Thursday, January 24, 2008

Il politeismo

Il politeismo corrisponde meglio alla diversità delle nostre tendenze e dei nostri impulsi, cui offre la possibilità di esercitarsi, di manifestarsi: libero ognuno di essi di propendere, secondo la propria natura, verso il dio che gli si confa in quel preciso momento. Con un solo dio, invece, che fare? come considerarlo, in che modo utilizzarlo? In sua presenza si è sempre sotto pressione. Il monoteismo comprime la nostra sensibilità: rinserrandoci ci scava dentro; sistema di costrizioni che ci conferisce una dimensione inferiore a detrimento della piena maturazione delle forze, stabilisce una barriera, arresta la nostra espansione, ci scompagina. Eravamo sicuramente più normali con molti dei, che non con un dio solo. Se la salute è una misura, quale regresso, il monoteismo!

Sotto il regime di molti dèi, il fervore viene diviso; quando è rivolto a un solo dio si concentra e si esaspera, per stravolgersi poi in aggressività, in fede. Non più dispersa, tutta l'energia converge in una sola direzione. La cosa notevole, nel paganesimo, era che non si faceva una distinzione radicale tra il credere e il non credere, tra avere la fede o non averla. Del resto, la fede è un'invenzione cristiana; presuppone uno stesso squilibrio nell'uomo e in Dio, travolti entrambi da un dialogo drammatico quanto delirante. Di qui il carattere forsennato della nuova religione. Ben altrimenti umana. l'antica lasciava a ciascuno la facoltà di scegliere il dio che voleva, e poiché non ne imponeva nessuno, si poteva propendere per questo o quello. Più si era capricciosi, più si sentiva la necessità di variare, di passare dall'uno all'altro, sicuri di poterli amare tutti nel corso di un'esistenza. Inoltre erano modesti, esigevano soltanto il rispetto: di fronte a loro non ci si inginocchiava, si salutava. Convenivano idealmente a chi non avesse risolto le proprie contraddizioni e non potesse risolverle, a uno spirito contrastato e inappagato: che fortuna, in quel suo itinerante turbamento, poterli provare tutti, ed essere pressappoco certo di cascare su quello di cui lì per lì aveva bisogno. Dopo il trionfo del cristianesimo, la libertà di destreggiarsi in mezzo a loro, e sceglierne uno di proprio gradimento, diventò inconcepibile. La coabitazione con loro, quell'ammirevole promiscuità, erano finite. Un qualche esteta, stanco ma non ancora nauseato del paganesimo, avrebbe aderito alla nuova religione se avesse indovinato che si sarebbe estesa su tanti secoli? avrebbe barattato la fantasia, propria al regime degli idoli intercambiabili, con un culto il cui dio doveva godere di una così terrificante longevità?

In apparenza, l'uomo si è dato degli dèi per il bisogno di essere protetto, garantito; in realtà, per avidità di soffrire. Finché credette che essi fossero una moltitudine, si concesse una certa libertà di gioco, qualche scappatoia; ma poi, limitandosi a uno solo, si inflisse un supplemento di pastoie e di affanni. Soltanto un animale che amasse e odiasse se stesso fino al vizio, poteva offrirsi il lusso di un così pesante asservimento. Quale crudeltà verso noi stessi, legarci al grande Spettro, e ribattere sulla sua il chiodo della nostra sorte! II dio unico rende irrespirabile la vita.

