Repubblica supplemento settimanale “D” n°105 giugno 1998
Italo Bertolasi
I Kafiri dell'Hindukush
"Infedeli e nemici di Dio - Allah". Per questo una tra le più piccole e combattive popolazioni della terra é chiamata "Kafir". Un insulto e una minaccia che é rivolta ai "pagani" e a chi é colpevole di blasfemia contro l'Islam. Ma i mille Kafiri, che sopravvivono in un eden alpestre tra i labirinti rocciosi dell'Hindukush, mai domati e mai islamizzati, si autoproclamano "Kalash". Uomini liberi. Dell'antico e leggendario regno del Kafiristan non rimangono oggi che tre valli nell'alto Chitral pachistano: Rumboor, Bumburate, Birir. Piene di pini, querce, noci. Gonfie di acque. La loro esistenza é un rebus antropologico, un miracolo di sopravvivenza in un ambiente estremo e unico esempio di vittoriosa etnoresistenza contro i disegni della teocrazia militar religiosa che regge il Pakistan. Il Pakistan, prima potenza nucleare dell'Islam, conta un 97% di musulmani - musulman vuol dire credente - e solo un 3% di "Kafiri". Tra questi ci sono i Parsi, ultimi superstiti della potente comunità zoroastriana, e i cattolici sempre più perseguitati. Il vescovo di Faisalabad, John Joseph, si é suicidato il maggio scorso per denunciare le condanne a morte pronunciate contro i cattolici accusati di blasfemia. I Kafiri kalash si proclamano anche "ultimi greci dell'India": sostengono di discendere dagli eroi dell'invincibile armata di Alessandro il Grande che nel 326 a.C. attraversa il Kafiristan per conquistare l'India. Nei "bashikek" - i loro canti epici - ricordano come sperma greco e magie di fate - le "suchi - hanno originato montanari biondi dagli occhi azzurri. Che coltivano la vite, bevono vino, celebrano riti orgiastici e dionisiaci dove le belle kafire danzano come vere baccanti. Gli antropologi che li hanno studiati ci dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell'Oxus e l'Amu Daria. L'antica patria kafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell'odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio. La prima volta li ho visitati trent'anni fa. Allora non c'erano turisti. C'erano solo sentieri avventurosi attraverso gole e torrenti che mi hanno riportato in una "isola antichissima di genti, cose, idee, costumi sopravvissuti alle frane del tempo". In una terra di pace che, prima di me, aveva ammaliato nel 1959 Fosco Maraini, scrittore e antropologo. Sedotto Kipling, che vi ambienta il romanzo "L'uomo che voleva essere re", il visionario russo Gurdjieff che ricorda nei suoi diari di viaggio l'incontro con i "cercatori di verità" dell'Hindukush, e gli Hippies degli anni '70 che vedevano nel microcosmo kafiro il modello di una comunità ideale. Oggi anche il Kafiristan é una terra "violata" da strade militari con "dogane" che ti costringono a pagare un biglietto d'ingresso per entrare in valle a vedere i "pagani". Come fossi ad un museo o ad uno zoo. Le belle foreste di pini e ginepri, da sempre terreno kafiro di caccia e di legnatico, sono state confiscate dal governo. E i fondo valle svenduti ai coloni pachistani che hanno invaso le valli. I nuovi arrivati sono furbamente usati come muro umano per arginare l'ondata di afgani in fuga attraverso le valli kafire. Oggi i profughi afgani accolti in Pakistan sono quasi un milione. Mi sono affezionato ai Kafiri e sono ritornato tra loro più volte: ad accogliermi c'era sempre il capo villaggio Bumbur Khan e il "kasi" - il cantastorie ed il guardiano delle tradizioni - Khoshinawas. Una vera enciclopedia vivente che ricorda a menadito centinaia di "bidra kalein", i miti della tribù cantati durante le feste. Bhumbur Khan ha due mogli, una dozzina di figli e ha trasformato il granaio domestico in un "Lodge" dove accoglie turisti e studiosi. Trent'anni fa, quando passeggiavamo per la valle di Bumburate - la sua valle -, mi mostrava lo scempio perpetrato dalle spedizioni "scientifiche" e da atti di terrorismo islamico. Gli antropologi avevano profanato le "basciali", templi e ginecei riservati alle donne che conservano la vulva lignea di Dezalik, la dea del Parto. Entrando, fotografando e misurando tutto, avevano costretto i Kafiri a demolire questi spazi magici e a riconsacrarne dei nuovi con costosi rituali di purificazione. Gli "studiosi" avevano rubato i "gandau" per rinchiuderli nei loro musei. Avevano così distrutto anche una "frontiera" magica: i gandau sono statue lignee che raffigurano gli antenati usate per proteggere i villaggi, i campi e i cimiteri. Di notte giravano bande di fanatici mussulmani che li decapitavano: per loro erano "idoli demoniaci". Oggi la strage di questi totem é compiuta: del centinaio di gandau che ho contato trent'anni fa non ne rimane che una solitaria coppia. Ma ci sono ben più tragiche calamità. La piccola comunità kafira é divisa da tremendi conflitti. C'é chi ha "tradito" la propria gente islamizzandosi o facendosi cristiano. Negli ultimi anni girano in valle strani missionari americani che assomigliano a mujiadin. La valle é "ferita" da recinti e fili spinati che difendono le proprietà private dei coloni padroni. Così si bloccano sentieri vitali che conducono ai pascoli d'alta montagna. E non c'é più libertà di muoversi nella propria terra. Poi c'é il progetto violento d'acculturazione: maestri e "mullah" fanatici - preti islamici - costringono i bimbi kafiri a esprimersi solo con l’" Urdu " - la lingua del Pakistan - e a indottrinarsi col Corano. L'educazione kafira invece é un galateo di libertà: i bimbi godono una libertà assoluta perché "nascono intelligentissimi" e perché frequentano già l'unica scuola utile "un bello e pacifico villaggio dove il bimbo sceglie di imparare ciò che gli serve". Oggi i kafiri vivono sempre più stretti nei loro nidi d'aquila abbarbicati a mezza montagna, collegati da sentierini che costeggiano acquedotti pensili. I villaggi presepe sono rimasti come centinaia d'anni fa. Raccolti intorno ai templi - le Jesta Khan - dove si venera Jesta, l'energia materna che conserva il mondo. Il tempio kafiro é un mandala - un cosmogramma - e una "macchina del tempo". Nelle giornate di sole dal tetto bucato scende un filo di luce diaframmata da travi sovrapposte a spirale. È un complicato orologio solare: nel giorno del solstizio d'inverno il raggio di luce "bacia" la statua di Jestak e fa esplodere la gran festa del "Chaumos". La geomanzia kafira attribuisce ai luoghi più alti un'aura di potere e sacralità. Le valli sono così "disegnate" da curve di livello energetiche e spirituali. Le terre basse, vicino al fiume e "occupate" dai musulmani, sono sempre di più impure e pericolose. Qui da sempre i Kafiri hanno i loro cimiteri con le casse di legno fuori terra "sigillate" da enormi pietroni. E le basciali, le case del parto. A mezza montagna é edificato il villaggio a gradoni e in cima le stalle delle capre che ogni tanto accolgono le "suchi", le fate che incarnano la forza fecondante di madre Natura. Più su enormi macigni irradiano invece la forza maschia e solare di Mahandeo e di Balumain. Le fate kafire risiedono nelle terre purissime delle vette. Proteggono i "markor" gli stambecchi, i "dehar" - gli sciamani - i "re" pastori e tutta la natura nuda e selvaggia dell'alta montagna. Le vette sacre sono un luogo tabù. Niente scalate! Sarebbe una vera profanazione ascendere la scintillante piramide del monte Palar, dove risiedono dei e antenati in palazzi d'oro che si vedono ogni tanto luccicare al sole. Morte e follia castiga chi "offende" madre natura inquinando acque sorgive, tagliando alberi fratello o assassinando animali guida. Il mondo kafiro é così diviso tra sacro e profano, puro e impuro. Tutto quello che é alto e selvaggio - monti, animali selvatici ma anche capre e stalle - é "puro", mentre tutto quello che é in basso, non é libero ed é stato addomesticato - fondo valli ma anche vacche e polli - é invece "impuro". I kafiri appartengono a una "cultura caprina", che predica il nomadismo, la sacralità della wilderness e del caprone totem, in netto contrasto con i popoli contadini e sedentari dell'India che appartengono invece alla "cultura della vacca sacra". La capra é un vero tesoro. Il potere di un uomo kafiro si misura dal numero delle sue capre ed i "re" - i capo villaggio - sono onorati col titolo di "uomini dalle molte corna". Il simbolismo della capra compare dappertutto: nelle danze che imitano i salti e le lotte a suon di cornate dei caproni, nei ricami delle tuniche che raffigurano capre stilizzate e nel make up delle donne che si tingono impressionanti sopracciglia "cornute". In questo universo agreste i pastori eremiti che trascorrono tutta l'estate negli alpeggi sono considerati dei "budalac" - degli eroi. Bumbur mi invita a salire in montagna per incontrarli. Mi spiega che la scuola di vita che ti fa diventare un vero uomo é lassù in alta montagna, tra capre e pastori. Gli alpeggi kafiri sono in mezzo ad un mosaico di "terre di nessuno" che dividono Pakistan e Afganistan dove puoi incontrare, come cento anni fa, banditi armati fino ai denti. Ma sotto protezione kafira mi sento al sicuro e salgo "scortato" dal