Tuesday, October 09, 2007

Karl Kerenij su Virgilio

Repubblica Almanacco dei libri 3.1.07
Karl Kerenij su Virgilio

Era il 1929 quando l'illustre studioso di miti
affrontò la figura di Virgilio. Ecco come restituì la
grandezza di un poeta liberandola dalla retorica del
fascismo.
Un'analisi che mette in luce l'importanza della
religione

Publio Virgilio Marone (Publius Vergilius Maro), poeta
romano, nacque il 15 ottobre del 70 a. C. ad Andes,
presso Mantova. Era di umili origini, ma i genitori
gli permisero di studiare retorica a Cremona, poi a
Milano e a Roma. Dopo la battaglia di Filippi (42 a.
C.), i territori del Cremonese e del Mantovano, tra i
quali v´era anche la piccola proprietà terriera della
famiglia di Virgilio, furono spartiti tra i veterani.
Il poeta, in difficoltà, si rivolse a Ottaviano, che
gli concesse la restituzione del possedimento. Le
Bucoliche, scritte tra il 42 e il 39, lo resero
famoso, ed egli trovò numerosi amici e benefattori,
tra cui il Console Asinio Pollione, Cornelio Gallo e
Mecenate, che lo aiutarono affinché potesse ritirarsi
in un podere nei pressi di Napoli per dedicarsi
all´otium creativo. Fra il 39 e il 29, Virgilio
scrisse le Georgiche, un poema didascalico
sull´agricoltura, dopo il 29, fino alla morte, lavorò
all´Eneide: il poema epico, storico e mitologico,
secondo il modello omerico, nel quale, riallacciandosi
all´Iliade, Virgilio illustra il mutevole destino del
troiano Enea, che diviene il progenitore della stirpe
romana, e rappresenta con forza visionaria la missione
storica di Roma, che egli vide realizzata nell´ordine
augusteo del proprio tempo. Sebbene l´opera fosse
stata portata a termine, Virgilio avrebbe voluto
ancora rimaneggiarla. Sulla via del ritorno dal suo
viaggio in Grecia, il poeta morì il 21 settembre del
19 a. C., a Brindisi. Augusto non rispettò la sua
ultima volontà di farne distruggere il manoscritto, e
ne affidò la pubblicazione a Vario Rufo. Così si è
conservata un´opera della letteratura mondiale, che ha
caratterizzato in maniera persistente l´immagine
dell´era augustea, e ha influenzato la poesia
occidentale come nessun altro testo della letteratura
latina.