Il cristianesimo si è servito del rigore giuridico dei Romani e delle acrobazie filosofiche dei Greci, non per affrancare lo spirito ma per incatenarlo. Nell'incatenarlo, lo ha costretto ad approfondirsi, a scendere in sé. I dogmi Io imprigionano, gli fissano limiti esteriori che in nessun modo può oltrepassare; al tempo stesso lo lasciano libero di percorrere il proprio universo personale, di esplorare le proprie vertigini e, per sfuggire alla tirannia delle certezze dottrinali, di cercare l'essere - o il suo equivalente negativo - al punto estremo di ogni sensazione. Avventura dello spirito vincolato, l'estasi è necessariamente più frequente in una religione autoritaria che in una religione liberale: essa è allora balzo verso l'intimità, ricorso al profondo, fuga verso di sé, Non avendo avuto, per così tanto tempo, altro rifugio che Dio, ci siamo immersi profondamente tanto in lui quanto in noi (questa immersione rappresenta l'unica impresa reale da noi compiuta in duemila anni), abbiamo scandagliato i suoi e i nostri abissi, distrutto uno dopo l'altro i suoi segreti, estenuata e compromessa la sua sostanza con la duplice aggressione del sapere e della preghiera. Gli antichi non affaticavano eccessivamente i loro dèi: avevano troppa eleganza per spremerli a fondo, o fame un oggetto di studio. Poiché non si era ancora operato il funesto passaggio dalla mitologia alla teologia, ignoravano quella perpetua tensione che e presente tanto negli accenti dei grandi mistici quanto nelle banalità del catechismo. Quando il quaggiù è sinonimo d'impraticabile, quando sentiamo reciso, fìsicamente, il contatto che ad esso ci collega, il rimedio non consiste nella fede, e nemmeno nella negazione della fede (espressione, l'una e l'altra, di una stessa infermità), bensì nel dilettantismo pagano, più esattamente nell'idea che ce ne facciamo noi.

L'inconveniente più grave, per il cristiano, è di non poter servire coscientemente che un solo dio, benché in pratica abbia spazio per infeudarsi a parecchi (il culto dei santi!). Salutare infeudamento che, nonostante tutto, ha permesso al politeismo di prolungarsi indirettamente. Senza di che, un cristianesimo troppo puro avrebbe infallibilmente instaurato una schizofrenia universale. Con buona pace di Tertulliano, l'anima è per sua natura pagana. Qualunque dio, quando risponda a certe nostre esigenze, immediate e urgenti, rappresenta per noi un sovrappiù di vitalità, una 'sferzata'; non così quando ci venga imposto, o non corrisponda ad alcuna necessità. Il torto del paganesimo fu di averne accettati e accumulati troppi: è morto per generosità ed eccesso di comprensione, è morto per mancanza di istinto. Se per sormontare Fio, questa lebbra, si punta ormai soltanto sulle apparenze, è impossibile non deplorare l'annientamento d'una religione senza drammi, senza crisi di coscienza, senza incitamenti al rimorso, parimenti superficiale nei suoi princìpi che nelle sue pratiche. Nell'antichità la filosofìa, e non la religione, era profonda; nell'età moderna, causa della 'profondità', e delle lacerazioni d'ogni sorta ad essa inerenti, è stato solo il cristianesimo.