figlio di Bumbur Khan. Vorremo incontrare un famoso pastore sciamano "sepolto" da anni in un eremo di montagna. Lo raggiungiamo dopo una faticosa arrampicata: la sua "reggia" é in cima ad una rupe con vista panoramica su tutti i quattro lati. È ricoperto di stracci ma il suo sguardo rivela una forza tremenda. È circondato da cani lanosi che sembrano levrieri afgani e da altri pastori. Ci offre del tè e un pò di "ciapati" - un pane sottile cotto alla piastra - condito con una gustosa ricotta. Mi vuol mostrare le famose "dizilawat" - le rocce della creazione - dove si offrono acqua, latte, vino, sangue di capra e incenso di "saras" - ginepro - a Sajigor, il dio delle vette. Quest'eremita ci svela di essere anche un erborista e un "dehar", uno sciamano. Passo giorni di sogno: sopra le testa volano i bombardieri afgani mentre il nostro "re" ci vuol convincere a rimanere in montagna promettendoci che con una "full immersion" di qualche mese si può diventare sciamani. Scendo a valle ripensando a quell'offerta: nessun uomo bianco ha mai seguito la "via" dei dehar. Ma il mondo è cambiato anche in queste valli e i giovani Kafiri non né vogliono più sapere di isolarsi in montagna per diventare sciamani. Il figlio di Bumbur, esempio perfetto di nuovo kafiro, sogna Peshawar e le grandi città. Nel nostro "pellegrinaggio" ha sempre con sé una radio che gracchia e che rompe il silenzio tremendo della montagna. Quando si visita il Kafiristan si rimane sedotti dalla bellezza delle donne kafire. Ti sorridono senza chador e senza veli. I loro sguardi lucenti come i ghiacci del Tirich Mir e profondi come notti orientali, ti scrutano con un candore ipnotico e seducente. Per farsi più belle indossano maestose "Kupas", copricapo criniera fatti di lane, argenti e conchiglie. E si tingono gli occhi col Kajal e col sugo rosso del sambuco. Nella festa della primavera - lo "Joshi" - le ho viste danzare lo "Zabum". Accese dal rombo dei tamburi girano su sé stesse come trottole fino allo sfinimento. Il corpo é scosso da un tremore sacro che i Kafiri chiamano "umbulu". Lo sguardo é in cielo. È una danza nuda ed estatica che ricopia il movimento di rotazione dei pianeti per ricreare ordine e armonia. È "fuoco che brucia e sole che sorge di nuovo" mi spiega Kasi Khoshinawas. In autunno invece ho visto "imbottigliare" il vino. Gli "onjesta mosh", i bimbi vergini, iniziano a pigiare l'uva in mastelli di latta. Il lavoro è poi completato dai fratelli maggiori. Il mosto é conservato fino a dicembre per la gran sbronza rituale della festa del solstizio: una specie di "natale" kafiro. La vite cresce abbarbicata agli alberi di noce e l'uva matura ad altezze vertiginose: raccoglierla è spesso un'impresa rischiosa. La coltivazione di quest'uva alpina ci rimanda ad una nuova leggenda. L'uva sacra a Dionisio é stata forse portata fin quassù da eroi che hanno percorso una "Via del Vino e dell'estasi" che partiva dal Mediterraneo. Più segreta della famosa e trafficata "Via della Seta". Il vino che per ogni buon musulmano é una droga sacrilega, per i nostri kafiri é invece un'ambrosia offerta a Balumain, un Dionisio locale, che alla fine dell'inverno fa ritorno nell'amato Kafiristan. Per raggiungerli d'inverno devi per forza volare sugli aeroplanini ad elica che collegano Peshawar a Chitral. Le tempeste di neve sommergono il Logorai pass isolando dal mondo le tre valli kafire. Ho voluto festeggiare con loro il "Chaumos" la festa del solstizio invernale. Un'orgia pantagruelica - "chaumos" vuol dire letteralmente "quattro volte carne" - e un rito per propiziare il ritorno del sole, del calore e della vita. Nei giorni di vigilia si preparano i "shishao", pani ripieni di noci e cotti dai ragazzi vergini, e i "kuturuli", dolci a forma di genitali femminili, che sono offerti a Kushumai, dea dei campi e dell'amore. E nel giorno del "Ditsh" - della gran purificazione - si fanno "bagni di sangue", di fuoco e d'acqua ghiacciata di torrente e ancora fumigazioni di ginepro. Per proteggere questa purezza rituale i kafiri si ritirano nei loro villaggi imponendosi il divieto assoluto di far sesso e di avvicinarsi a tutto ciò che é considerato "pragata" - impuro. Per tre giorni nessun kafiro potrà allora incontrarsi con un mussulmano. Mi ero anch'io asperso col sangue del capretto sacrificale, benedetto con l'incenso di ginepro e purificato con un bel bagno di torrente. Bumbur mi spiegava che questo fanatismo per la purezza é una "cura" intelligente che rinforza i villaggi e la cultura kafira. Tabù, bagni e diete sono antidoti