A cosa servono mai i poeti, se i loro testi non
vengono letti? Solo a leggere testi su di loro? In tal
caso essi son persi. I poeti antichi non hanno bisogno
tanto di una introduzione, quanto, piuttosto, d´una
guida: di un´istruzione per l´uso, che richiami
l´attenzione su quanto di insostituibile ci è rimasto
di loro. Cosa se ne fa il lettore della frase:
«Virgilio, ci commuove come preghiera e poesia,
esattamente come ciò che l´animo predisposto al
misticismo percepisce in entrambe come comune ed
identico, Catullo come passione e poesia... »?
Questa seconda affermazione è già più comprensibile
rispetto alla prima. Per «animo predisposto al
misticismo» alludevo all´abate Bremond, che scrisse
una storia del sentimento religioso in Francia e
pubblicò un libro sulla poesia pura. Non esiste altro
poeta romano che si sia tanto avvicinato alla poesia
pura quanto Virgilio, e ciò in virtù d´una religio nel
senso originario, romano, del termine, di
un´attenzione rispettosa che di per sé non poteva dare
alla poesia alcun ricco contenuto, ma piuttosto
conferirle un carattere che richiedesse l´attenzione,
la religio anche da parte dei lettori. Attenzione a
che cosa? All´uomo e alla sua lingua, la quale, in
Virgilio, è inscindibilmente connessa con la sua
poesia a tal punto che, quando parliamo di lui, i
termini «opera» e «poesia» sono intercambiabili:
«opera» può stare per «poesia» e viceversa.
Soffermiamoci quindi sull´uomo, prima di apprezzarne
la lirica.
Publio Virgilio Marone è il suo nome completo. I nomi
autenticamente romani, come questo, testimoniano la
ben riuscita fusione di elementi di varie popolazioni,
che costituirono la romanità. La loro analisi non è
indispensabile per conoscere meglio il personaggio che
porta un determinato nome. A volte però accade
altrimenti, e forse anche nel caso di Virgilio. Egli
era un romano dell´Italia del Nord, come Catullo,
poeta, questi, che apparteneva alla gens Valeria, una
gloriosa genia, il cui capostipite era giunto a Roma
dalla terra dei Sabini; Virgilio, però, la annoverava
tra i casati etruschi. Le sue origini non erano molto
illustri, egli apparteneva al popolo minuto, ma a
giudicare dal nome, "Virgilius", e dal cognomen,
"Maro", esse erano probabilmente etrusche.
"Vergilius" è nome noto anche in luoghi propriamente
etruschi (Volterra, Sutri, Veio), "Maro" - maru - era
originariamente un titolo dei funzionari dell´antica
Etruria. Un nome etrusco lo portava anche Magio, il
viator (il messo dei tribunali), la cui figlia Magia
Polla sposò il padre di Virgilio, il quale aveva
esercitato il mestiere di vasaio prima di impiegarsi
presso il futuro suocero, ma che poi aveva saputo
anche accrescere il proprio piccolo patrimonio con
l´apicoltura e con l´acquisto di boschi.
Entrambe le famiglie, quella di Virgilio e quella di
sua madre, cui la tradizione etrusca assegnava un
ruolo centrale, abitavano in un villaggio popolato da
Galli che s´erano insediati piuttosto tardi in Italia:
il nome del villaggio, Andes, era gallico. Virgilio
nacque ad Andes.
Mantova, il centro più vicino, venne ritenuto la sua
vera città natale. Un esametro, tramandato come
proverbio, diceva: Mantua Tuscorum trans Padum sola
reliqua (Mantova è quanto resta degli Etruschi al di
là del Po). Come altre città dell´Etruria, Mantova era
sacra alle divinità degli Inferi e mantenne la sua
denominazione etrusca - mantu.
Agli Etruschi succedettero altre due popolazioni di
diverse origini. Virgilio, nell´Eneide, parla così di
una Mantova «ricca d´avi» e di una stirpe (gens)
tripartita, che comprendeva quattro popolazioni,
evidenziando però che la forza della città era data
dal sangue etrusco:

Mantova ricca d´avi: né tutti son d´una stirpe: /tre
son le tue genti, quattro sotto ciascuna son popoli
/tu capo dei popoli, il nerbo è di sangue tirreno.

Un quadro, in piccolo, dell´Italia unificata dai
Romani. Il mantovano Virgilio, per il quale Roma era
caput mundi, che però si trasferì a Napoli, e che
possedeva anche una casa in Sicilia, non era tanto
lontano dall´essere il primo poeta italiano! Sì, egli
fu il fondatore proprio di quell´arte poetica dotata
d´una intrinseca sonorità estremamente colta, che
pertiene alla poesia italiana a quella a essa
linguisticamente affine. Solo chi decide di immergersi
nei contenuti musicali della lingua melodiosa di
Virgilio, solo chi non si accontenta di alcuna
traduzione, o di una semplice indicazione di
contenuto, si impossesserà di ciò con cui Virgilio
arricchì immediatamente il mondo - indirettamente lo
arricchì attraverso la poesia italiana, e attraverso
tutta la lirica romanza che trasse ispirazione dalla
sua opera, grazie a quei poeti che avvertirono
un´affinità spirituale con lui.


* * *

Esaminiamo adesso l´uomo. Un uomo dalla pelle scura,
alto, con i tratti di un contadino e dalla salute
cagionevole - così ci viene descritto.
Un mosaico a Tunisi ne fissa il ritratto con un´aura
di estrema semplicità e di un´innegabile valentia,
accanto alla musa della storiografia e della tragedia.
Ci è dato anche sapere di che disturbi soffriva:
dolori al ventre, mal di testa e di gola lo
tormentavano spesso, e poteva anche accadere che
rimettesse sangue. Giacché morì a soli cinquantuno
anni, v´è da supporre che questo stato, come anche le
sue note abitudini, caratterizzassero la sua vita già
sui trent´anni. Mangiava e beveva molto poco ed era
particolarmente sensibile all´amore dei bei fanciulli.
Uno dei suoi amici e benefattori lo volle far sedurre
da una nota etera romana; questa ammise che,
nonostante la sua esperienza, era fallita
nell´impresa. Alla svolta che intervenne poco prima
dei trent´anni, non tanto nel carattere, quanto nella
sua vita pubblica e privata, si riferisce
probabilmente una breve poesia - un Catalepton - alla
maniera di Catullo, come alcune di quelle tramandateci
dall´Appendix Vergiliana, l´appendice all´opera del
poeta.
Nel quinto Catalepton Virgilio si congeda dalla
retorica e dai modi ampollosi degli oratori e degli
insegnanti di retorica, alcuni dei quali vengono anche
chiamati per nome.
Con un´espressione, che stranamente coincide con
quella a noi nota da altre fonti, definisce queste
persone un «vuoto cembalo della gioventù». Egli prende
altresì congedo dal fanciullo amato e da tutti i bei
giovani. Vuol veleggiare verso quel porto della
beatitudine, indicatogli dalle massime del grande
Sirone.
Scelse quell´epicureismo ascetico, per il quale il
fine non era rappresentato dal piacere, ma dalla
soppressione del dolore. Allontana da sé persino le
dolci muse - egli riconobbe che esse erano dolci e
permette loro di rivisitare le sue carte solo di rado:

Dirigiamo le nostre vele verso beati porti, /guidati
dalle dotte massime del grande Sirone /liberando la
vita da ogni pena. /Andate via di qui anche voi, o
Muse, andate pure ora /o dolci Muse, /poiché
riconosciamo il vero, /siete state dolci, /e tuttavia
le mie carte /venite a visitare, ma con discrezione e
raramente.

* * *

La poesia avrebbe occupato i restanti ventuno anni
della sua vita, e certamente non lasciò tempo ad alcun
punto morto, come era accaduto quando il quasi
trentenne Virgilio aveva voluto tener lontana dalle
sue carte, oltre alla retorica, possibilmente anche la
stessa poesia. Non s´ebbe una svolta definitiva verso
la filosofia - quando Virgilio, così pare, dopo la
morte di Sirone, si trasferì nel podere di
quest´ultimo - ma un lampo di genio deve aver
illuminato il poeta. Così, improvvisamente egli fece
ciò che sino ad allora non aveva fatto, con un atto
creativo, che segnò l´inizio dell´arte poetica
virgiliana e di quella ispirata a Virgilio: una
creazione poetica contraddistinta da una perfetta
musicalità linguistica e soprattutto da quella
musicalità linguistica che, da quest´esatto momento in
poi, sarebbe stata coltivata come la vera poesia.
Virgilio manifestò metaforicamente quel che sino ad
allora era stato per lui il poetare - e certamente di
rado egli aveva esercitato quest´arte in maniera
personale, poiché non aveva ancora trovato una sua
propria forma espressiva - , lo manifestò in maniera
istintiva attraverso quelle chartae che le Muse
avevano il permesso di visitare di quando in quando. I
testi dell´Appendix Vergiliana - a parte i brevi
componimenti secondo la maniera catulliana - ammesso
che realmente ve ne siano di Virgilio, o non si tratti
piuttosto di esperimenti e imitazioni di anonimo:
tutti erano rigorosamente vergati su chartae, frutto
dell´erudizione e non del suono che sgorga, dominato
dal poeta, che però nel contempo canta se stesso, è
co-autore.
L´esordio dell´idillio che inaugura le Bucoliche, la
raccolta di poesie pastorali, che nacque probabilmente
dopo una «buona» nuova ricevuta «da casa», può essere
caratterizzato nel modo seguente - ma non perché si
voglia, con tale caratterizzazione, cogliere un
aspetto accessorio della vera poesia di Virgilio!
Poiché la poesia è quella che Virgilio trovò
improvvisamente per sé e che creò per la sua gloria
futura:

«I versi iniziali formano una strofa dai lineamenti
purissimi e semplici. Nel loro equilibrio armonioso
sono un esempio dell´arte classica del comporre. La
melodia delle parole iniziali deriva dall´alternanza
di vocali chiare e scure»:

Tityre, tu patulae recubans...

«Nella successione delle vocali avvertiamo le
modulazioni della fistola. La lingua latina raggiunge
una dolcezza, un´armonia musicale, una pienezza
sensuale, come mai era accaduto prima di allora».
I cinque versi vanno letti ad alta voce - come tutto
Virgilio:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena: nos patriae
finis et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus;
tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces
Amaryllida silvas.

Titiro, tu disteso all´ombra di un faggio frondoso
/provi una canzone silvestre sul semplice flauto; /noi
lasciamo le terre della patria e le soavi campagne,
/noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, all´ombra
tranquillo /insegni alle selve a far risuonare la
bella Amarilli.

