di malattie come l'Alzheimer dove si possono manifestare anche comportamenti violenti che in realtà non hanno alcuna matrice aggressiva ».
Neuroscienze Scoperti i meccanismi della capacità decisionale
Quanto tempo abbiamo per cambiare idea
Individuati anche i neuroni del «libero arbitrio»
Due recenti ricerche rivelano che dietro ogni scelta c'è un'attività cerebrale più complessa di quanto si ritenesse
di Cesare Peccarisi
Quando ci siamo recati alle urne, abbiamo fatto una libera scelta. Ne siamo tutti convinti. Ma potrebbe non essere così. E non ce lo dicono dei politologi, ma dei ricercatori.
Secondo vari scienziati, infatti — da Benjamin Libet della California University, a Patrick Haggard dell'Università di Londra — la sensazione di essere sempre liberi di cambiare idea è solo un'illusione, perché le nostre decisioni sono determinate da processi mentali inconsci iniziati tempo prima. Ora le teorie dei due studiosi, e di molti altri, hanno trovato conferma in uno studio pubblicato recentemente su Nature Neuroscience.
Per restare all'esempio "elettorale", la scelta di un simbolo avverrebbe "ben" un secondo prima che la matita tracci la croce (già molto per il sistema nervoso) e in un'area del cervello diversa da quella che farà muovere la mano.
Quest'area, poi, non è, come si pensava, la cosiddetta area motoria supplementare (un'anticamera intelligente dell'area motoria che ci fa eseguire le azioni), bensì la più "nobile" corteccia frontopolare (zona anteriore della corteccia frontale) che, prima di "avviare" la decisione alle aree motorie, la passa al precuneo, dove viene trattenuta finché non ne abbiamo presa piena coscienza. I ricercatori tedeschi, diretti da John Dylan Haynes dell'Istituto di Neuroscienze Max Planck, di Leipzig, che hanno identificato i ruoli di queste aree, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale in persone che potevano premere dei tasti assolutamente a piacere mentre osservavano alcuni segnali che comparivano sullo schermo di un computer posto davanti a loro.
Scoprire dove il pensiero trascorre l'intervallo fra decisione e azione non è un cavillo neurofisiologico, ma l'opportunità per considerazioni che investono la natura stessa dell'uomo. E non è finita qui. Sull'ultimo numero di Nature i ricercatori dell'Università di New York e del California Institute of Technology di Pasadena, diretti da Bijan Pesaran, sono andati oltre le ricerche tedesche, individuando, quantomeno nella scimmia, quello che nell'uomo potrebbe essere definito il "circuito del libero arbitrio".
Si tratta di un particolare gruppo di neuroni della corteccia frontale e parietale connessi fra loro, la cui attività aumenta solo quando si può scegliere liberamente che cosa fare, invece di dover seguire rigide istruzioni. Il prezioso dono del "libero arbitrio" risiederebbe, quindi, in un fascio di fibre nervose a cavallo fra corteccia frontale e parietale che vengono utilizzate quando si presenta la possibilità di operare una libera scelta.
Non c'è dubbio, però, che il riduzionismo scientifico di queste scoperte sembri stridere con i concetti di libertà di pensiero e di scelta che travalicano le scienze biomediche. E di questo si è parlato, l'11 aprile, in un convegno intitolato "Le patologie della volizione: libertà impedita, libertà liberata", convegno che ha raccolto a Milano neuroricercatori, giuristi e teologi di fama internazionale.
«Tradurre le intenzioni in azioni è una caratteristica distintiva dell'uomo e richiede la consapevolezza di sé e delle situazioni ambientali e sociali — ha commentato Paolo Maria Rossini, dell'Università Campus Bio-Medico di Roma —. Ecco perché i disturbi della volizione dovuti ad alcune malattie neurologiche, impongono sempre problemi etici legati all'attribuzione di responsabilità delle azioni dei pazienti, soprattutto nelle fasi precoci di malattie come l'Alzheimer dove si possono manifestare anche comportamenti violenti che in realtà non hanno alcuna matrice aggressiva ».
Saturday, May 03, 2008
L'occhio vede, il cervello sa già. I neuroni «capiscono» prima ciò che si imprimerà nella retina
Corriere della Sera 3.5.08
Da uno studio del San Raffaele nuovi risultati sui meccanismi cerebrali della percezione visiva
L'occhio vede, il cervello sa già
I neuroni «capiscono» prima ciò che si imprimerà nella retina
di Massimo Piattelli Palmarini
Gli studi di due neuroscienziati del San Raffaele di Milano confermano la distinzione tra stimolo visivo e percezione consapevole. Il ruolo delle saccadi, rapidi movimenti oculari: dai loro «tempi» dipende la presa di coscienza di ciò che ci circonda
In questi ultimi anni, la registrazione fine dei processi cerebrali in tempo reale ci ha rivelato qualcosa che forse non ci fa del tutto piacere. Cioè che il nostro cervello, o meglio qualche porzione di esso, «sa» cosa faremo un attimo prima che noi stessi lo si sappia. Metto questo «sa» tra virgolette, in quanto ci è arduo credere che un ammasso di cellule, per quanto solerti e ben interconnesse, possa davvero sapere qualcosa. Resta il fatto, comunque, che qualcuno al di fuori di noi può tendenzialmente prevedere quanto noi, dopo qualche attimo, sentiremo e faremo.
