Artemide o le frontiere dell'Altro
Da La morte negli occhi, di J-P. Vernant, il Mulino, Bologna 1987, tr. C. Saletti
Figlia di Zeus e di Latona, sorella di Apollo, detentrice come quest'ultimo dell'arco e della lira[1], Artemide presenta un duplice aspetto. È la Cacciatrice, Colei che corre per i boschi, la Giovane Selvaggia, la Saettatrice che abbatte le fiere con i suoi dardi, e le cui frecce talora, tra gli esseri umani, colpiscono le donne e ne causano la morte improvvisa[2]. Ed è anche la Pulzella, la pura Parthénos, votata ad una verginità eterna che, nella gioia della danza, della musica, dei bei canti, guida l'amabile schiera delle adolescenti che si fa compagne, Ninfe e Cariti.
Da dove viene Artemide? Se ne è discusso molto. Per alcuni il suo nome sarebbe assolutamente greco; altri vogliono vedervi una straniera, la cui origine è talora nordica, talora invece orientale - lidia o egea. La sua iconografia, in epoca arcaica, ricorda per molti aspetti la figura della Grande Dea asianica o cretese detta "Signora degli animali" o "Sovrana delle fiere", Pòtnia thērōn, applicandole esattamente quel titolo che un passo dell'Iliade attribuisce ad Artemide [3].
Una cosa sembra in ogni caso praticamente sicura: il nome di Artemide pare figurare con certezza sulle tavolette in Lineare B provenienti dalla Pilo achea. Sarebbe dunque presente nel pantheon greco già dal XII secolo a.C. e, se talvolta è detta xénē, straniera, dagli stessi antichi, tale termine, piuttosto che a un'origine non greca, si riferisce come nel caso di Dioniso alla "estraneità" della dea, alla sua distanza rispetto agli altri dei, all'alterità di cui è portatrice [4]. Se la questione delle origini rimane ancor oggi insolubile, si possono tuttavia individuare i caratteri che, a partire dall'VIII secolo, conferiscono ad Artemide la sua fisionomia particolare e ne fanno un personaggio divino originale, tipicamente greco, che nel pantheon ha un posto, un ruolo e funzioni che appartengono a lei sola.
Come è stata vista tradizionalmente? In funzione di due elementi particolari. Dapprima sarebbe la dea del mondo selvaggio, su tutti i piani: gli animali selvatici, le piante, le terre incolte, i giovani in quanto non ancora integrati nella società e civilizzati. In seguito sarebbe la dea della fecondità, che fa crescere i vegetali, gli animali, gli essere umani.
Come stanno veramente le cose? Consideriamo innanzitutto il suo ambiente, i suoi luoghi, e quindi il suo ruolo, le sue funzioni.
Il suo ambiente
"Tutte mie siano le montagne": così si esprime Artemide nell'Inno a lei dedicato da Callimaco[5]; e precisa che non scenderà in città se non di rado, solo se vi sarà bisogno di lei. Ma, oltre che i monti e i boschi, la dea abita anche tutti gli altri luoghi che i Greci chiamano agròs, le terre incolte che, al di là dei campi, segnano i confini del territorio, le eschatiaí. Agreste (agrotéra), Artemide è anche Limnâtis: quella delle paludi, delle lagune. Ha la sua sede sulle rive del mare, nelle zone costiere dove indefiniti sono i limiti tra la terra e l'acqua; ma abita anche nelle regioni dell'interno quando lo straripamento d'un fiume e la stagnazione delle acque creano uno spazio che non è del tutto asciutto senza essere completamente acquoso, e dove ogni coltura si rivela precaria ed aleatoria. Tra questi luoghi tanto diversi che sono propri alla dea e dove le vengono edificati templi, che cosa c'è di comune? Piu' che di spazio di completa selvatichezza, portatore di una alterità radicale rispetto all'ambiente urbano e alle terre frequentate dagli uomini, si tratta di aree di confine, di zone limitrofe, di frontiere dove l'Altro si manifesta nel contatto che con esso si ha regolarmente, dove selvaggio e civilizzato sono l'uno accanto all'altro, per opporsi certo, ma anche per interpenetrarsi reciprocamente.
Le sue funzioni
La caccia innanzitutto.
