LE IDEE
Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?
di GUSTAVO ZAGREBELSKY
Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato
tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in
negativo, come i non-cattolici), presuppone una
condizione: che le parti si riconoscano pari, in
razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto
che l´altro non è solo uno che pensa diversamente, ma
è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o un
immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà
tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige
questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si
potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega
che procrastina lo scontro e rafforza intanto le
posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà.
Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva
perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi
è colto in errore, si libera di un male e quindi
riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per
comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e
apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua
strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate.
Onde, se sinceramente si dice: "Il dialogo, così
necessario, tra laici e cattolici" (J. Ratzinger,
L´Europa nella crisi delle culture, Il Regno –
documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo
riconoscimento di razionalità e moralità sia
acquisito. Ma è così?
Nei pubblici interventi della gerarchia cattolica
sulla condizione della fede cristiana nel mondo
attuale, domina un dubbio angoscioso circa la fine
imminente di un ciclo storico, iniziato
millesettecento anni fa, con l´unione della fede
cristiana e della potenza politica, rappresentata
allora dall´Impero romano. Il dubbio non è che la fede
religiosa, e tanto meno la fede cristiana, in quanto
tali, siano destinate a scomparire: l´evidenza mostra
il contrario.
Il dubbio serpeggiante è invece che la fede cattolica
sia destinata a essere assorbita nella sfera puramente
soggettiva delle essenze spirituali individuali,
perdendo così valore oggettivo e vincolante di
coesione sociale. In una formula: credere senza
appartenere. Così si spiega l´insistenza, mai stata
così accentuata, sulla dimensione necessariamente
pubblica o politica della religione cristiana
cattolica (e solo di questa). L´Europa, si ripete
all´infinito, è in decadenza e, si aggiunge, ciò
deriva dal fatto che l´oggettività sembra essere
diventato il privilegio esclusivo della scienza. Tutto
ciò che scienza non è, sarebbe irrimediabilmente
sottoposto al relativismo delle credenze individuali
che, nella sfera pubblica democratica, si esprimono
illimitatamente e arbitrariamente con la forza del
numero.
Nihil sub sole novum. Se leggessimo oggi la Quanta
cura, l´Enciclica del Sillabo (1861), troveremmo molte
ragioni di riflessione comparativa tra lo spirito di
allora e quello che domina oggi nelle alte sfere. In
quella «tristissima età nostra», scriveva Pio IX, si
trattava di difendersi dalla secolarizzazione
politica, dal liberalismo, dalla libertà di coscienza,
dalla riduzione dell´autorità a forza del numero,
dalla filosofia senza teologia; in breve: dalla
«moderna civiltà». Oggi molte cose sono cambiate, a
iniziare dal linguaggio, onde non si parla più, ad
esempio, di uomini empi «che schizzano come i flutti
di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e
promettono libertà, mentre sono schiavi della
corruzione» (una citazione tra tante). Ma la
sensazione cattolica dell´assedio in «una Europa –
diciamo così (così dice il papa Benedetto XVI) – in
decadenza» non è diversa. Le cause sono ancora quelle
di allora, attualizzate: non più il liberalismo ma la
democrazia «insana», cioè basata sull´onnipotenza del
numero; non più la libertà di coscienza ma il
«relativismo etico»; non più la filosofia atea ma la
scienza che non conosce limiti. Allora come oggi, la
radice del male è il rifiuto di riconoscere nel
magistero della Chiesa, in ultima e decisiva istanza,
il fondamento vincolante della civiltà europea, un
rifiuto che sottoporrebbe l´Europa di oggi a una
"prova di trazione" fuori della tradizione cristiana.
Ciò che sembra diverso è l´atteggiamento: allora, alla
denuncia del male, seguiva il rifiuto del mondo
ostile; oggi, l´apertura al mondo. I nemici di allora
sono diventati «i nostri amici che non credono», con i
quali si cerca meritoriamente non solo di convivere,
ma anche di collaborare. Non si lanciano anatemi, ma
si danno consigli (come quello di «vivere e
indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse») e
si partecipa intensivamente a quelle procedure
politiche della democrazia che, un tempo, erano
condannate come opera del demonio (v. L. Zannotti, La
sana democrazia. Verità della Chiesa e principi dello
Stato, Torino, Giappichelli, 2005). Insomma: la Chiesa
vuole essere "dialogante".
Purtroppo però, adottato un atteggiamento esteriore
amichevole, non sembra mutato quello interiore. Gli
interlocutori continuano a essere considerati non come
dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale
e razionale.
La morale. La questione non si pone – speriamo – nei
termini triviali di una graduatoria di meriti e
demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare
un primato di questo genere. Non può esserci una
competizione come questa, da cui tutti rischierebbero
di uscire malconci. Accade però talvolta che siano
proprio alcuni non credenti autolesionisti a tributare
riconoscimenti di superiorità ai credenti; oppure, che
da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra
ancora oggi a denunce di collusioni demoniache, non
solo per modo di dire (la riduzione delle figure della
fede a simboli è condannata) onde, anche chi scrive
questo articolo potrebbe essere un adepto, nel
migliore dei casi incosciente, di Satana. La questione
è diversa; è, per così dire, di ontologia morale. Solo
i credenti – questo il Leitmotiv – sarebbero capaci di
"senso della vita". La vita eterna promessa da Dio ai
suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale.
Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni
lassù, allora una cosa vale l´altra e, per ricorrere a
Dostoevskij, «tutto è permesso». Ecco allora il
relativismo, l´indifferentismo, l´egoismo, il puro
calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione,
il non-senso della vita: in breve, l´impossibilità di
una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta
al bene piuttosto che al male. Così ragionando, però,
non si è sfiorati dall´idea che si possa dire: la vita
non ha un senso ma siamo noi a doverglielo dare e,
come si può fondare una morale sulla vita immortale
dell´al di là, così si possono cercare i fondamenti
della vita morale nell´al di qua, precisamente nel
comune destino di noi mortali. Non si considera la
possibilità che qui, nella libertà, ci possa essere
una ricerca morale – non facciamo graduatorie – degna
almeno quanto la fede in promesse di ricompense e
punizioni. Postulare una morale esterna, dispensata da
un´autorità, sia pure paterna come la Provvidenza
divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà
che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei
Karamazov, dare ragione all´Inquisitore e torto al
Cristo.
La ragione. Secondo tradizione cattolica, fede e
ragione coincidono. Entrambe procedono da Dio, e Dio
non può contraddire se stesso. Se contraddizione c´è,
è solo apparente, in quanto una «verità di ragione»
contraria alla fede è, in realtà, «totalmente falsa»
(Dei Filius, 1870, del Concilio Vaticano I). Questa
impostazione subordinava bensì la ragione alla fede
ma, almeno, ne riconosceva la distinzione, una
distinzione che oggi sembra sfumare. Il magistero
cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di
proporre un Dio avente natura razionale (logos) e
sostenere che, nella concezione cristiano-cattolica
attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano "di
ragione" è tale perché è anche "di fede", onde chi è
senza o contro la fede, è anche senza o contro la
ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta.
Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la
tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova
filogenesi greco-cristiana propone l´innesto del
Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale
ordine del mondo corrispondente alla ragione
regolatrice sovrana. La "natura", poiché nessuno può
pretendere di alterarla, diventa "diritto naturale";
logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi
custode dell´ordine natural-razionale, la Chiesa può
proporsi come custode dell´ortodossia della ragione;
non solo della ragione filosofica, come è stato per
secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della
ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di
Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati
accreditati più di tutti gli altri, perché la loro
"ragione" onnicomprensiva, che si abbevera alla
scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva
garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso
storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino,
con la sola differenza che oggi, invece d´invocare
l´autorità delle Scritture contro Galileo, si invoca
il logos divino.
Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che
si auspicava all´inizio è impossibile. L´interlocutore
non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e
razionalità, vale poco o niente; è uno che le
circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe
volentieri a meno. A ben pensarci, la "amichevole"
proposta ai non credenti di «vivere [almeno] come se
Dio esistesse» è conseguenza di questo disprezzo. Se
ci si confronta con loro, è perché le condizioni
storiche concrete non consentono di fare altrimenti.
Il dialogo non è questione di convinzione, ma di
opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni
tattiche, nell´attesa che cambi la situazione. C´è una
distinzione molto cattolica tra tesi e ipotesi, una
distinzione che consente alla Chiesa i più spericolati
adattamenti pratici anche molto distanti dalle sue
concezioni del bene e del giusto. La tesi è la
dottrina cattolica nella sua purezza; l´ipotesi è
quanto di essa le circostanze consentono di
realizzare. Il dubbio è che il dialogo, per la Chiesa,
sia solo "in ipotesi", in vista di tempi migliori,
come è per lo stratega di cui si diceva, che prende
tempo e accresce le sue munizioni.
Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte
pagine, aperte alla speranza, del Concilio Vaticano
II, nelle quali il "mondo moderno" è assunto come
interlocutore positivo, portatore di moralità ed
espressivo di segni meritevoli di ascolto. Diversa era
la concezione del rapporto tra fede e ragione, tra
fede e attività dei cristiani nel mondo. La
subordinazione al magistero della Chiesa nel campo
della fede non era vista in contraddizione con la loro
autonomia e responsabilità nei campi della ragione
pratica. Questo era il terreno sul quale la speranza
di un dialogo onesto era costruita, il terreno sul
quale anche l´accettazione piena della democrazia da
parte del mondo cattolico poteva fondarsi. Ma è ancora
così?
Nel mese di dicembre del 2005, nel pieno di accese
polemiche sulle nostre questioni di bioetica, durante
le quali si dissero parole chiuse a ogni confronto
(«principi non negoziabili», appelli all´obiezione di
coscienza, inviti al non-voto di candidati non in
linea, ecc.), il presidente della Conferenza
episcopale italiana, cardinale Ruini, denunciati
ancora una volta il «secolarismo radicale» e il
«relativismo» laico, sorprese tutti con queste parole:
«Si tratta di affidarsi, anche in questi ambiti, al
libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti
democratici pure quando non possiamo condividerli […];
è bene che tutti ne prendiamo la più piena coscienza,
per stemperare il clima di un confronto che
prevedibilmente si protrarrà assai a lungo,
arricchendosi di sempre nuovi argomenti». Sagge parole
di dialogo. Ma sia lecita la domanda: pronunciate "in
tesi" o "in ipotesi"?
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