l’Unità 31.1.08
Raccontami una storia, fa bene alla vita
di Manuela Trinci
LE FIABE GUARISCONO? In un certo senso sì, rispondono gli esperti: suscitano emozioni e facilitano la loro espressione, sollecitano uno sguardo diverso sul mondo e, soprattutto, ci dicono qualcosa sul senso della nostra esistenza
Calvino le definiva «visioni insospettate» e Bettelheim le riteneva «terapeutiche». Ma attenzione: non vanno trattate come aspirine
Non esiste il racconto giusto per risolvere un particolare problema
Leggere non è una seduta terapeutica ma un piacere
«Raccontami una storia» è un sapore d’infanzia, come il pane con l’olio o con il burro e marmellata. A una tale richiesta, timida sonnolenta prepotente o piagnucolosa, non c’è adulto che non si senta sopraffatto da proustiana nostalgia. Le storie ai bambini o si raccontano o si leggono, a voce alta. E sono storie che incantano, incuriosiscono, che fanno paura o regalano l’estasi della risata, storie dette in cucina, vicino al letto, al Nido o alla Materna. Storie a gambe in su, sbilenche, randagie, raggomitolate, storie a bocca chiusa o che fanno gioire l’aria.
Storie di oggi o fiabe magiche di ieri e di sempre. Comunque sia, raccontare storie è come dormire, mangiare, cantare, viaggiare insieme. È far circolare sangue umano nei linguaggi, farli tornare «pelle umana» da vestiti, corazze, prigioni che stanno diventando. Le storie hanno, per loro natura, la capacità di suscitare emozioni, atmosfere, stati d’animo, di dirigere uno sguardo nuovo, curioso, verso direzioni che si aprono improvvisamente. Sollecitano un modo specialissimo di guardare il mondo, concentrato, vigile, febbrile, un modo grazie al quale ci si protende e si finisce per vedere ciò che, per un motivo o un altro, non sta di fronte a noi in maniera scontata e banale. Visioni insospettate, come «visioni insospettate» Calvino definiva le fiabe stesse.
Bruno Bettelheim sosteneva addirittura che la partecipazione del bambino al racconto di una fiaba facilitava l’espressività delle emozioni più dello stesso gioco.
E se più recentemente si è posto l’accento su un percorso «curativo» della fiaba basato sulla relazione, sulla trama affettiva, che si stabilisce fra il narratore e il bambino, è soprattutto nella natura insatura, potenziale e combinatoria delle fiabe - nel loro trasvolare e sfiorare mondi non reali, sovrannaturali, ai quali ogni bambino può ricondurre la sua umbratile vita sotterranea - che molti autori hanno individuato, sino dall’inizio, un prezioso quanto «involontario» sostegno al processo maturativo dei bambini stessi.
L’idea che le fiabe «curino», si avvia, dunque, da molto lontano. Shahrazad, intrattenne il re per tre anni raccontando storie che avessero una funzione terapeutica per lui e salvifica per lei. Bruno Bettelheim non ebbe, poi, esitazioni a sancire il principio che «le fiabe guariscono» e sono «terapeutiche», pur sottolineando a più riprese che la fiaba comunica al bambino una comprensione intuitiva, subconscia e che «mai», pur appassionandosi e partecipando emotivamente alla storia, si deve «spiegare o interpretare ai bambini i significati delle fiabe».
Esse appartengono all’umanità, scriveva Louise von Franz, parlano autonomamente, e rappresentano il tentativo dell’umanità di raccontare e spiegare e comunicare il «mistero» vissuto da un essere umano. Potrebbero avere origine dai sogni, dai pensieri elementari, da primordiali riti di iniziazione, oppure ogni Narratore potrebbe sostiene Benjamin - attingere a «un anonimo patrimonio di memoria che ci dice qualcosa del senso della vita».
Ma i fraintendimenti non mancano.
