Sunday, January 27, 2008

Come un Omero della decadenza rianimò lo spirito del mito greco

Nonno di Panopoli
Come un Omero della decadenza rianimò lo spirito del mito greco

di MARIO ANDREA RIGONI

Se mi si chiedesse qual è stato, nell’editoria letteraria italiana, l’avvenimento più importante degli ultimi mesi, anzi degli ultimi anni, non esiterei a rispondere: la traduzione integrale nella Bur, con testo greco a fronte e un impressionante commento erudito, de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, ultimo esponente della gloriosa civiltà poetica greca (4 volumi, a cura di Daria Gigli Piccardi, Fabrizio Gonnelli, Gianfranco Agosti e Domenico Accorinti, pagine 3167, 76), mentre un’analoga impresa sta conducendo l’Adelphi (che ha finora pubblicato, a cura di Dario Del Corno, tre dei quattro volumi previsti). Non per nulla la critica italiana, sempre pronta a inseguire i più effimeri e pretestuosi dibattiti, non sembra essersene neppure accorta. D’altronde Nonno non solo non gode di una «voce» autonoma in alcuni repertori degli scrittori classici, ma perfino nel Dizionario della letteratura Garzanti lo spazio che gli viene riservato è pari o inferiore a quello elargito a tanti poetastri, professori e critici odierni, dei quali il tempo farà presto, se non lo ha già fatto, giustizia, cancellandone dalla nostra memoria perfino il nome. Ma Nonno, egiziano di lingua greca vissuto nel V secolo d. C., è poeta di splendore e potenza intramontabile, degno di essere considerato quasi un Omero redivivo, benché sia un Omero della decadenza, anziché delle origini. Le ragioni della sua grandezza e del suo interesse sono di natura molteplice: linguistica, stilistica, prosodica, poetica e culturale. Chi non è greco o grecista perderà inevitabilmente parte dell’esperienza che dettò l’elogio di Kavafis nella poesia Esuli (una delle sue inedite): «Versi di Nonno l’altro ieri leggevamo. / Che immagini, che misura, che lingua, che armonia. / Il poeta di Panopoli rapiti ammiravamo» (traduzione di Massimo Peri). Ma chiunque, anche in traduzione, non potrà non percepire la bellezza e la forza fantastica di questo poema sterminato di 48 libri che, narrando la storia di Dioniso dagli antefatti della nascita fino alla conquista dell’India e all’ascesa in cielo come salvatore dell’umanità e dio della gioia, riepiloga e rianima l’intero universo del mito greco.
Il dionisismo è innanzitutto il tema religioso e poetico della metamorfosi, come fuga dal dolore e dalla morte, che ispira tutta l’opera. Ma coincide anche con il principio compositivo, formale e stilistico de Le Dionisiache , che è quello della proteiforme varietà, enunciato nell’invocazione proemiale alle Muse: «Evocate per me l’immagine di Proteo multiforme, mentre si unisce alla vostra danza (...), perché appaia nella varietà dei suoi aspetti: un inno variegato io voglio intonare» (II, 13-15).
Nonno disarticola l’intero ordine dell’epos classico, in gara e in contrapposizione con Omero: all’unità sostituisce la molteplicità, alla logica l’analogia, alla profondità la superficie, all’azione la descrizione, fornendo un nuovo modello al quale si ispirerà molti secoli dopo il nostro Marino, che senza questo precedente non avrebbe mai potuto concepire né la struttura né lo stile dell’ Adone .
In astratto si potrebbe congetturare che una tale «poetica» conduca a un effetto d’insieme inevitabilmente debole: accade invece che Le Dionisiache si distinguano proprio per l’energia immaginativa e retorica. Un’altra singolarità di Nonno è che, nonostante l’ispirazione soteriologica e sacra, egli ama la digressione e l’aneddoto, l’arguzia e il motteggio, il gesto e il colore. Nello stesso tempo pratica tutta la gamma dei toni: epico, apocalittico, tragico, amoroso, bucolico e comico. È capace della più alta ispirazione cosmica, come testimoniano i primi due canti dedicati alla Tifoneide, ossia all’assalto di Tifeo contro l’Olimpo: «Notte fonda: le schiere dell’Olimpo montano la guardia / intorno alle sette zone e come dall’alto di torri / risuona un allarme notturno: sono le voci delle stelle che si propagano / immense, ognuna con diversa intonazione, e l’eco che risuona intorno all’asse / della barriera di Saturno giunge fino alla Luna» (II, 170-174). Esperto nelle guerre stellari, Nonno non lo è meno nell’erotismo visionario con cui descrive una Baccante («E ce n’è una che ha legato il ventre intatto / con un serpente tre volte avvolto, cintura assai intima, / che apre la bocca vicino alla coscia, sibila dolcemente / e scruta insonne la verginità della fanciulla quando è assonnata per il vino» (XIV, 363-366), o la voluttà di una morte per amore: «Uccidimi, poiché sono amante sventurato, non risparmiare l’arco. / Tu doni grazia femminea al ferro, se tocchi i dardi; e io mi fermo, volontario bersaglio, a guardare / con occhio intenerito le tue dita splendere sulla cocca, / e poi tirare, tutto disteso, il tuo dolce tendine / e avvicinarlo al roseo seno destro» (XV, 329-334). Infine Nonno conosce il tono comico-farsesco. È il caso della deliziosa storia di Afrodite che, abbandonato il cinto d’amore per la spola, tenta maldestramente l’opera della filatura riservata ad Atena, crea una tela rozza e aggrovigliata e provoca sulla terra l’interruzione di ogni attività amatoria, finché, derisa dagli altri dei, abbandona il lavoro e torna a Cipro, ristabilendo l’ordine delle cose (XXIV, 242-329).
Ma il poema contiene aspetti di più sottile ed enigmatica complessità: quello principale è una certa ricorrente somiglianza, tematica e linguistica, fra dionisismo e cristianesimo. Nonno è infatti anche l’autore di un’altra opera in esametri, la Parafrasi del Vangelo di S. Giovanni . Come si spiega questa clamorosa ibridazione di due religioni opposte? Secondo la persuasiva ipotesi di Daria Gigli Piccardi, coordinatrice dell’impresa e curatrice del primo volume, la chiave risiede nel sincretismo: un atteggiamento e un fenomeno, tanto segreto quanto notevole, che dalla tarda antichità si estende al Rinascimento e alla stessa età moderna. Per restare al nostro caso, si può ricordare che la coppia Dioniso-Cristo visiterà ancora la mente di Nietzsche.


Corriere della Sera 7/6/05