Alla frontiera di due mondi, segnandone i limiti e assicurando con la sua presenza la loro buona articolazione, Artemide presiede alla caccia. Inseguendo le bestie per ucciderle, il cacciatore si inoltra nel regno della selvatichezza. Vi si inoltra ma non deve andare troppo lontano; molti miti raccontano appunto ciò che minaccia il cacciatore se egli valica certi limiti: il pericolo di inselvatichirsi, il pericolo della bestializzazione. E tuttavia la caccia costituisce per il giovane un elemento essenziale dell'educazione, di quella paideia che lo integra alla città[6]. Al confine tra selvaggio e civilizzato, la caccia introduce l'adolescente nel mondo delle bestie selvatiche e feroci. Ma essa si esercita in gruppo e con disciplina; è un'arte controllata, regolamentata, con imperativi rigorosi, con obblighi e divieti. Solo se queste norme, sociali e religiose, vengono trasgredite, il cacciatore, precipitando al di là dell'umano, si inselvatichisce, diventa pari agli animali con cui si confronta. Sorvegliando gelosamente che tali norme siano rispettate, Artemide consacra l'intangibilità di una frontiera di cui la caccia, nella misura in cui rischia ad ogni momento di rimetterla in causa, sottolinea l'estrema fragilità.
Artemide non è dunque selvatichezza e ferinità. Ella fa in modo che tra elemento selvaggio ed elemento civilizzato le frontiere siano in qualche modo permeabili dato che la caccia fa passare dall'uno all'altro di questi elementi -, ma restino al tempo stesso perfettamente distinte, se no gli uomini si troverebbero ad essere inselvatichiti e bestializzati, come accadde nel III secolo, secondo Polibio, agli Arcadi di Kynaitha i quali, avendo abbandonato i riti e le usanze patrocinati dalla dea, regredirono ad uno stadio anteriore alla civiltà; abbandonate le città, vivendo ripiegati su se stessi, dettero prova nel massacrarsi a vicenda della stessa ferocia che spinge le bestie feroci a divorarsi tra di loro[7].
Nutrice
Artemide è la kourotrόphos per eccellenza. Ella si prende cura di tutti i piccoli, quelli degli animali e quelli degli uomini, maschi e femmine. La sua funzione è quella di nutrirli, di farli crescere e di condurli ad essere adulti compiuti. I piccoli degli uomini, li conduce fino alla soglia dell'adolescenza: abbandonando a lei la loro vita giovanile, devono superarla con la sua approvazione e il suo aiuto per poter accedere, mediante i riti di iniziazione a cui la dea presiede, alla piena socialità; la ragazza entra così nello stato di sposa e di madre, l'efebo in quello di cittadino-soldato. Sposa, oplita: stati che costituiscono il modello di ciò che la donna e l'uomo devono diventare per accedere, in conformità con gli altri, all'identità sociale. Mentre crescono, prima di compiere il passo decisivo, i giovani occupano - come la dea - una posizione liminare, incerta ed equivoca, dove ancora non sono nettamente tracciati i confini che separano i ragazzi dalle ragazze, i giovani dagli adulti, le bestie dagli uomini. I limiti oscillano, scivolano tra uno stato e l'altro: le ragazze assolvono i ruoli dei ragazzi e ne assumono il comportamento, i giovani si atteggiano ad adulti ritenendosi formati come se già fossero maturi, le creature umane si assimilano alle bestie selvatiche. Un solo esempio: Atalanta, la piu' artemisia delle parthénoi, la vergine che vuole restare per tutta la vita nella sfera di Artemide, senza mai valicare quella frontiera che fa della giovanetta ciò a cui ella è destinata per vocazione: una sposa, come tutte le donne. Atalanta, nei boschi, è nutrita fin dalla nascita da un'orsa che con il latte delle sue mammelle e leccandola come farebbe con i suoi cuccioli "la plasma alla maniera dell'orsa"[9]. La bimba cresce tanto rapidamente che in pochi anni raggiunge la statura, la forza, l'aspetto di un'adulta. La sua bellezza non è soltanto mascolina, come ogni suo comportamento. È tanto virile che atterrisce tutti coloro che la incontrano. Divenuta téleia o hōraīa, avendo cioè raggiunto l'età in cui la donna è matura e deve dare i suoi frutti, Atalanta rifiuta il télos del matrimonio, il compimento della femminilità verso il quale Artemide deve condurre, per poi abbandonarla, la ragazza, la quale a tempo debito le sfugge e si fa donna. Votandosi tutta ad Artemide, volendo essere - come Artemide - vergine per sempre, Atalanta riduce l'intera femminilità al suo stadio preliminare; rifiuta di conoscere e valicare la linea di confine che separa l'alterità giovanile dall'identità adulta. Per questo, in lei tutto si confonde: la bambina, la paîs, non si distingue più dalla donna matura; la ragazza, invece di differenziarsi dal ragazzo, tende ad una ipermascolinità; la creatura umana si fa orsa. Il matrimonio, quando alla fine le è imposto, si trasforma dapprima in una corsa, in un inseguimento selvaggio in cui la fidanzata bracca ed uccide il pretendente come nella caccia; e poi, quando Afrodite interviene a rendere la giovane perdutamente innamorata, esso diventa un unione bestale in cui marito e moglie sono mutati in leone e in leonessa.