Oggigiorno, immersi come siamo in una cultura terapeutica - che postula il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche per la gestione dell’esistenza, affermandosi gradualmente più come un modo di pensare che non di curare la specificità dei disturbi psichici - anche la narrazione di storie e di fiabe è stata enfatizzata come «supporto terapeutico».
L’editoria cavalca la tigre di questo fenomeno che, confondendo i generi, si ciba parimente di storie, outing, blog, talk show, confessioni, coming e fiabe.
Le riviste di psicologia divulgativa omaggiano spesso le storie che curano, pubblicizzano seminari e corsi di formazione per «narratori», mentre «titoli», volumi e volumetti, spesso illusori e superficiali si addensano sugli scaffali in libreria: «Le fiabe in terapia: un approccio naturopatico», Fiabe in terapia familiare, Fiabe che curano, Ho bisogno di una storia, Il personaggio in terapia, La fiaba come strumento terapeutico, Prova con una storia, Raccontare storie aiuta i bambini, eccetera eccetera.
Da un lato, si induce dunque la pseudo certezza che per ogni problema - dal lettone al vasino - ci sia il racconto giusto per risolvere la questione, dall’altro, si accentua l’enfasi sulla fiaba come farmaco prêt-à-porter. In agguato, un pericoloso conformismo educativo e una pessima divulgazione dei nuovi modelli di cura nella stanza d’analisi, che a partire proprio dal bellissimo Raccontami una storia di Dina Vallino hanno introdotto nell’analisi dei bambini una sorta di principio omeopatico della mente: curare l’immaginazione con l’immaginazione.
In molti si improvvisano Cantadore, così le «storie», che la Pinkola Estés voleva scritte come un tatuaggio del destino (un tatuaggio leggero sulla pelle di chi le ha vissute) e nelle quali Hillman affondava e ramificava la sua «poetica della mente», hanno perso la loro voce mitologica, il loro «cuento milagro».
Tanto che, bibliotecari, genitori, pediatri e psicologi, giustamente preoccupati di riuscire - parafrasando Calvino, - a «rimettere i piedi sulla terra», riemergendo da questo mondo dove imperversano pressappochismo e faciloneria, hanno dato luogo a un appassionato forum sul sito «Nati per Leggere».
Anche qui si racconta di genitori un po’ spaesati dalle pressioni mediatiche, genitori alla ricerca di libri utili, per far crescere bene i loro bambini e per trovare loro stessi delle conferme pedagogiche, e parimente si racconta di insegnanti alla ricerca di libri utili ad affrontare argomenti nuovi o spinosi. E di fronte a pretese forti che falsano e forzano i libri, le voci del forum si interrogano, dubbiose, se quest’idea di un «libro-aspirina» non sia il frutto di una promozione al libro non corretta, se la parola «cura» non sia stata ben declinata e spostata, invece, in un’accezione tutta medica, in farmacia. E commentano pure, con dispiacere, il fatto che molti adulti guardano al libro come a un insegnamento, a un aiuto, a uno specchio fedele che rifletta il mondo e che magari contenga la chiave per la soluzione di conflitti, paure, problemi... Ma perché, arrivano poi decine e decine di interventi, perché trasformare il momento della lettura in una seduta terapeutica? O in un ennesimo momento educativo?
Lasciamo alla letteratura il compito che le spetta. «Se riesci a far innamorare i bambini di un libro o di due o tre, cominceranno a pensare che leggere è un divertimento. Così, forse, da grandi diventeranno lettori». Scrive Roald Dahl. Il principio di piacere è più elastico di un programma ragionato, perché è pronto a riconoscere rapidamente un nuovo piacere, quando nasce, o l’assenza del piacere, se non nasce.
Raccontare storie e servirsi delle storie, dunque, non significa impegnarsi in una «terapia» o insegnare qualcosa, tuttavia aiuta a imparare e imparare significa non imparare cose ma imparare a crescere, a essere liberi… liberi come il vento, la musica… e le storie!