Solo qualche attimo, certo, ma esiste davvero il libero arbitrio, se percepire, sentire e decidere discendono da binari cerebrali così obbligati? Un nuovo risultato viene ora rivelato, sull'ultimo numero della rivista internazionale specialistica The Journal of Neuroscience, da due neuroscienziati e psicologi sperimentali dell'Università San Raffaele di Milano: Claudio de' Sperati e Gabriel Baud-Bovy. I loro astuti esperimenti mostrano come il dramma che potremmo intitolare «neurone sa, ma tu (ancora) no!» investa anche il guardare e il vedere, ovvero quanto di più basilare, onnipresente e rapido esiste nella nostra vita mentale e cerebrale. Premettiamo che, senza requie, due o tre volte al secondo, i nostri occhi fanno qualcosa di cui non abbiamo alcuna consapevolezza, cioè rapidissimi movimenti in varie direzioni, chiamate in gergo saccadi. Se, per assurdo, un movimento saccadico potesse durare un intero secondo, il nostro occhio girerebbe su se stesso circa tre volte. Ebbene, de' Sperati mi dice testualmente: «I movimenti oculari saccadici sono a un tempo padroni e schiavi della visione. Padroni, perché sono loro a dettare quale stimolo visivo cadrà sulla retina; schiavi, perché sono guidati dalle domande che il nostro cervello pone come conseguenza di ogni successiva fissazione oculare».
I loro esperimenti rivelano qualcosa che già si supponeva, cioè che l'occhio si indirizza verso un oggetto prima che questo sia stato visto in maniera pienamente consapevole. Si guarda prima di vedere, insomma.
Baud-Bovy mi spiega, in breve sintesi, l'esperimento stesso: «Si fa lampeggiare per un istante un puntino luminoso in prossimità di un secondo stimolo in movimento. Il primo stimolo non viene percepito nella sua posizione fisica, bensì stabilmente spostato di una piccola quantità in direzione del movimento, come se il movimento del secondo stimolo avesse trascinato con sé il primo stimolo». Quale lezione trarne? «Ci si potrebbe aspettare che, se si chiede a un osservatore di muovere gli occhi verso il primo stimolo, questi guardi verso la posizione percepita (e illusoria), e non verso la posizione fisica dello stimolo, che non viene registrata nella percezione. E così è infatti, ma solo se la saccade parte un po' meno di mezzo secondo dopo la presentazione dello stimolo, cioè abbastanza tardi (si consideri che una saccade può essere diretta a un bersaglio in soli uno o due decimi di secondo). Se la saccade parte prima, il movimento oculare è invece accurato, ed è diretto verso la posizione fisica, invisibile, del primo stimolo. Quanto più la saccade ritarda a partire, tanto più è "contaminata" dalla percezione illusoria. In altre parole, nel "primo mezzo secondo", guardare (la saccade) e vedere (l'immagine cosciente dello stimolo) sono dissociati, e le saccadi, pur essendo accurate, partono "alla cieca". Solo nel volgere di mezzo secondo dalla presentazione dello stimolo i meccanismi di generazione delle saccadi accedono pienamente al segnale visivo che corrisponde alla visione cosciente». La scommessa degli autori è che il graduale cambiamento della codifica della direzione saccadica nel tempo riveli la dinamica temporale della formazione della percezione visiva consapevole nella corteccia cerebrale, cosa che si è sempre rivelata assai ardua da studiare. Da circa quindici anni si sapeva che esistono due canali cerebrali distinti: uno che presiede alle risposte motorie a uno stimolo visivo (movimenti dell'occhio compresi), e un altro che presiede in qualche modo misterioso ciò che noi percepiamo consapevolmente a seguito di quello stesso stimolo. Un canale per il «cosa» e uno per il «dove», che poi vanno a ricomporsi.
Questa nuova scoperta di de' Sperati e Baud-Bovy conferma che le due vie sono anatomicamente separate, non solo, ma che lo sono anche i loro tempi di elaborazione dei segnali rispettivi. Mi spiegano: «Il segnale visivo in arrivo dalla retina è utilizzabile dopo pochissimo tempo dai circuiti della corteccia che generano i movimenti oculari saccadici, ma solo in un secondo momento dà luogo alla percezione consapevole». Che si possa guardare senza vedere, insomma, non è solo il risultato di distrazione, dell'avere la testa tra le nuvole, bensì di meccanismi microscopici connaturati a come funziona il nostro cervello.