Le epoche senza una fede precisa (l'epoca ellenistica o la nostra) sono quelle che si adoperano a classificare gli dèi, rifiutandosi però di distinguerli in veri e falsi. All'opposto, l'idea che gli uni valgano gli altri è inaccettabile nei momenti in cui il fervore predomina. Non è possibile rivolgere una preghiera a un dio probabilmente vero. La preghiera non ama avvilirsi nelle sottigliezze e non tollera gradazioni all'interno del supremo: perfino quando dubita, lo fa in nome della verità. Non si può implorare una sfumatura. Tutto questo è esatto solamente dopo la calamità monoteistica. Quanto alla pietà pagana, le cose andavano in modo diverso. Nell'Octavius di Minucio Felice l'autore, prima di difendere la posizione cristiana, fa dire a Cecilio, il rappresentante del paganesimo: "Noi vediamo che si adorano gli dèi nazionali: a Eleusi, Cerere; in Frigia, Cibele; a Epidauro, Esculapio; in Caldea, Belo; in Siria, Astarte; in Tauride, Diana; Mercurio presso i Galli, e a Roma, tutti questi dèi riuniti". E a proposito del dio cristiano, il solo a non essere stato accettato, soggiunge: <<: Da dove viene questo dio unico, solitario, abbandonato, sconosciuto in ogni nazione libera, in ogni regno?... ". Secondo un'antica prescrizione romana, nessuno doveva adorare privatamente dèi nuovi, o stranieri, se non erano stati ammessi dallo Stato, e più precisamente dal Senato, solo autorizzato a decidere quali meritassero di venire adottati o respinti. Sorto alla periferia dell'Impero, giunto a Roma in modo inconfessabile, il dio cristiano si sarebbe vendicato, in seguito, per essere stato costretto a penetrarvi con la frode. Si distrugge una civiltà soltanto quando si distruggono i suoi dèi. Non osando attaccare l'Impero di fronte, i cristiani se la presero con la sua religione. Se si lasciarono perseguitare, fu per meglio scagliarle contro i loro fulmini, e saziare il loro incontenibile appetito di esecrazione. Come sarebbero stati infelici, se non ci si fosse degnati di promuoverli al rango di vittime! Tutto, nel paganesimo, li esasperava, perfino la tolleranza. Forti delle loro certezze, non potevano comprendere che ci si potesse rassegnare, come i pagani, alle verosimiglianze, e che si potesse seguire un culto Ì cui sacerdoti, semplici magistrati preposti alle futilità del rituale, non imponevano a nessuno la fatica ingrata della sincerità. Quando ci si ripete che la vita è sopportabile solo se è possibile cambiare divinità, e che il monoteismo contiene in germe ogni forma di tirannia, si cessa d'impietosirsi sulla schiavitù degli antichi. Meglio essere uno schiavo e poter adorare la divinità prescelta, che essere libero' e avere di fronte a sé una sola e identica varietà del divino. Libertà è diritto alla differenza; essendo pluralità, essa postula lo sbriciolamento dell'assoluto, il suo dissolversi in un pulviscolo di verità ugualmente giustificate e provvisorie. Nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente (o, se si vuole, incosciente) e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato. Curiosi effetti della logica monoteistica: un pagano, appena diventato cristiano, cadeva nell'intolleranza. Meglio sprofondare insieme a una congerie di dèi accomodanti che prosperare all'ombra di un despota! In un'epoca in cui, in mancanza di conflitti religiosi, assistiamo invece a conflitti ideologici, la domanda che si formula in noi è la stessa che assillava l'antichità declinante: <<<>>, sarebbero stati chiamati di lì a poco al ruolo di padroni e di carnefici.

Per quanto legittima fosse la sua passione per gli dèi defunti, Giuliano non aveva alcuna possibilità di risuscitarli. Invece di prodigarvisi inutilmente. avrebbe fatto meglio ad allearsi, per rabbia, con i manichei, e insieme con loro cercare di rovesciare la Chiesa. Così, pur sacrificando il suo ideale, avrebbe almeno soddisfatto il suo rancore. Quale altra carta gli rimaneva, se non la vendetta? Davanti a lui si apriva una splendida carriera di demolitore, e l'avrebbe forse intrapresa se non l'avesse obnubilato la nostalgia dell'Olimpo. Non si scatenano battaglie in nome di un rimpianto. Morì giovane, è vero: soltanto due anni di regno; ne avesse avuti ancora dieci o venti davanti a sé, che servizio ci avrebbe reso! Forse non sarebbe riuscito a soffocare il cristianesimo, ma lo avrebbe costretto a una maggiore modestia. Noi saremmo meno vulnerabili, perché non saremmo vissuti come se fossimo il centro dell'universo, come se tutto, perfino Dio, gravitasse intorno a noi. L'Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l'aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza. ci ha precipitati nell'illusione, in questo ottimismo morboso che, in spregio all'evidenza, confonde il percorso con l'apoteosi. Più riflessiva, l'antichità pagana lasciava l'uomo al suo posto. Quando Tacito si domanda se gli eventi siano retti da leggi eterne oppure si svolgano in balìa del caso, non arriva a darsi una risposta, lascia indecisa la questione, e questa indecisione esprime bene il sentimento generale degli antichi. Più di chiunque altro. Io storico, di fronte a questo intreccio di costanti e di aberrazioni di cui sono formati i processi storici, è necessariamente portato a oscillare tra determinismo e