Ma, ad essere precisi, il mondo di Artemide non èquello di Atalanta: non è chiuso su se stesso, bloccato sulla sua alterità. Si apre sull'età adulta. Il ruolo di Artemide è quello di mettere i giovani in grado di abbandonarla quando è giunto il momento; è la dea che istituisce i riti attraverso i quali dà loro congedo, accompagnandoli sull'altra riva, nel territorio dell'Identico.
A Brauron, in Attica, lungo le rive del fiume, le fanciulle di Atene per potersi sposare dovevano, tra i cinque e i dieci anni, essere rinchuse nel santuario di Artemide e qui farsi orse, "mimare l'orsa". Quale orsa? Un'orsa selvaggia, ma che aveva lasciato i boschi per venire al santuario della dea e lì' ammansirsi e addomesticarsi gradualmente, abituarsi alla frequentazione degli uomini e divenire loro familiare. Contrariamente ad Atalanta, le ragazzine che, sotto la ferula di Artemide, fanno il percorso dell'orsa non si inselvatichiscono: si addomesticano per gradi in modo che, al termine di questa prova, di questo allontanamento dalla propria casa, esse siano a loro volta in condizione di "coabitare in matrimonio con un uomo"[11].
Accompagnando i giovani lungo l'intero loro cammino, dall'embrione alla maturità, istituendo i riti di passaggio che ne consacrano l'uscita dalle zone marginali e l'ingresso nello spazio civico, Artemide non incarna la selvatichezza completa; la kourotróphos agisce in modo che si stabilisca un limite esatto tra ragazzi e ragazze, tra giovani e adulti, tra bestie ed uomini, e che possano articolarsi in maniera corretta la castità cui è votata la giovane e il matrimonio che completa la donna nell'età adulta, le pulsioni sessuali e l'ordine sociale, la vita selvaggia e la vita civilizzata.
Dai margini che sono il suo regno, Artemide, incaricandosi della formazione dei giovani, assicura in tal modo la loro integrazione nella comunità civica. Facendoli passare dall'altro all'identico, ella presiede a questo cambiamento di stato, al salto grazie al quale i giovani cessano di essere tali per diventare adulti, senza che giovinezza ed età adulta vedano per questo confusi i loro statuti e cancellate le loro frontiere.
Il parto
Dea vergine che respinge ogni contatto amoroso, Artemide è tuttavia, con l'epiteto di Lochía, la protettrice dei parti. Il fatto è che il parto costituisce il termine di quella lenta maturazione delle giovani di cui la dea è responsabile e al tempo stesso l'inizio, per il neonato, di quella vita la cui crescita le appartiene; inoltre, nell'istituzione sociale del matrimonio il parto inserisce quasi un aspetto di animalità. In primo luogo, perché nella procreazione la coppia, la cui unione ha le sue basi in un contratto, produce un rampollo simile a un piccolo animale, ancora estraneo ad ogni regola civile e culturale. Secondariamente, perché il vincolo che unisce il bimbo alla madre è "naturale", non sociale come quello che lo lega al padre.
Infine perché, attraverso la generazione, simile a quella delle bestie, di un esserino, il parto, con le grida, il dolore e quella sorta di delirio che lo accompagnano, manifesta agli occhi dei Greci il lato selvaggio e animalesco della femminilità nel momento stesso in cui la sposa, dando un futuro cittadino alla città - riproducendola -, sembra meglio integrata nel mondo della cultura.
La guerra
Artemide ha infine un suo ruolo nella conduzione della guerra. Non è tuttavia una dea guerriera. Ed i suoi interventi in questo campo non sono dell'ordine del bellicoso. Artemide non combatte: guida e salva; è Hēgemónē e Sóteira. Viene invocata come salvatrice nelle situazioni difficili, quando il conflitto coinvolge l'esistenza di una città, minacciata da distruzione totale. Artemide si mobilita quando, per l'uso eccessivo della violenza nel corso dello scontro, la guerra esce dai limiti civili entro i quali la mantengono le regole della lotta militare e precipita brutalmente nella ferinità [12].
In questi casi estremi la dea, per recare la salvezza, non fa ricorso alla forza, fisica o guerriera. Agisce attraverso una manifestazione soprannaturale che sconvolge il gioco normale del combattimento per disorientare gli aggressori e favorire i suoi protetti. I primi li acceca, fuorviandoli in sentieri perduti o offuscandone il senno con la confusione del panico. Ai secondi offre una sorta di iperlucidità, guidandoli miracolosamente attraverso le tenebre o illuminandoli con una ispirazione improvvisa. Nel primo caso Artemide cancella, confonde le frontiere nella natura o nella mente; nell'altro, proprio quando le frontiere sono confuse, permette di scoprirle.