contro malattie e disgrazie. Danze e feste un modo per rinsaldare il gruppo ed alleviare i conflitti sociali. Il Chaumos é alla fine una "performance" politica dove si afferma ancora una volta la voglia di resistere, costi quel che costi, alla forza repressiva del fondamentalismo islamico. Simboleggia tutto questo il rogo simbolico di un fortino fatto di assicelle di pino che é riempito di nemici e di altri demoni. La notte santa del solstizio é anche la notte dei sacrifici. Guidati dai prodi "budalak" - i re pastori - si sale in montagna invocando Balumain, Dio Ariete: " Noi ti onoreremo con fiumi di fango. Donaci il calore della primavera e il seme caldo che ingravida i ventri delle nostre donne". Per raggiungere le rocce sacre, troni di Balumain, scaliamo un canalone senza tracce di sentiero. Il luogo più sacro é anche il più selvaggio e il Dio del solstizio sceglie d'atterrare ogni anno su un ammasso di rocce antropomorfe che svettano in cima ad una frana. Ogni capo famiglia si trascina dietro un caprone da sacrificare: anch'io ho dovuto acquistare un bel caprone rosso che mi segue di malavoglia e che é trascinato in cima da quattro energumeni. La capra rituale sarà sacrificata solo quando il suo corpo sarà scosso da brividi. Il sacro tremore é segno che la divinità prende possesso della sua vittima e ben gradisce l'offerta. Il tremore della capra può contagiare i dehar e i giovani più sensitivi che cadono in trance manifestando così la loro vocazione sciamanica. Ma dopo una trentina di sgozzamenti, nessuno si muove o si contorce. Peccato. Quest'anno non ci sarà un nuovo sciamano!
Cosa leggere "Gli ultimi pagani" di Fosco Maraini - Edizioni RED pag. 230 Lire 49.000
I Kafiri discendono da antiche popolazioni indoariane che hanno trovato rifugio tremila anni fa nelle impervie valli dell'Hindukush. Gli scribi al seguito delle armate di Alessandro il Grande in marcia verso l'India ricordano l'incontro con montanari dalla pelle chiara e dagli occhi azzurri che vivevano nelle valli del Kunar. Alla morte di Alessandro la cultura greca ha influenzato l'arte del Gandara (la valle di Swat é a un centinaio di chilometri da Chitral) e si può immaginare che si sia diffusa anche nella valli kafire. I mille kalash che oggi vivono in Pakistan sono la "minoranza" di una popolosa tribù di "barbari indomabili" che avevano resistito alle armate di Akbar e Jahngir all'inizio del 15° secolo e poi alla guerra santa scatenata contro i "balalik" - i montanari selvaggi - dall'emiro di Kabul Abdur Rachman nel 1895. Erano tempi in cui trionfava il nazionalismo afgano contro l'arrogante strapotere coloniale inglese. La pulizia etnica si fermò per fortuna alla "linea Durand": un confine voluto dagli inglesi per contenere le armate dell'Afganistan e i progetti coloniali della Russia zarista. Il Kafiristan é diviso in due parti. I Kati - i Kafiri rossi - rimasti in Afganistan sono decimati. I giovani deportati a Kabul vengono costretti a convertirsi all'Islam. Il Kafiristan occupato fu ribattezzato "Nuristan": paese della Luce. Chi riuscì a fuggire fu accolto tra i Kalash - i Kafiri "neri" - che vissero in santa pace nel Regno del Chitral. Nel 1959 il Pakistan si annette il regno del Chitral e i Kafiri ridiventano i "pagani e infedeli" dell'Hindukush. Questa volta si preferisce l'arma dell'acculturazione. La lingua indigena - il kalashwar - é bandita nelle scuole islamiche. E le valli vengono riempite di coloni fanatici. Il primo occidentale che incontra i Kafiri é il medico e agente inglese George Robertson che li visitò dal 1878 al 1891. Nel suo libro: " I Kafiri dell'Hindukush" ci racconta le avventure spericolate " in uno dei territori montani più inaccessibili e intricati del mondo, inospitale e pieno di pericoli e di un gran numero di nascondigli per banditi e assassini". Poi è la volta di studiosi ed antropologi: tra questi i danesi Georg Morgenstierne, che studia la lingua kafira, e Halfdan Siiger attratto, invece, dallo sciamanesimo. Al fascino del Kafiristan non sfugge Fosco Maraini, antropologo e scrittore, che li visita nel 1959 dopo la vittoriosa spedizione del CAI al picco Saraghar (7349 metri d'altezza) e che racconta il suo memorabile viaggio nelle pagine del libro Paropamiso: " Se il mondo non fosse tutto così maledettamente ben conosciuto e delineato sulle carte, se fosse possibile ancora, al di fuori delle terre ghiacciate o assolutamente inospitali, pronunciare la parola “scoprire”, avremmo davvero pensato di mettere piede nelle terre favoleggiate di qualche stirpe leggendaria".