casualità, leggi e capriccio. Fisica e Fortuna. Non esiste quasi sciagura che non si possa, a piacimento, attribuire a una distrazione della provvidenza oppure all'indifferenza del caso, o infine all'inflessibilità del destino. Questa trinità, di uso tanto confortevole per chiunque, e in particolar modo per una mente disincantata, è quanto di più consolante possa proporci la saggezza pagana. I moderni provano ripugnanza a servirsene, una ripugnanza identica a quella per l'idea, propriamente antica, secondo la quale i beni e i mali rappresentano una somma invariabile, che non potrebbe subire modifiche di sorta. Con il nostro assillo di progresso e regresso, noi ammettiamo implicitamente che il male muti, sia che diminuisca o che aumenti. L'identità del mondo con se stesso, l'idea che esso sia condannato a essere ciò che è, senza che l'avvenire possa aggiungere niente d'essenziale ai dati esistenti, questa bella idea non ha più corso; infatti l'avvenire, oggetto di speranza o d'orrore, è per l'appunto il nostro vero luogo; noi viviamo nell'avvenire, per noi esso è tutto. L'ossessione dell'avvento, di essenza cristiana, col ridurre il tempo al concetto d'imminente e di possibile, ci rende inadatti a concepire un istante immutabile, che riposi in se stesso, sottratto al flagello della successione. Per quanto sprovvista di qualsiasi contenuto, l'attesa è un vuoto che ci riempie, un'ansia che ci rincuora, tanto impropri siamo a una visione statica. " Non c'è bisogno che Dio corregga la sua opera " - questa opinione di Celso, che è propria di tutta una civiltà, va contro le nostre inclinazioni, contro i nostri istinti, e contro il nostro stesso essere. Non ci è possibile ratificarla se non in un momento inconsueto, in un accesso di saggezza. Va contro anche a ciò che pensa il credente, perché ciò che si rimprovera a Dio negli ambienti religiosi più ancora che in altri, è la sua buona coscienza, la sua indifferenza alla qualità della propria opera e il rifiuto di attenuarne le anomalie. Ci è necessario un futuro, a ogni costo. La credenza nel Giudizio finale ha creato le condizioni psicologiche per credere nel senso della storia; meglio: tutta la filosofìa della storia altro non è se non un sottoprodotto dell'idea del Giudizio finale. Abbiamo un bei propendere per questa o quest'altra teoria ciclica, da parte nostra sarà sempre un'adesione puramente astratta; ci comportiamo infatti come se la storia seguisse uno svolgimento lineare, come se le varie civiltà che si succedono fossero solo le tappe che un qualche vasto disegno, il cui nome varia secondo le nostre credenze o le nostre ideologie, percorre per compiersi e manifestarsi.


Per noi non vi sono più falsi dèi - c'è forse una prova migliore della pochezza della nostra fede? Non si vede in qual modo, per un credente, il dio che egli prega e un altro dio completamente diverso possano essere parimenti legittimi. La fede è esclusione, sfida. Proprio perché non riesce più a detestare le altre religioni, perché le comprende, il cristianesimo è finito; manca sempre più di quella vitalità da cui procede l'intolleranza. E l'intolleranza era la sua ragione d'essere. Per sua disgrazia, ha cessato d'essere mostruoso. Alla stregua del politeismo declinante, è colpito, paralizzato da una eccessiva larghezza di vedute. Il suo dio non ha su noi maggior prestigio di quanto ne avesse Giove sugli avviliti pagani. A che si riducono gli sproloqui sulla " morte di Dio:", se non a certificare l'avvenuto decesso del cristianesimo? Non osiamo attaccare frontalmente la religione, e allora ce la prendiamo col suo capo, al quale rimproveriamo di essere inattuale, moderato, timido. Un dio che abbia sperperato il proprio capitale di crudeltà, non lo teme più nessuno, nessuno Io rispetta più. Noi siamo come segnati da tutti quei secoli quando credere in lui significava temerlo, quando i nostri terrori lo immaginavano compassionevole e al tempo stesso privo di scrupoli. Chi mai potrebbe intimidire ora che perfino i credenti lo sentono sorpassato, e non è più possibile ricollegarlo al presente, e ancor meno all'avvenire? Come il paganesimo fu costretto a cedere di fronte al cristianesimo, così quest'ultimo sarà costretto a inchinarsi di fronte a un qualche nuovo credo; spogliato dell'aggressività, non costituisce più un ostacolo all'irrompere di altri dèi. Non hanno più che da farsi avanti, e si faranno avanti, forse. Può anche darsi che degli dèi non abbiano il volto, e nemmeno la maschera; non per questo saranno meno temibili.