Il combattimento
Prima di sferrare l'attacco, come preliminare al combattimento, è regola immolare alla dea una capra, davanti alla prima fila dell'esercito ed in vista del nemico. Anche qui la presenza di Artemide all'inizio della battaglia richiama e al tempo stesso mira ad eliminare la ferinità, l'aspetto selvaggio insiti al fondo della guerra. La capra che viene sgozzata in suo onore partecipa dello statuto ambiguo della dea, in una posizione-cerniera: si tratta infatti della più selvatica tra gli animali domestici. Il suo sacrificio evoca in anticipo il sangue che la brutalità del combattimento farà necessariamente scorrere, ma al tempo stesso ne storna la minaccia sul nemico, allontana dall'esercito schierato in ordine di battaglia il pericolo di una caduta nella confusione del panico o nell'orrore di una frenesia assassina. All'intersezione dei due campi, nel momento critico, in una situazione liminare, la sphagē, lo sgozzamento cruento dell'animale non concerne soltanto la frontiera che separa la vita dalla morte, la pace dal combattimento; mette in causa il limite tra l'ordine della civiltà, secondo cui ogni combattente ha il suo posto per svolgervi il ruolo che gli è stato insegnato nel ginnasio a partire dall'infanzia, e un regno del caos, abbandonato alla violenza pura, come presso le fiere che non conoscono né regola né giustizia [13].
Caccia, funzione di nutrice, parto, guerra e combattimento: Artemide opera sempre come divinità dei margini, con il duplice potere di mantenere, tra selvatichezza e civiltà, i necessari passaggi e di conservarne rigorosamente i confini al momento stesso in cui questi si trovano superati.
NOTE
1. Cfr. G. Dumezil, Apollon sonore et autres essais, Paris, Gallimard, 1982, pp.13-108. Nel caso della dea, l'epiteto che la qualifica come Chrysēlįkatos, dalla freccia d'oro, comporta una ambiguità', evocando il duplice aspetto di una Potenza al tempo stesso cacciatrice-assassina e femminile-verginale. Chrysēlįkatos significa anche "dalla conocchia d'oro"; cfr. Iliade, XX, 70 e Odissea, IV, 122 per ognuno dei due significati.
2. Dato che ella colpisce all'improvviso, inaspettatamente, ed uccide d'un colpo, il dardo scoccato da Artemide è una "freccia dolce", la morte causata da lei una " tenera morte"; cfr. Odissea, V, 123; XI, 172-173; XVIII, 202; XX, 60 e 80.
3. Iliade, XXI, 470.
4. Cfr. J.-P. Vernant, in "Annuaire du Collège de France", 1982-83, pp. 443-457.
5. Callimaco, Inno ad Artemide, 18.
6. Senofonte, Cinegetico, 1, 18.
7. Polibio, IV, 20-22.
8. Su Atalanta, Teognide, 1287-1294; Apollodoro, Biblioteca, III, 9, 2; Eliano, Varia storia, XIII; Ovidio, Metamorfosi, X, 560-580; VIII, 318-445. Per l'interpretazione del personaggio e della sua leggenda, cfr. M. Detienne, Dionysos mis à mort, Paris, Gallimard, 1977, pp. 80-88.
9. Licofrone, Alessandra, 137, e lo scolio a questo passo.
10. Eliano, Varia storia, XIII, 1: "Atalanta, ancora bambina, era più alta di statura di quanto non lo siano solitamente le donne ormai fatte [...] aveva una fisionomia maschile, uno sguardo terribile [...] Non aveva nulla del suo sesso [...]. Riuniva in sé due qualità egualmente adatte a stupire: una bellezza incomparabile ed un'aria che ispirava spavento [...]. Non si poteva incontrarla senza provare un moto di terrore".
11. Suda, s. v. árktos ē Braurōnķois; per il complesso dei testi relativi all'arkteia di Brauron, cfr. W. Sale, The temple-legends of the Arkteia, in "Rheinisches Museum", 118, 1975, pp. 265 s. C. Montepaone. L' "arkteia" a Brauron, in "Studi storico-religiosi", 3, 1979, pp. 343 s.
[12] Cfr. P. Ellinger, Le gypse et la boue. I. Sur les mythes de la guerre d'anéantissement, in "Quaderni urbinati di cultura classica", 29, 1978, pp. 7-55; Les ruses de guerre d'Artémis, in Recherches sur les cultes grecs et l'Occident, 2 (Cahiers du Centre lean Bérard, IX), Napoli, 1984, pp. 51-67.
[13] Esiodo, Le opere e i giorni, 276-280.
