AIRONE n° 98 giugno 1989
Duccio Canestrini
Tra i Kalash, gli ultimi infedeli
Duccio Canestrini
Tra i Kalash, gli ultimi infedeli
Ritorno nella mitica arcadia d'oriente
Sulle montagne tra il Pakistan e l'Afghanistan, vive un popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca. Gli dei e l'amore scandiscono le vicende di questa etnia, isola pagana nel mondo islamico, che attrasse negli anni sessanta i giovani giramondo: vent'anni dopo il nostro fotografo l'ha rivisitata.
C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia. Anche se le “prove” sono solo suggestioni, e il fondamento di tutto è una leggenda. Vuole dunque la leggenda che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento, presto divenuto noto a popoli vicini e viaggiatori per la sua gestione festaiola e orgiastica. Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui la leggenda mette radici in terra, anche se la pianta originale rimane pura fantasia. Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi assetati di sangue. Con questa favola in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini. Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde. L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lene, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni: finché non ci venne a noia. ‘Hai visto l’arcadico vechio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’. Ma, a parte le idealizzazioni, qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese. Di greco, insomma, nemmeno l’ombra di un naso.
Un popolo irriducibile.
Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò, verso l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India. E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire. Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “il paese della luce”. Naturalmente, la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet Rumbur e Birir) non è mai cessato. L’Islam preme ancora. Ma nonostante le difficoltà nel mantenere la propria identità etnica nel più completo isolamento, i kalash resistono. Su molteplici fronti. In un contesto culturale dove l’ebbrezza viene ricercata nei prodotti della canapa indiana, tra i kalash continua il consumo rituale del vino; anche perché, secondo un loro mito, la prima vigna nacque dalla bocca spalancata di un potente sciamano. Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste, ben oltre il limite della oscenità. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “folle” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una dea Giunone che non disdegna ecatombi di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno.
Una guerra di parole.
Il calendario cerimoniale del Chaumos è ben definito. Il primo giorno si accendono ovunque fuochi con legna di ginepro, si bruciano le vecchie ceste usate e si formano cortei di giovanotti che “trottano” e nitriscono, per attirare il dio, che si presenta sempre a cavallo. Fin dal principio, esplode l’oscenità, con tutta la sua carica vitale e, dicono i kalash, persino medicinale: “Più sconce sono le nostre parole e più accorate le nostre preghiere, più guadagneremo in salute e in fortuna”. Il secondo giorno le donne si lavano i capelli e rinnovano le kupas, le splendide cuffie adorne di conchiglie e di perline colorate. Nella stalla si cuoce il pane. Il terzo è il giorno riservato agli insulti, veramente terribili, tra le ragazze dei diversi villaggi. È una guerra di parole che dura fino a notte, alla quale assistono i giovani maschi, pronti ad apprezzare la fantasia di questa o di quella. Poi viene il giorno della cottura dei fagioli, quello della confezione di piccole capre con la mollica di pane e della ridipintura dei fregi che adornano la jestak-han. Segue il giorno del ritorno dei morti (cui si deve offrire del cibo) che chiude la prima fase della festa. Cominciano allora sette giorni di astinenza, di abluzioni e di purificazioni per tutti, uomini, donne e bambini, durante i quali qualsiasi estraneo deve lasciare le valli kalash. Infine, arriva il giorno del grande sacrificio: decine di caproni vengono macellati ritualmente davanti al mahandeo, l’altare del “grande dio”, dalle cui pietre svettano quattro teste di cavallo, scolpite nel legno. E a questo punto che tra i giovani si possono osservare i “tremori”, interpretati come segnali di una possessione che rivela attitudini sciamaniche. L’addio a Balumain verrà celebrato da un corteo di donne ciascuna con una penna di pavone sulla kupas. In conformità all’antico pensiero védico, il pavone è l’animale dell’immortalità: oltre a essere molto prolifico, l’uccello rinnova ogni anno lo splendore dei suoi “occhi” cangianti sulla ruota cosmica della magnifica coda.