In coloro per i quali libertà e vertigine si equivalgono, una fede, da qualsiasi parte provenga, magari addirittura antireligiosa, è un impedimento salutare, una catena desiderata, sognata, che avrà la funzione di frenare la curiosità e la febbre, di sospendere l'angoscia dell'indefinito. Quando una fede simile ha la meglio e s'insedia, ciò che ne risulta immediatamente è una riduzione del numero dei problemi da considerare e, insieme, una diminuzione quasi tragica delle opzioni. Vi è sottratto il peso della scelta: si decide per voi. Quei pagani raffinati, che si lasciavano tentare dalla nuova religione, si aspettavano per l'appunto che qualcuno scegliesse per loro, che indicasse loro dove dirigersi, per non dover più esitare sulla soglia dei tanti templi, ne destreggiarsi fra tanti dèi. In stanchezza, nel rifiuto delle peregrinazioni dello spirito, si concluse così quell'effervescenza religiosa senza credo, che è il carattere di ogni epoca alessandrina. Si respinge la coesistenza delle verità, perché il poco offerto da ognuna di esse non ci soddisfa più; si aspira al tutto, ma a un tutto limitato, circoscritto, sicuro, tanto grande è la paura di cadere dall'universale nell'incerto, dall'incerto nel precario e nell'amorfo. Un capitombolo, questo, che il pa_ ganesimo subì a suo tempo, e che il cristianesimo sperimenta oggi. Affonda, ha fretta di affondare; e ciò lo rende sopportabile ai miscredenti, sempre più benigni nei suoi confronti. Il paganesimo, anche vinto, si continuò a detestarlo: i cristiani erano degli ossessi che non riuscivano a dimenticare; i1 cristianesimo, invece, oggi lo hanno perdonato tutti. Già nel Settecento gli argomenti ad esso contrari si erano esauriti, e ormai, al pari di ogni veleno che abbia perso le sue virtù, il cristianesimo non può nè salvare nè condannare nessuno. Troppi dèi ha però rovesciato perché possa sfuggire, se c'è giustizia, alla sorte loro serbata. Ed e venuta l'ora della rivincita. Grande dev'essere la loro gioia nel vedere caduto al loro stesso livello il loro peggior nemico, se è vero che ora esso li accetta tutti, senza eccezione. Al tempo del suo trionfo aveva demolito templi e violato coscienze dovunque gli fosse piaciuto comparire. Un nuovo dio, fosse anche stato mille volte crocifisso, ignora la pietà, stritola ogni cosa sul suo cammino, si accanisce a occupare il massimo spa2Ìo. Ci fa pagar caro, così, il non averlo riconosciuto prima. Oscuro, poteva possedere una certa attrazione: non si distinguevano ancora, in lui, le stigmate della vittoria. Mai una religione è più 'nobile' di quando arriva a considerarsi una superstizione, e assiste con distacco alla propria eclisse. Il cristianesimo si è formato e affermato nell'odio di tutto ciò che non era lui, e quell'odio lo ha sostenuto in tutta la sua carriera; finita la carriera, anche l'odio finisce. Cristo non scenderà più agli Inferi; lo hanno rimesso nella tomba e questa volta ci resterà, verosimilmente non ne uscirà mai più: non ha più chi liberare, ne sulla superficie ne nelle profondità della terra. Quando si pensa agli eccessi che accompagnarono il suo avvento, non ci si può impedire di rievocare l'esclamazione di Rutilio Namaziano, l'ultimo dei poeti pagani: "Piacesse agli dèi, che la Giudea non fosse mai stata conquistata! ".

Poiché si ammette che tutti gli dèi, senza distinzione, sono veri, perché fermarsi a metà strada, perché non celebrarli tutti? Sarebbe, da parte della Chiesa, un compimento supremo: perirebbe inchinandosi di fronte alle proprie vittime... Alcuni segni annunciano che ne sente la tenta-tazione. Cosi, non diversamente dai templi antichi, considererebbe un onore raccogliere le divinità, i relitti di ogni luogo. Ma, una volta ancora, è necessario che il vero dio si metta da parte, affinchè tutti gli altri possano risorgere.

Cioran, "il funesto demiurgo", adelphi


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