Da La morte negli occhi, di J-P. Vernant, il Mulino, Bologna 1987, tr. C. Saletti
Figlia di Zeus e di Latona, sorella di Apollo, detentrice come quest'ultimo dell'arco e della lira[1], Artemide presenta un duplice aspetto. È la Cacciatrice, Colei che corre per i boschi, la Giovane Selvaggia, la Saettatrice che abbatte le fiere con i suoi dardi, e le cui frecce talora, tra gli esseri umani, colpiscono le donne e ne causano la morte improvvisa[2]. Ed è anche la Pulzella, la pura Parthénos, votata ad una verginità eterna che, nella gioia della danza, della musica, dei bei canti, guida l'amabile schiera delle adolescenti che si fa compagne, Ninfe e Cariti.
Da dove viene Artemide? Se ne è discusso molto. Per alcuni il suo nome sarebbe assolutamente greco; altri vogliono vedervi una straniera, la cui origine è talora nordica, talora invece orientale - lidia o egea. La sua iconografia, in epoca arcaica, ricorda per molti aspetti la figura della Grande Dea asianica o cretese detta "Signora degli animali" o "Sovrana delle fiere", Pòtnia thērōn, applicandole esattamente quel titolo che un passo dell'Iliade attribuisce ad Artemide [3].
Una cosa sembra in ogni caso praticamente sicura: il nome di Artemide pare figurare con certezza sulle tavolette in Lineare B provenienti dalla Pilo achea. Sarebbe dunque presente nel pantheon greco già dal XII secolo a.C. e, se talvolta è detta xénē, straniera, dagli stessi antichi, tale termine, piuttosto che a un'origine non greca, si riferisce come nel caso di Dioniso alla "estraneità" della dea, alla sua distanza rispetto agli altri dei, all'alterità di cui è portatrice [4]. Se la questione delle origini rimane ancor oggi insolubile, si possono tuttavia individuare i caratteri che, a partire dall'VIII secolo, conferiscono ad Artemide la sua fisionomia particolare e ne fanno un personaggio divino originale, tipicamente greco, che nel pantheon ha un posto, un ruolo e funzioni che appartengono a lei sola.
Come è stata vista tradizionalmente? In funzione di due elementi particolari. Dapprima sarebbe la dea del mondo selvaggio, su tutti i piani: gli animali selvatici, le piante, le terre incolte, i giovani in quanto non ancora integrati nella società e civilizzati. In seguito sarebbe la dea della fecondità, che fa crescere i vegetali, gli animali, gli essere umani.
Come stanno veramente le cose? Consideriamo innanzitutto il suo ambiente, i suoi luoghi, e quindi il suo ruolo, le sue funzioni.
Il suo ambiente
"Tutte mie siano le montagne": così si esprime Artemide nell'Inno a lei dedicato da Callimaco[5]; e precisa che non scenderà in città se non di rado, solo se vi sarà bisogno di lei. Ma, oltre che i monti e i boschi, la dea abita anche tutti gli altri luoghi che i Greci chiamano agròs, le terre incolte che, al di là dei campi, segnano i confini del territorio, le eschatiaí. Agreste (agrotéra), Artemide è anche Limnâtis: quella delle paludi, delle lagune. Ha la sua sede sulle rive del mare, nelle zone costiere dove indefiniti sono i limiti tra la terra e l'acqua; ma abita anche nelle regioni dell'interno quando lo straripamento d'un fiume e la stagnazione delle acque creano uno spazio che non è del tutto asciutto senza essere completamente acquoso, e dove ogni coltura si rivela precaria ed aleatoria. Tra questi luoghi tanto diversi che sono propri alla dea e dove le vengono edificati templi, che cosa c'è di comune? Piu' che di spazio di completa selvatichezza, portatore di una alterità radicale rispetto all'ambiente urbano e alle terre frequentate dagli uomini, si tratta di aree di confine, di zone limitrofe, di frontiere dove l'Altro si manifesta nel contatto che con esso si ha regolarmente, dove selvaggio e civilizzato sono l'uno accanto all'altro, per opporsi certo, ma anche per interpenetrarsi reciprocamente.
Le sue funzioni
La caccia innanzitutto.