Italo Bertolasi
I Kafiri dell'Hindukush
"Infedeli e nemici di Dio - Allah". Per questo una tra le più piccole e combattive popolazioni della terra é chiamata "Kafir". Un insulto e una minaccia che é rivolta ai "pagani" e a chi é colpevole di blasfemia contro l'Islam. Ma i mille Kafiri, che sopravvivono in un eden alpestre tra i labirinti rocciosi dell'Hindukush, mai domati e mai islamizzati, si autoproclamano "Kalash". Uomini liberi. Dell'antico e leggendario regno del Kafiristan non rimangono oggi che tre valli nell'alto Chitral pachistano: Rumboor, Bumburate, Birir. Piene di pini, querce, noci. Gonfie di acque. La loro esistenza é un rebus antropologico, un miracolo di sopravvivenza in un ambiente estremo e unico esempio di vittoriosa etnoresistenza contro i disegni della teocrazia militar religiosa che regge il Pakistan. Il Pakistan, prima potenza nucleare dell'Islam, conta un 97% di musulmani - musulman vuol dire credente - e solo un 3% di "Kafiri". Tra questi ci sono i Parsi, ultimi superstiti della potente comunità zoroastriana, e i cattolici sempre più perseguitati. Il vescovo di Faisalabad, John Joseph, si é suicidato il maggio scorso per denunciare le condanne a morte pronunciate contro i cattolici accusati di blasfemia. I Kafiri kalash si proclamano anche "ultimi greci dell'India": sostengono di discendere dagli eroi dell'invincibile armata di Alessandro il Grande che nel 326 a.C. attraversa il Kafiristan per conquistare l'India. Nei "bashikek" - i loro canti epici - ricordano come sperma greco e magie di fate - le "suchi - hanno originato montanari biondi dagli occhi azzurri. Che coltivano la vite, bevono vino, celebrano riti orgiastici e dionisiaci dove le belle kafire danzano come vere baccanti. Gli antropologi che li hanno studiati ci dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell'Oxus e l'Amu Daria. L'antica patria kafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell'odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio. La prima volta li ho visitati trent'anni fa. Allora non c'erano turisti. C'erano solo sentieri avventurosi attraverso gole e torrenti che mi hanno riportato in una "isola antichissima di genti, cose, idee, costumi sopravvissuti alle frane del tempo". In una terra di pace che, prima di me, aveva ammaliato nel 1959 Fosco Maraini, scrittore e antropologo. Sedotto Kipling, che vi ambienta il romanzo "L'uomo che voleva essere re", il visionario russo Gurdjieff che ricorda nei suoi diari di viaggio l'incontro con i "cercatori di verità" dell'Hindukush, e gli Hippies degli anni '70 che vedevano nel microcosmo kafiro il modello di una comunità ideale. Oggi anche il Kafiristan é una terra "violata" da strade militari con "dogane" che ti costringono a pagare un biglietto d'ingresso per entrare in valle a vedere i "pagani". Come fossi ad un museo o ad uno zoo. Le belle foreste di pini e ginepri, da sempre terreno kafiro di caccia e di legnatico, sono state confiscate dal governo. E i fondo valle svenduti ai coloni pachistani che hanno invaso le valli. I nuovi arrivati sono furbamente usati come muro umano per arginare l'ondata di afgani in fuga attraverso le valli kafire. Oggi i profughi afgani accolti in Pakistan sono quasi un milione. Mi sono affezionato ai Kafiri e sono ritornato tra loro più volte: ad accogliermi c'era sempre il capo villaggio Bumbur Khan e il "kasi" - il cantastorie ed il guardiano delle tradizioni - Khoshinawas. Una vera enciclopedia vivente che ricorda a menadito centinaia di "bidra kalein", i miti della tribù cantati durante le feste. Bhumbur Khan ha due mogli, una dozzina di figli e ha trasformato il granaio domestico in un "Lodge" dove accoglie turisti e studiosi. Trent'anni fa, quando passeggiavamo per la valle di Bumburate - la sua valle -, mi mostrava lo scempio perpetrato dalle spedizioni "scientifiche" e da atti di terrorismo islamico. Gli antropologi avevano profanato le "basciali", templi e ginecei riservati alle donne che conservano la vulva lignea di Dezalik, la dea del Parto. Entrando, fotografando e misurando tutto, avevano costretto i Kafiri a demolire questi spazi magici e a riconsacrarne dei nuovi con costosi rituali di purificazione. Gli "studiosi" avevano rubato i "gandau" per rinchiuderli nei loro musei. Avevano così distrutto anche una "frontiera" magica: i gandau sono statue lignee che raffigurano gli antenati usate per proteggere i villaggi, i campi e i cimiteri. Di notte giravano bande di fanatici mussulmani che li decapitavano: per loro erano "idoli demoniaci". Oggi la strage di questi totem é compiuta: del centinaio di gandau che ho contato trent'anni fa non ne rimane che una solitaria coppia. Ma ci sono ben più tragiche calamità. La piccola comunità kafira é divisa da tremendi conflitti. C'é chi ha "tradito" la propria gente islamizzandosi o facendosi cristiano. Negli ultimi anni girano in valle strani missionari americani che assomigliano a mujiadin. La valle é "ferita" da recinti e fili spinati che difendono le proprietà private dei coloni padroni. Così si bloccano sentieri vitali che conducono ai pascoli d'alta montagna. E non c'é più libertà di muoversi nella propria terra. Poi c'é il progetto violento d'acculturazione: maestri e "mullah" fanatici - preti islamici - costringono i bimbi kafiri a esprimersi solo con l’" Urdu " - la lingua del Pakistan - e a indottrinarsi col Corano. L'educazione kafira invece é un galateo di libertà: i bimbi godono una libertà assoluta perché "nascono intelligentissimi" e perché frequentano già l'unica scuola utile "un bello e pacifico villaggio dove il bimbo sceglie di imparare ciò che gli serve". Oggi i kafiri vivono sempre più stretti nei loro nidi d'aquila abbarbicati a mezza montagna, collegati da sentierini che costeggiano acquedotti pensili. I villaggi presepe sono rimasti come centinaia d'anni fa. Raccolti intorno ai templi - le Jesta Khan - dove si venera Jesta, l'energia materna che conserva il mondo. Il tempio kafiro é un mandala - un cosmogramma - e una "macchina del tempo". Nelle giornate di sole dal tetto bucato scende un filo di luce diaframmata da travi sovrapposte a spirale. È un complicato orologio solare: nel giorno del solstizio d'inverno il raggio di luce "bacia" la statua di Jestak e fa esplodere la gran festa del "Chaumos". La geomanzia kafira attribuisce ai luoghi più alti un'aura di potere e sacralità. Le valli sono così "disegnate" da curve di livello energetiche e spirituali. Le terre basse, vicino al fiume e "occupate" dai musulmani, sono sempre di più impure e pericolose. Qui da sempre i Kafiri hanno i loro cimiteri con le casse di legno fuori terra "sigillate" da enormi pietroni. E le basciali, le case del parto. A mezza montagna é edificato il villaggio a gradoni e in cima le stalle delle capre che ogni tanto accolgono le "suchi", le fate che incarnano la forza fecondante di madre Natura. Più su enormi macigni irradiano invece la forza maschia e solare di Mahandeo e di Balumain. Le fate kafire risiedono nelle terre purissime delle vette. Proteggono i "markor" gli stambecchi, i "dehar" - gli sciamani - i "re" pastori e tutta la natura nuda e selvaggia dell'alta montagna. Le vette sacre sono un luogo tabù. Niente scalate! Sarebbe una vera profanazione ascendere la scintillante piramide del monte Palar, dove risiedono dei e antenati in palazzi d'oro che si vedono ogni tanto luccicare al sole. Morte e follia castiga chi "offende" madre natura inquinando acque sorgive, tagliando alberi fratello o assassinando animali guida. Il mondo kafiro é così diviso tra sacro e profano, puro e impuro. Tutto quello che é alto e selvaggio - monti, animali selvatici ma anche capre e stalle - é "puro", mentre tutto quello che é in basso, non é libero ed é stato addomesticato - fondo valli ma anche vacche e polli - é invece "impuro". I kafiri appartengono a una "cultura caprina", che predica il nomadismo, la sacralità della wilderness e del caprone totem, in netto contrasto con i popoli contadini e sedentari dell'India che appartengono invece alla "cultura della vacca sacra". La capra é un vero tesoro. Il potere di un uomo kafiro si misura dal numero delle sue capre ed i "re" - i capo villaggio - sono onorati col titolo di "uomini dalle molte corna". Il simbolismo della capra compare dappertutto: nelle danze che imitano i salti e le lotte a suon di cornate dei caproni, nei ricami delle tuniche che raffigurano capre stilizzate e nel make up delle donne che si tingono impressionanti sopracciglia "cornute". In questo universo agreste i pastori eremiti che trascorrono tutta l'estate negli alpeggi sono considerati dei "budalac" - degli eroi. Bumbur mi invita a salire in montagna per incontrarli. Mi spiega che la scuola di vita che ti fa diventare un vero uomo é lassù in alta montagna, tra capre e pastori. Gli alpeggi kafiri sono in mezzo ad un mosaico di "terre di nessuno" che dividono Pakistan e Afganistan dove puoi incontrare, come cento anni fa, banditi armati fino ai denti. Ma sotto protezione kafira mi sento al sicuro e