Wednesday, December 26, 2007

Il mito dei greci sbarca in Laguna

L'Unità, Giovedì 21 Marzo 1996

Il mito dei greci sbarca in Laguna

VALERIO MAGRELLI
L MONDO ANTICO, ha scritto Peter Brown, può essere paragonato a un lungo e caldo pomeriggio estivo, la cui frusciante brezza fu interrotta per sempre dalla "terribile bellezza" di una nuova fede. Difficile rendere in maniera più vivida il passaggio del paganesimo al cristianesimo. La facilità e la felicità di tale immagine non devono, tuttavia, trarre in inganno: infatti, secondo Brown, non si sottolinerà mai abbastanza quanto arduo sia tentare oggi di rappresentarci quell'universo classico irreversibilmente cancellato.
Le considerazioni dello storico si trovano in una recensione dedicata allo studio di Robin Lane Fox Pagani e cristiani, che uscì qualche tempo fa presso Laterza. La loro portata, però, può dirsi assai più vasta, come si vede dal fervido finale. Qui l'autore si affida a un'ulteriore similitudine. È come se, propone, la nostra cultura avesse perso l'emulsione chimica sensibile alla luce emessa dall'universo classico, con il suo particolare fulgore: "I nostri testi cristiani equivalgono alle forti macchie di luce che, in una fotografia dello spazio profondo, rappresentano le violente emissioni azzurre delle stelle nane, le quali eclissano la luce rossa e opaca della pur potente Orione".
Potremmo forse partire da questo passo, da questa specie di alterazione visiva e insieme da quello struggente paesaggio scomparso, per domandarci chi furono i Greci, e soprattutto per chiederci che cosa potremmo mai sperare di afferrare di un cultura tanto familiare e al contempo estranea. La prima risposta, certo un po' perentoria ma efficace, proviene da un saggio di Paul Valéry recentemente tradotto dal Mulino nel volume La crisi del pensiero. I Greci, afferma lo scrittore francese con formula brillante, sono gli argonauti del pensiero. Ai suoi occhi, il loro massimo merito consiste nell'aver condotto in porto un'impresa "insensata" per definizione come la fondazione della geometria.
Laddove Egizi, Cinesi, Caldei e Indiani erano falliti, essi riuscirono, conquistando un tesoro mille volte più prezioso e poetico del Vello d'Oro. Nulla poté turbare questi piloti nel loro periglioso viaggio matematico, né la fragilità delle premesse che li sostenevano, né la sottigliezza o l'infinità di interferenze che esploravano. Armonizzando operazioni motrici e visuali singolarmente complesse, e regolandole su determinate proprietà linguistiche e grammaticali, essi giunsero a realizzare la conciliazione, così delicata e improbabile, fra linguaggio comune e ragionamento esatto. In breve, conclude Valéry, i Greci lasciarono che la parola li conducesse nello spazio, come fossero dei ciechi chiaroveggenti: "E questo spazio diventava, secolo dopo secolo, una creazione sempre più sorprendente, a mano a mano che il pensiero aveva sempre più controllo su se stesso, e acquisiva sempre più fiducia nella meravigliosa ragione e nella sottigliezza iniziale che l'avevano dotato di strumenti incomparabili".
Per l'autore della Giovane Parca, come per molti altri, la cultura greca rappresenta insomma il trionfo dell'intelletto, ossia la massima celebrazione del pensiero puro. Valéry non ignorava certo la lezione di Nietzsche, e conosceva bene la tensione tra apollineo e dionisiaco che attraversava quel mondo. Eppure, volle indicare appunto nella sua luce gnoseologica (qui intesa in forma strettamente matematica) il trionfo sulle tenebre primordiali. Qualcosa di analogo ha sostenuto un filologo come Bruno Snell, commentando la nascita della scienza moderna presso i Greci con l'affermazione: "Gli dèi olimpici ci hanno reso europei". Ma oltre ad essere il popolo dei numeri, questo fu anche il popolo delle storie e della Storia. Accanto a Pitagora stanno cioè Omero da un lato, Tucidide dall'altro, l'uno padrone del racconto mitico, l'altro signore del resoconto documentario.
Davanti a una simile biforcazione del sapere, che può essere legittimamente considerata come un lascito di questa civiltà, non è forse azzardato parlare di una vera e propria "invenzione del passato", in quanto frutto di una tecnologia del tempo e insieme della parola. Eppure, ancora una volta, ecco stagliarsi accanto alla luce la presenza del buio. Abbiamo appena parlato del passato (o meglio della sua riorganizzazione nella forma di narrazione mitica o ricostruzione storiografica), che già ci viene incontro l'ombra del futuro. Perché i Greci, oltre che contemplare il tempo trascorso, si sporsero temerariamente verso quello a venire. Appartengono a loro i grandi ciechi che chiudono gli occhi per guardare più in là del presente.
È noto come, per i presocratici, pensare e vedere costituissero due attività pressoché indiscernibili tra loro, come mostra ad esempio l'etimo della parola "mistica". Con il vocabolo "mystes" veniva designato l'adepto dei misteri, colui che stringe gli occhi per scrutare lontano. Secondo questa accezione, i termini di "mistica", "miopia" e "mistero" deriverebbero appunto da un'unica radice. Ebbene, Tiresia e Edipo ci rammentano che il progetto di un'invenzione del passato andò di pari passo con il tentativo di manipolazione del futuro. Mito e storia, cioè, non esclusero affatto una profonda fiducia nell'arte della divinazione.
Dall'apoteosi dello sguardo come principio fondatore della geometria, da cui siamo partiti con Valéry, eccoci giunti alla sua condanna, con il tragico tema dell'accecamento iniziatico. In apparenza il discorso si è rovesciato, ma in verità il suo svolgimento ci ha condotti ad una conclusione ben precisa. Alla fine di queste brevi osservazioni, i greci ci appaiono infatti come il popolo della polarizzazione e degli opposti, del Due, della dialettica e del dialogo. E che cos'altro sono la filosofia e la democrazia, inestimabili doni di Atene all'umanità, se non le forme più fragili e preziose di questa civiltà strutturalmente antagonistica? Né forse è un caso che Sparta, la città muta per definizione, oltre a lasciarci l'aggettivo "laconico", per indicare chi è privo di parola, abbia coniato il sostantivo "problema".
I Greci fanno problema, e la loro ricchezza sta appunto nell'apertura che quel problema continua a mantenere, intatta, anche dopo millenni. Per afferrarne la portata, non resta che sfogliare La montagna incantata di Thomas Mann, soffermandosi sul capitolo del sogno. L'eroe cammina in un paesaggio fatato, tra uomini e donne incantevoli per grazia e intelligenza. Un caldo sole riscalda la natura. "È delizioso", esclama. Ma di colpo il suo sorriso si gela nel guardare un tempio massiccio, grigio, minaccioso, nudo. Attraversandone le colonne, Hans Castorp penetra nel cuore dell'edificio: "Giunto in fondo vide davanti a sé, aperta, la ferrea porta, e le ginocchia quasi gli si piegarono per lo spavento. Due femmine grigie, mezze nude, dai capelli arruffati, coi seni pendenti, straziavano, fra recipienti di fiamma, il corpo di un bambino, lo squarciavano con le mani in un silenzio selvaggio (Castorp vide tenui fili biondi e sangue) e ne inghiottivano i pezzi, così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca, dalle cui labbra orrende gocciava sangue".
Questa è la Grecia: un orrore domato. Ecco perché, ammirando oggi le Eumenidi, dovremmo sempre ricordare le Furie che regnavano prima al posto loro.