Alla frontiera di due mondi, segnandone i limiti e assicurando con la sua presenza la loro buona articolazione, Artemide presiede alla caccia. Inseguendo le bestie per ucciderle, il cacciatore si inoltra nel regno della selvatichezza. Vi si inoltra ma non deve andare troppo lontano; molti miti raccontano appunto ciò che minaccia il cacciatore se egli valica certi limiti: il pericolo di inselvatichirsi, il pericolo della bestializzazione. E tuttavia la caccia costituisce per il giovane un elemento essenziale dell'educazione, di quella paideia che lo integra alla città[6]. Al confine tra selvaggio e civilizzato, la caccia introduce l'adolescente nel mondo delle bestie selvatiche e feroci. Ma essa si esercita in gruppo e con disciplina; è un'arte controllata, regolamentata, con imperativi rigorosi, con obblighi e divieti. Solo se queste norme, sociali e religiose, vengono trasgredite, il cacciatore, precipitando al di là dell'umano, si inselvatichisce, diventa pari agli animali con cui si confronta. Sorvegliando gelosamente che tali norme siano rispettate, Artemide consacra l'intangibilità di una frontiera di cui la caccia, nella misura in cui rischia ad ogni momento di rimetterla in causa, sottolinea l'estrema fragilità.
Artemide non è dunque selvatichezza e ferinità. Ella fa in modo che tra elemento selvaggio ed elemento civilizzato le frontiere siano in qualche modo permeabili dato che la caccia fa passare dall'uno all'altro di questi elementi -, ma restino al tempo stesso perfettamente distinte, se no gli uomini si troverebbero ad essere inselvatichiti e bestializzati, come accadde nel III secolo, secondo Polibio, agli Arcadi di Kynaitha i quali, avendo abbandonato i riti e le usanze patrocinati dalla dea, regredirono ad uno stadio anteriore alla civiltà; abbandonate le città, vivendo ripiegati su se stessi, dettero prova nel massacrarsi a vicenda della stessa ferocia che spinge le bestie feroci a divorarsi tra di loro[7].
Nutrice
Artemide è la kourotrόphos per eccellenza. Ella si prende cura di tutti i piccoli, quelli degli animali e quelli degli uomini, maschi e femmine. La sua funzione è quella di nutrirli, di farli crescere e di condurli ad essere adulti compiuti. I piccoli degli uomini, li conduce fino alla soglia dell'adolescenza: abbandonando a lei la loro vita giovanile, devono superarla con la sua approvazione e il suo aiuto per poter accedere, mediante i riti di iniziazione a cui la dea presiede, alla piena socialità; la ragazza entra così nello stato di sposa e di madre, l'efebo in quello di cittadino-soldato. Sposa, oplita: stati che costituiscono il modello di ciò che la donna e l'uomo devono diventare per accedere, in conformità con gli altri, all'identità sociale. Mentre crescono, prima di compiere il passo decisivo, i giovani occupano - come la dea - una posizione liminare, incerta ed equivoca, dove ancora non sono nettamente tracciati i confini che separano i ragazzi dalle ragazze, i giovani dagli adulti, le bestie dagli uomini. I limiti oscillano, scivolano tra uno stato e l'altro: le ragazze assolvono i ruoli dei ragazzi e ne assumono il comportamento, i giovani si atteggiano ad adulti ritenendosi formati come se già fossero maturi, le creature umane si assimilano alle bestie selvatiche. Un solo esempio: Atalanta, la piu' artemisia delle parthénoi, la vergine che vuole restare per tutta la vita nella sfera di Artemide, senza mai valicare quella frontiera che fa della giovanetta ciò a cui ella è destinata per vocazione: una sposa, come tutte le donne. Atalanta, nei boschi, è nutrita fin dalla nascita da un'orsa che con il latte delle sue mammelle e leccandola come farebbe con i suoi cuccioli "la plasma alla maniera dell'orsa"[9]. La bimba cresce tanto rapidamente che in pochi anni raggiunge la statura, la forza, l'aspetto di un'adulta. La sua bellezza non è soltanto mascolina, come ogni suo comportamento. È tanto virile che atterrisce tutti coloro che la incontrano. Divenuta téleia o hōraīa, avendo cioè raggiunto l'età in cui la donna è matura e deve dare i suoi frutti, Atalanta rifiuta il télos del matrimonio, il compimento della femminilità verso il quale Artemide deve condurre, per poi abbandonarla, la ragazza, la quale a tempo debito le sfugge e si fa donna. Votandosi tutta ad Artemide, volendo essere - come Artemide - vergine per sempre, Atalanta riduce l'intera femminilità al suo stadio preliminare; rifiuta di conoscere e valicare la linea di confine che separa l'alterità giovanile dall'identità adulta. Per questo, in lei tutto si confonde: la bambina, la paîs, non si distingue più dalla donna matura; la ragazza, invece di differenziarsi dal ragazzo, tende ad una ipermascolinità; la creatura umana si fa orsa. Il matrimonio, quando alla fine le è imposto, si trasforma dapprima in una corsa, in un inseguimento selvaggio in cui la fidanzata bracca ed uccide il pretendente come nella caccia; e poi, quando Afrodite interviene a rendere la giovane perdutamente innamorata, esso diventa un unione bestale in cui marito e moglie sono mutati in leone e in leonessa.