Raccontami una storia, fa bene alla vita
di Manuela Trinci
LE FIABE GUARISCONO? In un certo senso sì, rispondono gli esperti: suscitano emozioni e facilitano la loro espressione, sollecitano uno sguardo diverso sul mondo e, soprattutto, ci dicono qualcosa sul senso della nostra esistenza
Calvino le definiva «visioni insospettate» e Bettelheim le riteneva «terapeutiche». Ma attenzione: non vanno trattate come aspirine
Non esiste il racconto giusto per risolvere un particolare problema
Leggere non è una seduta terapeutica ma un piacere
«Raccontami una storia» è un sapore d’infanzia, come il pane con l’olio o con il burro e marmellata. A una tale richiesta, timida sonnolenta prepotente o piagnucolosa, non c’è adulto che non si senta sopraffatto da proustiana nostalgia. Le storie ai bambini o si raccontano o si leggono, a voce alta. E sono storie che incantano, incuriosiscono, che fanno paura o regalano l’estasi della risata, storie dette in cucina, vicino al letto, al Nido o alla Materna. Storie a gambe in su, sbilenche, randagie, raggomitolate, storie a bocca chiusa o che fanno gioire l’aria.
Storie di oggi o fiabe magiche di ieri e di sempre. Comunque sia, raccontare storie è come dormire, mangiare, cantare, viaggiare insieme. È far circolare sangue umano nei linguaggi, farli tornare «pelle umana» da vestiti, corazze, prigioni che stanno diventando. Le storie hanno, per loro natura, la capacità di suscitare emozioni, atmosfere, stati d’animo, di dirigere uno sguardo nuovo, curioso, verso direzioni che si aprono improvvisamente. Sollecitano un modo specialissimo di guardare il mondo, concentrato, vigile, febbrile, un modo grazie al quale ci si protende e si finisce per vedere ciò che, per un motivo o un altro, non sta di fronte a noi in maniera scontata e banale. Visioni insospettate, come «visioni insospettate» Calvino definiva le fiabe stesse.
Bruno Bettelheim sosteneva addirittura che la partecipazione del bambino al racconto di una fiaba facilitava l’espressività delle emozioni più dello stesso gioco.
E se più recentemente si è posto l’accento su un percorso «curativo» della fiaba basato sulla relazione, sulla trama affettiva, che si stabilisce fra il narratore e il bambino, è soprattutto nella natura insatura, potenziale e combinatoria delle fiabe - nel loro trasvolare e sfiorare mondi non reali, sovrannaturali, ai quali ogni bambino può ricondurre la sua umbratile vita sotterranea - che molti autori hanno individuato, sino dall’inizio, un prezioso quanto «involontario» sostegno al processo maturativo dei bambini stessi.
L’idea che le fiabe «curino», si avvia, dunque, da molto lontano. Shahrazad, intrattenne il re per tre anni raccontando storie che avessero una funzione terapeutica per lui e salvifica per lei. Bruno Bettelheim non ebbe, poi, esitazioni a sancire il principio che «le fiabe guariscono» e sono «terapeutiche», pur sottolineando a più riprese che la fiaba comunica al bambino una comprensione intuitiva, subconscia e che «mai», pur appassionandosi e partecipando emotivamente alla storia, si deve «spiegare o interpretare ai bambini i significati delle fiabe».
Esse appartengono all’umanità, scriveva Louise von Franz, parlano autonomamente, e rappresentano il tentativo dell’umanità di raccontare e spiegare e comunicare il «mistero» vissuto da un essere umano. Potrebbero avere origine dai sogni, dai pensieri elementari, da primordiali riti di iniziazione, oppure ogni Narratore potrebbe sostiene Benjamin - attingere a «un anonimo patrimonio di memoria che ci dice qualcosa del senso della vita».
Ma i fraintendimenti non mancano.
