Saturday, December 01, 2007

La matematica è un'opinione. «Dipende dalla tradizione e da contaminazioni sociali»

Corriere della Sera 1.12.07
Scienza Bartocci e Odifreddi confutano unitarietà e universalismo della disciplina
La matematica è un'opinione. «Dipende dalla tradizione e da contaminazioni sociali»
di Giulio Giorello

«Oh, o-oh… numeri, cifre… nient'altro che guai! Come vorrei che la matematica non fosse mai stata inventata! ». Così Donald Duck (1959), ovvero Paolino Paperino, in un disegno animato poi tramutato in fumetto: si trova di fronte all'improvviso un gigante che lo rimprovera: «Ho udito le tue parole, microscopico essere! Io sono lo spirito della matematica! Porto la fiaccola del progresso da quando è nata la civiltà!». E il nostro eroe: «Mi tremano tutte le penne!». Non dovevano tremare invece a Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi quando hanno concepito, per i tipi dell'editore Einaudi, La matematica, un'ambiziosa descrizione della materia che hanno affidato a specialisti di tutto il mondo. È comparso il primo volume, consacrato ai Luoghi e tempi; ne sono annunciati altri tre dedicati ai grandi problemi e ai quadri concettuali della ricerca, alle relazioni con le discipline umanistiche (arte, letteratura e musica) e infine alle connessioni con le scienze della natura.
Si è trattato di rapporti fecondi, realizzatesi — come scrivono i curatori nella Premessa dell'opera — in una sorta di incessante «gioco di specchi». Ma l'immagine della crescita della conoscenza matematica che ne risulta è un po' diversa da quella concezione delle «magnifiche sorti e progressive» che ancora animava il severo personaggio che impartiva la dovuta lezione a Paperino. Avvisano infatti Bartocci e Odifreddi che il sapere matematico, più che essere il culmine di «un processo evolutivo lineare avviatosi nella Grecia classica"» appare «come il fragile esito di stratificazioni concettuali complesse, di tradizioni di pensiero radicate nel tessuto storico e sociale, di contaminazioni che scaturiscono da scambi e incroci culturali ». Insomma, esso non è altro che «il frutto incerto delle trasformazioni di idee pensate più volte nella storia dell'umanità, in luoghi e tempi diversi, che nascono e tramontano nell'alterna vicenda di memoria e oblio». Le stesse tradizioni di ricerca, prodotte da questa o quella scuola, ammettono «voci molteplici, non di rado dissonanti che danno corpo a un'elaborata polifonia».
È stata una mossa accorta quella di cominciare un'opera intitolata semplicemente La matematica con I luoghi e i tempi. I curatori hanno brillantemente evitato gli opposti estremismi dell'idealismo matematizzante e dello scientismo positivista: figure e numeri non sono «gabbie platoniche» in cui imprigionare il flusso mutevole della realtà, né la scienza matematizzata costituisce il paradigma di ciò che non può più essere rimesso in discussione. Opportunamente premettono che «la matematica non è unitaria, e nemmeno universale, se non nello stesso senso (e in maniera altrettanto misteriosa) in cui lo è il linguaggio: non sono infatti universali né i suoi metodi, né le finalità che gli scienziati si prefiggono o le motivazioni che li guidano, né i contesti culturali nei quali essi si trovano ad agire». E, come mostrano i vari saggi del volume, tutto ciò non è un difetto ma un'occasione.
La matematica si rivela così il banco di prova della libertà dell'intelligenza, come diceva nell'Ottocento il creatore della teoria dei numeri infiniti, Georg Cantor. Tutto questo potrà sembrare strano a chi sui banchi di scuola è stato vittima di un insegnamento autoritario e dogmatico, o a chi faccia proprio il pregiudizio di alcuni filosofi, come Horkheimer e Adorno, i quali scorgevano nella struttura logica delle teorie matematiche solo «coazione e gerarchia». La ricognizione dei luoghi e dei tempi mostra proprio il contrario, rivelando connessioni inaspettate: dalla «cultura statale di impronta matematica» prodotta nell'antica Uruk e poi dagli altri centri della Mesopotamia, alle città della Grecia e dell'Italia meridionale nell'Età classica, dalle grandi capitali dell'Ellenismo alla rinascita del sapere matematico nella civiltà arabo-islamica, per non dire dell'India. Senza questo «variegato mosaico» sarebbe forse impensabile la fioritura matematica dell'Occidente — dalla grande algebra italiana del Cinquecento alla geometria di Galileo e dei suoi discepoli, dalla Francia di Viète e di Cartesio al «miracolo» del newtonianesimo nell'Inghilterra del Seicento. E quali sono oggi i punti di irradiazione del sapere matematico che possono rivaleggiare con l'Uruk o con la Babilonia di un tempo, con la Siracusa di Archimede o l'Alessandria di Euclide? Il lettore non avrà che il felice imbarazzo della scelta: dalla Princeton di Einstein e di Gödel alla Oxford della seconda metà del Novecento, dalla Parigi di Bourbaki alla Normale di Pisa, dalle scuole rivali di Mosca e di San Pietroburgo ai vari centri del Giappone contemporaneo… «Conta di più il genio individuale o l'ambiente culturale?» è la domanda posta nel saggio iniziale del volume da Michael Atiyah (uno dei maggiori matematici di Gran Bretagna). Non si comprende l'uno senza l'altro. Del resto, non diversamente dall'arte, «la matematica è una costruzione intellettuale custodita nella mente collettiva dell'umanità». Aggiunge Atiyah: «Non siamo ancora stati sostituiti dal computer». Ma questo non significa demonizzare la tecnica: i progressi dell'informatica stanno oggi riducendo i vincoli di spazio e di tempo, permettendo così che quel particolare tipo di libertà possa avere «piena fioritura in ogni angolo della Terra».