Ma, ad essere precisi, il mondo di Artemide non èquello di Atalanta: non è chiuso su se stesso, bloccato sulla sua alterità. Si apre sull'età adulta. Il ruolo di Artemide è quello di mettere i giovani in grado di abbandonarla quando è giunto il momento; è la dea che istituisce i riti attraverso i quali dà loro congedo, accompagnandoli sull'altra riva, nel territorio dell'Identico.
A Brauron, in Attica, lungo le rive del fiume, le fanciulle di Atene per potersi sposare dovevano, tra i cinque e i dieci anni, essere rinchuse nel santuario di Artemide e qui farsi orse, "mimare l'orsa". Quale orsa? Un'orsa selvaggia, ma che aveva lasciato i boschi per venire al santuario della dea e lì' ammansirsi e addomesticarsi gradualmente, abituarsi alla frequentazione degli uomini e divenire loro familiare. Contrariamente ad Atalanta, le ragazzine che, sotto la ferula di Artemide, fanno il percorso dell'orsa non si inselvatichiscono: si addomesticano per gradi in modo che, al termine di questa prova, di questo allontanamento dalla propria casa, esse siano a loro volta in condizione di "coabitare in matrimonio con un uomo"[11].
Accompagnando i giovani lungo l'intero loro cammino, dall'embrione alla maturità, istituendo i riti di passaggio che ne consacrano l'uscita dalle zone marginali e l'ingresso nello spazio civico, Artemide non incarna la selvatichezza completa; la kourotróphos agisce in modo che si stabilisca un limite esatto tra ragazzi e ragazze, tra giovani e adulti, tra bestie ed uomini, e che possano articolarsi in maniera corretta la castità cui è votata la giovane e il matrimonio che completa la donna nell'età adulta, le pulsioni sessuali e l'ordine sociale, la vita selvaggia e la vita civilizzata.
Dai margini che sono il suo regno, Artemide, incaricandosi della formazione dei giovani, assicura in tal modo la loro integrazione nella comunità civica. Facendoli passare dall'altro all'identico, ella presiede a questo cambiamento di stato, al salto grazie al quale i giovani cessano di essere tali per diventare adulti, senza che giovinezza ed età adulta vedano per questo confusi i loro statuti e cancellate le loro frontiere.
Il parto
Dea vergine che respinge ogni contatto amoroso, Artemide è tuttavia, con l'epiteto di Lochía, la protettrice dei parti. Il fatto è che il parto costituisce il termine di quella lenta maturazione delle giovani di cui la dea è responsabile e al tempo stesso l'inizio, per il neonato, di quella vita la cui crescita le appartiene; inoltre, nell'istituzione sociale del matrimonio il parto inserisce quasi un aspetto di animalità. In primo luogo, perché nella procreazione la coppia, la cui unione ha le sue basi in un contratto, produce un rampollo simile a un piccolo animale, ancora estraneo ad ogni regola civile e culturale. Secondariamente, perché il vincolo che unisce il bimbo alla madre è "naturale", non sociale come quello che lo lega al padre.
Infine perché, attraverso la generazione, simile a quella delle bestie, di un esserino, il parto, con le grida, il dolore e quella sorta di delirio che lo accompagnano, manifesta agli occhi dei Greci il lato selvaggio e animalesco della femminilità nel momento stesso in cui la sposa, dando un futuro cittadino alla città - riproducendola -, sembra meglio integrata nel mondo della cultura.
La guerra
Artemide ha infine un suo ruolo nella conduzione della guerra. Non è tuttavia una dea guerriera. Ed i suoi interventi in questo campo non sono dell'ordine del bellicoso. Artemide non combatte: guida e salva; è Hēgemónē e Sóteira. Viene invocata come salvatrice nelle situazioni difficili, quando il conflitto coinvolge l'esistenza di una città, minacciata da distruzione totale. Artemide si mobilita quando, per l'uso eccessivo della violenza nel corso dello scontro, la guerra esce dai limiti civili entro i quali la mantengono le regole della lotta militare e precipita brutalmente nella ferinità [12].
In questi casi estremi la dea, per recare la salvezza, non fa ricorso alla forza, fisica o guerriera. Agisce attraverso una manifestazione soprannaturale che sconvolge il gioco normale del combattimento per disorientare gli aggressori e favorire i suoi protetti. I primi li acceca, fuorviandoli in sentieri perduti o offuscandone il senno con la confusione del panico. Ai secondi offre una sorta di iperlucidità, guidandoli miracolosamente attraverso le tenebre o illuminandoli con una ispirazione improvvisa. Nel primo caso Artemide cancella, confonde le frontiere nella natura o nella mente; nell'altro, proprio quando le frontiere sono confuse, permette di scoprirle.