Oggigiorno, immersi come siamo in una cultura terapeutica - che postula il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche per la gestione dell’esistenza, affermandosi gradualmente più come un modo di pensare che non di curare la specificità dei disturbi psichici - anche la narrazione di storie e di fiabe è stata enfatizzata come «supporto terapeutico».
L’editoria cavalca la tigre di questo fenomeno che, confondendo i generi, si ciba parimente di storie, outing, blog, talk show, confessioni, coming e fiabe.
Le riviste di psicologia divulgativa omaggiano spesso le storie che curano, pubblicizzano seminari e corsi di formazione per «narratori», mentre «titoli», volumi e volumetti, spesso illusori e superficiali si addensano sugli scaffali in libreria: «Le fiabe in terapia: un approccio naturopatico», Fiabe in terapia familiare, Fiabe che curano, Ho bisogno di una storia, Il personaggio in terapia, La fiaba come strumento terapeutico, Prova con una storia, Raccontare storie aiuta i bambini, eccetera eccetera.
Da un lato, si induce dunque la pseudo certezza che per ogni problema - dal lettone al vasino - ci sia il racconto giusto per risolvere la questione, dall’altro, si accentua l’enfasi sulla fiaba come farmaco prêt-à-porter. In agguato, un pericoloso conformismo educativo e una pessima divulgazione dei nuovi modelli di cura nella stanza d’analisi, che a partire proprio dal bellissimo Raccontami una storia di Dina Vallino hanno introdotto nell’analisi dei bambini una sorta di principio omeopatico della mente: curare l’immaginazione con l’immaginazione.
In molti si improvvisano Cantadore, così le «storie», che la Pinkola Estés voleva scritte come un tatuaggio del destino (un tatuaggio leggero sulla pelle di chi le ha vissute) e nelle quali Hillman affondava e ramificava la sua «poetica della mente», hanno perso la loro voce mitologica, il loro «cuento milagro».
Tanto che, bibliotecari, genitori, pediatri e psicologi, giustamente preoccupati di riuscire - parafrasando Calvino, - a «rimettere i piedi sulla terra», riemergendo da questo mondo dove imperversano pressappochismo e faciloneria, hanno dato luogo a un appassionato forum sul sito «Nati per Leggere».
Anche qui si racconta di genitori un po’ spaesati dalle pressioni mediatiche, genitori alla ricerca di libri utili, per far crescere bene i loro bambini e per trovare loro stessi delle conferme pedagogiche, e parimente si racconta di insegnanti alla ricerca di libri utili ad affrontare argomenti nuovi o spinosi. E di fronte a pretese forti che falsano e forzano i libri, le voci del forum si interrogano, dubbiose, se quest’idea di un «libro-aspirina» non sia il frutto di una promozione al libro non corretta, se la parola «cura» non sia stata ben declinata e spostata, invece, in un’accezione tutta medica, in farmacia. E commentano pure, con dispiacere, il fatto che molti adulti guardano al libro come a un insegnamento, a un aiuto, a uno specchio fedele che rifletta il mondo e che magari contenga la chiave per la soluzione di conflitti, paure, problemi... Ma perché, arrivano poi decine e decine di interventi, perché trasformare il momento della lettura in una seduta terapeutica? O in un ennesimo momento educativo?
Lasciamo alla letteratura il compito che le spetta. «Se riesci a far innamorare i bambini di un libro o di due o tre, cominceranno a pensare che leggere è un divertimento. Così, forse, da grandi diventeranno lettori». Scrive Roald Dahl. Il principio di piacere è più elastico di un programma ragionato, perché è pronto a riconoscere rapidamente un nuovo piacere, quando nasce, o l’assenza del piacere, se non nasce.
Raccontare storie e servirsi delle storie, dunque, non significa impegnarsi in una «terapia» o insegnare qualcosa, tuttavia aiuta a imparare e imparare significa non imparare cose ma imparare a crescere, a essere liberi… liberi come il vento, la musica… e le storie!