Da uno studio del San Raffaele nuovi risultati sui meccanismi cerebrali della percezione visiva
L'occhio vede, il cervello sa già
I neuroni «capiscono» prima ciò che si imprimerà nella retina
di Massimo Piattelli Palmarini
Gli studi di due neuroscienziati del San Raffaele di Milano confermano la distinzione tra stimolo visivo e percezione consapevole. Il ruolo delle saccadi, rapidi movimenti oculari: dai loro «tempi» dipende la presa di coscienza di ciò che ci circonda
In questi ultimi anni, la registrazione fine dei processi cerebrali in tempo reale ci ha rivelato qualcosa che forse non ci fa del tutto piacere. Cioè che il nostro cervello, o meglio qualche porzione di esso, «sa» cosa faremo un attimo prima che noi stessi lo si sappia. Metto questo «sa» tra virgolette, in quanto ci è arduo credere che un ammasso di cellule, per quanto solerti e ben interconnesse, possa davvero sapere qualcosa. Resta il fatto, comunque, che qualcuno al di fuori di noi può tendenzialmente prevedere quanto noi, dopo qualche attimo, sentiremo e faremo.
Solo qualche attimo, certo, ma esiste davvero il libero arbitrio, se percepire, sentire e decidere discendono da binari cerebrali così obbligati? Un nuovo risultato viene ora rivelato, sull'ultimo numero della rivista internazionale specialistica The Journal of Neuroscience, da due neuroscienziati e psicologi sperimentali dell'Università San Raffaele di Milano: Claudio de' Sperati e Gabriel Baud-Bovy. I loro astuti esperimenti mostrano come il dramma che potremmo intitolare «neurone sa, ma tu (ancora) no!» investa anche il guardare e il vedere, ovvero quanto di più basilare, onnipresente e rapido esiste nella nostra vita mentale e cerebrale. Premettiamo che, senza requie, due o tre volte al secondo, i nostri occhi fanno qualcosa di cui non abbiamo alcuna consapevolezza, cioè rapidissimi movimenti in varie direzioni, chiamate in gergo saccadi. Se, per assurdo, un movimento saccadico potesse durare un intero secondo, il nostro occhio girerebbe su se stesso circa tre volte. Ebbene, de' Sperati mi dice testualmente: «I movimenti oculari saccadici sono a un tempo padroni e schiavi della visione. Padroni, perché sono loro a dettare quale stimolo visivo cadrà sulla retina; schiavi, perché sono guidati dalle domande che il nostro cervello pone come conseguenza di ogni successiva fissazione oculare».
I loro esperimenti rivelano qualcosa che già si supponeva, cioè che l'occhio si indirizza verso un oggetto prima che questo sia stato visto in maniera pienamente consapevole. Si guarda prima di vedere, insomma.
Baud-Bovy mi spiega, in breve sintesi, l'esperimento stesso: «Si fa lampeggiare per un istante un puntino luminoso in prossimità di un secondo stimolo in movimento. Il primo stimolo non viene percepito nella sua posizione fisica, bensì stabilmente spostato di una piccola quantità in direzione del movimento, come se il movimento del secondo stimolo avesse trascinato con sé il primo stimolo». Quale lezione trarne? «Ci si potrebbe aspettare che, se si chiede a un osservatore di muovere gli occhi verso il primo stimolo, questi guardi verso la posizione percepita (e illusoria), e non verso la posizione fisica dello stimolo, che non viene registrata nella percezione. E così è infatti, ma solo se la saccade parte un po' meno di mezzo secondo dopo la presentazione dello stimolo, cioè abbastanza tardi (si consideri che una saccade può essere diretta a un bersaglio in soli uno o due decimi di secondo). Se la saccade parte prima, il movimento oculare è invece accurato, ed è diretto verso la posizione fisica, invisibile, del primo stimolo. Quanto più la saccade ritarda a partire, tanto più è "contaminata" dalla percezione illusoria. In altre parole, nel "primo mezzo secondo", guardare (la saccade) e vedere (l'immagine cosciente dello stimolo) sono dissociati, e le saccadi, pur essendo accurate, partono "alla cieca". Solo nel volgere di mezzo secondo dalla presentazione dello stimolo i meccanismi di generazione delle saccadi accedono pienamente al segnale visivo che corrisponde alla visione cosciente». La scommessa degli autori è che il graduale cambiamento della codifica della direzione saccadica nel tempo riveli la dinamica temporale della formazione della percezione visiva consapevole nella corteccia cerebrale, cosa che si è sempre rivelata assai ardua da studiare. Da circa quindici anni si sapeva che esistono due canali cerebrali distinti: uno che presiede alle risposte motorie a uno stimolo visivo (movimenti dell'occhio compresi), e un altro che presiede in qualche modo misterioso ciò che noi percepiamo consapevolmente a seguito di quello stesso stimolo. Un canale per il «cosa» e uno per il «dove», che poi vanno a ricomporsi.
Questa nuova scoperta di de' Sperati e Baud-Bovy conferma che le due vie sono anatomicamente separate, non solo, ma che lo sono anche i loro tempi di elaborazione dei segnali rispettivi. Mi spiegano: «Il segnale visivo in arrivo dalla retina è utilizzabile dopo pochissimo tempo dai circuiti della corteccia che generano i movimenti oculari saccadici, ma solo in un secondo momento dà luogo alla percezione consapevole». Che si possa guardare senza vedere, insomma, non è solo il risultato di distrazione, dell'avere la testa tra le nuvole, bensì di meccanismi microscopici connaturati a come funziona il nostro cervello.
Subscribe to:
Posts (Atom)