Il combattimento
Prima di sferrare l'attacco, come preliminare al combattimento, è regola immolare alla dea una capra, davanti alla prima fila dell'esercito ed in vista del nemico. Anche qui la presenza di Artemide all'inizio della battaglia richiama e al tempo stesso mira ad eliminare la ferinità, l'aspetto selvaggio insiti al fondo della guerra. La capra che viene sgozzata in suo onore partecipa dello statuto ambiguo della dea, in una posizione-cerniera: si tratta infatti della più selvatica tra gli animali domestici. Il suo sacrificio evoca in anticipo il sangue che la brutalità del combattimento farà necessariamente scorrere, ma al tempo stesso ne storna la minaccia sul nemico, allontana dall'esercito schierato in ordine di battaglia il pericolo di una caduta nella confusione del panico o nell'orrore di una frenesia assassina. All'intersezione dei due campi, nel momento critico, in una situazione liminare, la sphagē, lo sgozzamento cruento dell'animale non concerne soltanto la frontiera che separa la vita dalla morte, la pace dal combattimento; mette in causa il limite tra l'ordine della civiltà, secondo cui ogni combattente ha il suo posto per svolgervi il ruolo che gli è stato insegnato nel ginnasio a partire dall'infanzia, e un regno del caos, abbandonato alla violenza pura, come presso le fiere che non conoscono né regola né giustizia [13].
Caccia, funzione di nutrice, parto, guerra e combattimento: Artemide opera sempre come divinità dei margini, con il duplice potere di mantenere, tra selvatichezza e civiltà, i necessari passaggi e di conservarne rigorosamente i confini al momento stesso in cui questi si trovano superati.
NOTE
1. Cfr. G. Dumezil, Apollon sonore et autres essais, Paris, Gallimard, 1982, pp.13-108. Nel caso della dea, l'epiteto che la qualifica come Chrysēlįkatos, dalla freccia d'oro, comporta una ambiguità', evocando il duplice aspetto di una Potenza al tempo stesso cacciatrice-assassina e femminile-verginale. Chrysēlįkatos significa anche "dalla conocchia d'oro"; cfr. Iliade, XX, 70 e Odissea, IV, 122 per ognuno dei due significati.
2. Dato che ella colpisce all'improvviso, inaspettatamente, ed uccide d'un colpo, il dardo scoccato da Artemide è una "freccia dolce", la morte causata da lei una " tenera morte"; cfr. Odissea, V, 123; XI, 172-173; XVIII, 202; XX, 60 e 80.
3. Iliade, XXI, 470.
4. Cfr. J.-P. Vernant, in "Annuaire du Collège de France", 1982-83, pp. 443-457.
5. Callimaco, Inno ad Artemide, 18.
6. Senofonte, Cinegetico, 1, 18.
7. Polibio, IV, 20-22.
8. Su Atalanta, Teognide, 1287-1294; Apollodoro, Biblioteca, III, 9, 2; Eliano, Varia storia, XIII; Ovidio, Metamorfosi, X, 560-580; VIII, 318-445. Per l'interpretazione del personaggio e della sua leggenda, cfr. M. Detienne, Dionysos mis à mort, Paris, Gallimard, 1977, pp. 80-88.
9. Licofrone, Alessandra, 137, e lo scolio a questo passo.
10. Eliano, Varia storia, XIII, 1: "Atalanta, ancora bambina, era più alta di statura di quanto non lo siano solitamente le donne ormai fatte [...] aveva una fisionomia maschile, uno sguardo terribile [...] Non aveva nulla del suo sesso [...]. Riuniva in sé due qualità egualmente adatte a stupire: una bellezza incomparabile ed un'aria che ispirava spavento [...]. Non si poteva incontrarla senza provare un moto di terrore".
11. Suda, s. v. árktos ē Braurōnķois; per il complesso dei testi relativi all'arkteia di Brauron, cfr. W. Sale, The temple-legends of the Arkteia, in "Rheinisches Museum", 118, 1975, pp. 265 s. C. Montepaone. L' "arkteia" a Brauron, in "Studi storico-religiosi", 3, 1979, pp. 343 s.
[12] Cfr. P. Ellinger, Le gypse et la boue. I. Sur les mythes de la guerre d'anéantissement, in "Quaderni urbinati di cultura classica", 29, 1978, pp. 7-55; Les ruses de guerre d'Artémis, in Recherches sur les cultes grecs et l'Occident, 2 (Cahiers du Centre lean Bérard, IX), Napoli, 1984, pp. 51-67.
[13] Esiodo, Le opere e i giorni, 276-280.