Sulle montagne tra il Pakistan e l'Afghanistan, vive un popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca. Gli dei e l'amore scandiscono le vicende di questa etnia, isola pagana nel mondo islamico, che attrasse negli anni sessanta i giovani giramondo: vent'anni dopo il nostro fotografo l'ha rivisitata.
C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia. Anche se le “prove” sono solo suggestioni, e il fondamento di tutto è una leggenda. Vuole dunque la leggenda che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento, presto divenuto noto a popoli vicini e viaggiatori per la sua gestione festaiola e orgiastica. Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui la leggenda mette radici in terra, anche se la pianta originale rimane pura fantasia. Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi assetati di sangue. Con questa favola in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini. Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde. L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lene, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni: finché non ci venne a noia. ‘Hai visto l’arcadico vechio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’. Ma, a parte le idealizzazioni, qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese. Di greco, insomma, nemmeno l’ombra di un naso.
Un popolo irriducibile.
Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò, verso l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India. E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire. Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “il paese della luce”. Naturalmente, la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet Rumbur e Birir) non è mai cessato. L’Islam preme ancora. Ma nonostante le difficoltà nel mantenere la propria identità etnica nel più completo isolamento, i kalash resistono. Su molteplici fronti. In un contesto culturale dove l’ebbrezza viene ricercata nei prodotti della canapa indiana, tra i kalash continua il consumo rituale del vino; anche perché, secondo un loro mito, la prima vigna nacque dalla bocca spalancata di un potente sciamano. Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste, ben oltre il limite della oscenità. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “folle” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una dea Giunone che non disdegna ecatombi di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno.
Una guerra di parole.
Il calendario cerimoniale del Chaumos è ben definito. Il primo giorno si accendono ovunque fuochi con legna di ginepro, si bruciano le vecchie ceste usate e si formano cortei di giovanotti che “trottano” e nitriscono, per attirare il dio, che si presenta sempre a cavallo. Fin dal principio, esplode l’oscenità, con tutta la sua carica vitale e, dicono i kalash, persino medicinale: “Più sconce sono le nostre parole e più accorate le nostre preghiere, più guadagneremo in salute e in fortuna”. Il secondo giorno le donne si lavano i capelli e rinnovano le kupas, le splendide cuffie adorne di conchiglie e di perline colorate. Nella stalla si cuoce il pane. Il terzo è il giorno riservato agli insulti, veramente terribili, tra le ragazze dei diversi villaggi. È una guerra di parole che dura fino a notte, alla quale assistono i giovani maschi, pronti ad apprezzare la fantasia di questa o di quella. Poi viene il giorno della cottura dei fagioli, quello della confezione di piccole capre con la mollica di pane e della ridipintura dei fregi che adornano la jestak-han. Segue il giorno del ritorno dei morti (cui si deve offrire del cibo) che chiude la prima fase della festa. Cominciano allora sette giorni di astinenza, di abluzioni e di purificazioni per tutti, uomini, donne e bambini, durante i quali qualsiasi estraneo deve lasciare le valli kalash. Infine, arriva il giorno del grande sacrificio: decine di caproni vengono macellati ritualmente davanti al mahandeo, l’altare del “grande dio”, dalle cui pietre svettano quattro teste di cavallo, scolpite nel legno. E a questo punto che tra i giovani si possono osservare i “tremori”, interpretati come segnali di una possessione che rivela attitudini sciamaniche. L’addio a Balumain verrà celebrato da un corteo di donne ciascuna con una penna di pavone sulla kupas. In conformità all’antico pensiero védico, il pavone è l’animale dell’immortalità: oltre a essere molto prolifico, l’uccello rinnova ogni anno lo splendore dei suoi “occhi” cangianti sulla ruota cosmica della magnifica coda.