salgo "scortato" dal figlio di Bumbur Khan. Vorremo incontrare un famoso pastore sciamano "sepolto" da anni in un eremo di montagna. Lo raggiungiamo dopo una faticosa arrampicata: la sua "reggia" é in cima ad una rupe con vista panoramica su tutti i quattro lati. È ricoperto di stracci ma il suo sguardo rivela una forza tremenda. È circondato da cani lanosi che sembrano levrieri afgani e da altri pastori. Ci offre del tè e un pò di "ciapati" - un pane sottile cotto alla piastra - condito con una gustosa ricotta. Mi vuol mostrare le famose "dizilawat" - le rocce della creazione - dove si offrono acqua, latte, vino, sangue di capra e incenso di "saras" - ginepro - a Sajigor, il dio delle vette. Quest'eremita ci svela di essere anche un erborista e un "dehar", uno sciamano. Passo giorni di sogno: sopra le testa volano i bombardieri afgani mentre il nostro "re" ci vuol convincere a rimanere in montagna promettendoci che con una "full immersion" di qualche mese si può diventare sciamani. Scendo a valle ripensando a quell'offerta: nessun uomo bianco ha mai seguito la "via" dei dehar. Ma il mondo è cambiato anche in queste valli e i giovani Kafiri non né vogliono più sapere di isolarsi in montagna per diventare sciamani. Il figlio di Bumbur, esempio perfetto di nuovo kafiro, sogna Peshawar e le grandi città. Nel nostro "pellegrinaggio" ha sempre con sé una radio che gracchia e che rompe il silenzio tremendo della montagna. Quando si visita il Kafiristan si rimane sedotti dalla bellezza delle donne kafire. Ti sorridono senza chador e senza veli. I loro sguardi lucenti come i ghiacci del Tirich Mir e profondi come notti orientali, ti scrutano con un candore ipnotico e seducente. Per farsi più belle indossano maestose "Kupas", copricapo criniera fatti di lane, argenti e conchiglie. E si tingono gli occhi col Kajal e col sugo rosso del sambuco. Nella festa della primavera - lo "Joshi" - le ho viste danzare lo "Zabum". Accese dal rombo dei tamburi girano su sé stesse come trottole fino allo sfinimento. Il corpo é scosso da un tremore sacro che i Kafiri chiamano "umbulu". Lo sguardo é in cielo. È una danza nuda ed estatica che ricopia il movimento di rotazione dei pianeti per ricreare ordine e armonia. È "fuoco che brucia e sole che sorge di nuovo" mi spiega Kasi Khoshinawas. In autunno invece ho visto "imbottigliare" il vino. Gli "onjesta mosh", i bimbi vergini, iniziano a pigiare l'uva in mastelli di latta. Il lavoro è poi completato dai fratelli maggiori. Il mosto é conservato fino a dicembre per la gran sbronza rituale della festa del solstizio: una specie di "natale" kafiro. La vite cresce abbarbicata agli alberi di noce e l'uva matura ad altezze vertiginose: raccoglierla è spesso un'impresa rischiosa. La coltivazione di quest'uva alpina ci rimanda ad una nuova leggenda. L'uva sacra a Dionisio é stata forse portata fin quassù da eroi che hanno percorso una "Via del Vino e dell'estasi" che partiva dal Mediterraneo. Più segreta della famosa e trafficata "Via della Seta". Il vino che per ogni buon musulmano é una droga sacrilega, per i nostri kafiri é invece un'ambrosia offerta a Balumain, un Dionisio locale, che alla fine dell'inverno fa ritorno nell'amato Kafiristan. Per raggiungerli d'inverno devi per forza volare sugli aeroplanini ad elica che collegano Peshawar a Chitral. Le tempeste di neve sommergono il Logorai pass isolando dal mondo le tre valli kafire. Ho voluto festeggiare con loro il "Chaumos" la festa del solstizio invernale. Un'orgia pantagruelica - "chaumos" vuol dire letteralmente "quattro volte carne" - e un rito per propiziare il ritorno del sole, del calore e della vita. Nei giorni di vigilia si preparano i "shishao", pani ripieni di noci e cotti dai ragazzi vergini, e i "kuturuli", dolci a forma di genitali femminili, che sono offerti a Kushumai, dea dei campi e dell'amore. E nel giorno del "Ditsh" - della gran purificazione - si fanno "bagni di sangue", di fuoco e d'acqua ghiacciata di torrente e ancora fumigazioni di ginepro. Per proteggere questa purezza rituale i kafiri si ritirano nei loro villaggi imponendosi il divieto assoluto di far sesso e di avvicinarsi a tutto ciò che é considerato "pragata" - impuro. Per tre giorni nessun kafiro potrà allora incontrarsi con un mussulmano. Mi ero anch'io asperso col sangue del capretto sacrificale, benedetto con l'incenso di ginepro e purificato con un bel bagno di torrente. Bumbur mi spiegava che questo fanatismo per la purezza é una "cura" intelligente che rinforza i villaggi e