Era, questa, una creazione che attingeva alla
musicalità della lingua e soprattutto era espressione
di tale sonorità - una creazione di versi
intraducibili! La lingua come luogo della
rappresentazione del mondo attraverso il suono e
null´altro non fu Virgilio a inventarla per primo,
egli la trovò, grazie alla sua erudizione, nella
letteratura greca, presso il siracusano Teocrito.
Prima del verso:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi

c´era il verso con cui comincia il primo idillio di
Teocrito:

Had ti to psith risma kai ha pit s aipole tena -
Dolce è, capraio, il sussurro di questo pino che
canta...

Fu così che risuonò la lingua musicale che tanto
catturò Virgilio.
La ripetizione di hadü («dolce» nel dialetto dorico)
nei primi versi dell´idillio non crea soltanto una
nuova tonalità ma, più in generale, anche nuove
possibilità sonore che l´esametro deve a Teocrito. «Se
davvero egli ha inventato un nuovo genere» - così
almeno dicono i filologi - «esso dovette essere quello
coltivato anche da Callimaco, la trasposizione dei
vari generi poetici del primo ellenismo nella forma
epico-recitativa».
E con ciò si è detto ancora troppo poco. Poiché
l´originaria melodia epico-recitativa dell´esametro,
che era plastica e drammatica, pur essendo
originariamente cantata, subì poi una trasformazione
inglobando i suoni della lirica, compresi quelli dei
canti pastorali, nello strumento sensuale della
musicalità della parola, che cantava di per sé, senza
accompagnamenti e senza passare dal recitativo al
canto puro.
Grazie a Teocrito, Virgilio trovò il proprio strumento
espressivo, non solo per le Bucoliche, ma per tutta la
sua poesia. Tale espressione poetica era stata per lui
un´inquietante e assillante possibilità fino al suo
ventottesimo anno di vita, ma poi, in virtù della
scoperta d´un equivalente latino del modello
teocriteo, essa poté finalmente trovare piena
realizzazione. Perciò la lettura ad alta voce delle
sue poesie era per Virgilio più importante che per
altri poeti, ed egli soffriva molto quando i frequenti
mal di gola gliela impedivano. La sua lettura era
un´unica soave seduzione - pronuntiavit autem cum
suavitate et lenociniis miris. Un suo rivale ebbe poi
a dire che avrebbe rubato varie cose a Virgilio se
avesse potuto ereditare anche la sua voce, la sua
bocca e il suo talento di attore, poiché i versi che
altrimenti parevano vuoti e muti, se letti da
Virgilio, risuonavano. Le Bucoliche, che nella
versione definitiva includevano dieci poesie scelte
(Eclogae), ebbero un tale successo, che furono più
volte recitate dai cantori a teatro.
Quando Virgilio ebbe terminata l´opera successiva, le
Georgiche, andò a curarsi la gola ad Atella, in
Campania, dove dopo la battaglia di Anzio, Ottaviano
accorse per ascoltarlo. In quattro giorni furono letti
i quattro libri delle Georgiche. Quando la voce di
Virgilio si affievoliva, era Mecenate a continuare la
lettura.
La poesia pastorale come la più pura poesia in onore
del Tempo che conduce il cantore insito nel pastore (e
il più semplice degli esseri umani rappresentato dal
poeta - il «pastore») in un mondo di suoni, un mondo
opposto alla triste realtà, cui pure si accenna:
queste sono le Bucoliche di Virgilio. Tutto ciò ha un
che di operistico e il poeta stesso, verrebbe da dire,
giustamente, viene a configurarsi come una sorta di
primadonna, se non vi fosse anche l´elemento
intimamente legato alla «preghiera» e se il gioco non
fosse elevato alle alte sfere della sacra serietà. La
religiosità di Virgilio in ciò - e in tutto - è
l´aspetto che meno è stato compreso dai posteri. Le
parole di ringraziamento di Titiro nella prima Ecloga:
«... deus nobis haec otia fecit, namque erit ille mjhi
semper deus (un dio ci ha concesso questa quiete,
infatti egli sarà per me sempre un dio)» derivano come
semplice conclusione contadina da quella religiosità
umana, greca e certo anche romana, che, tradotta in
latino, probabilmente dall´opera di Menandro, si
manifesta con queste parole: «deus est homini invare
hominem (dio è per l´uomo aiutare l´uomo)». Fu un
evento divino che aiutò Virgilio a conservare il suo
bene, ma vi fu anche chi concretamente lo scatenò:
perché non si sarebbe dovuto trasferire a costui la
divinità e il culto?