la cultura kafira. Tabù, bagni e diete sono antidoti contro malattie e disgrazie. Danze e feste un modo per rinsaldare il gruppo ed alleviare i conflitti sociali. Il Chaumos é alla fine una "performance" politica dove si afferma ancora una volta la voglia di resistere, costi quel che costi, alla forza repressiva del fondamentalismo islamico. Simboleggia tutto questo il rogo simbolico di un fortino fatto di assicelle di pino che é riempito di nemici e di altri demoni. La notte santa del solstizio é anche la notte dei sacrifici. Guidati dai prodi "budalak" - i re pastori - si sale in montagna invocando Balumain, Dio Ariete: " Noi ti onoreremo con fiumi di fango. Donaci il calore della primavera e il seme caldo che ingravida i ventri delle nostre donne". Per raggiungere le rocce sacre, troni di Balumain, scaliamo un canalone senza tracce di sentiero. Il luogo più sacro é anche il più selvaggio e il Dio del solstizio sceglie d'atterrare ogni anno su un ammasso di rocce antropomorfe che svettano in cima ad una frana. Ogni capo famiglia si trascina dietro un caprone da sacrificare: anch'io ho dovuto acquistare un bel caprone rosso che mi segue di malavoglia e che é trascinato in cima da quattro energumeni. La capra rituale sarà sacrificata solo quando il suo corpo sarà scosso da brividi. Il sacro tremore é segno che la divinità prende possesso della sua vittima e ben gradisce l'offerta. Il tremore della capra può contagiare i dehar e i giovani più sensitivi che cadono in trance manifestando così la loro vocazione sciamanica. Ma dopo una trentina di sgozzamenti, nessuno si muove o si contorce. Peccato. Quest'anno non ci sarà un nuovo sciamano!
Cosa leggere "Gli ultimi pagani" di Fosco Maraini - Edizioni RED pag. 230 Lire 49.000
I Kafiri discendono da antiche popolazioni indoariane che hanno trovato rifugio tremila anni fa nelle impervie valli dell'Hindukush. Gli scribi al seguito delle armate di Alessandro il Grande in marcia verso l'India ricordano l'incontro con montanari dalla pelle chiara e dagli occhi azzurri che vivevano nelle valli del Kunar. Alla morte di Alessandro la cultura greca ha influenzato l'arte del Gandara (la valle di Swat é a un centinaio di chilometri da Chitral) e si può immaginare che si sia diffusa anche nella valli kafire. I mille kalash che oggi vivono in Pakistan sono la "minoranza" di una popolosa tribù di "barbari indomabili" che avevano resistito alle armate di Akbar e Jahngir all'inizio del 15° secolo e poi alla guerra santa scatenata contro i "balalik" - i montanari selvaggi - dall'emiro di Kabul Abdur Rachman nel 1895. Erano tempi in cui trionfava il nazionalismo afgano contro l'arrogante strapotere coloniale inglese. La pulizia etnica si fermò per fortuna alla "linea Durand": un confine voluto dagli inglesi per contenere le armate dell'Afganistan e i progetti coloniali della Russia zarista. Il Kafiristan é diviso in due parti. I Kati - i Kafiri rossi - rimasti in Afganistan sono decimati. I giovani deportati a Kabul vengono costretti a convertirsi all'Islam. Il Kafiristan occupato fu ribattezzato "Nuristan": paese della Luce. Chi riuscì a fuggire fu accolto tra i Kalash - i Kafiri "neri" - che vissero in santa pace nel Regno del Chitral. Nel 1959 il Pakistan si annette il regno del Chitral e i Kafiri ridiventano i "pagani e infedeli" dell'Hindukush. Questa volta si preferisce l'arma dell'acculturazione. La lingua indigena - il kalashwar - é bandita nelle scuole islamiche. E le valli vengono riempite di coloni fanatici. Il primo occidentale che incontra i Kafiri é il medico e agente inglese George Robertson che li visitò dal 1878 al 1891. Nel suo libro: " I Kafiri dell'Hindukush" ci racconta le avventure spericolate " in uno dei territori montani più inaccessibili e intricati del mondo, inospitale e pieno di pericoli e di un gran numero di nascondigli per banditi e assassini". Poi è la volta di studiosi ed antropologi: tra questi i danesi Georg Morgenstierne, che studia la lingua kafira, e Halfdan Siiger attratto, invece, dallo sciamanesimo. Al fascino del Kafiristan non sfugge Fosco Maraini, antropologo e scrittore, che li visita nel 1959 dopo la vittoriosa spedizione del CAI al picco Saraghar (7349 metri d'altezza) e che racconta il suo memorabile viaggio nelle pagine del libro Paropamiso: " Se il mondo non fosse tutto così maledettamente ben conosciuto e delineato sulle carte, se fosse possibile ancora, al di fuori delle terre ghiacciate o assolutamente inospitali, pronunciare la parola “scoprire”, avremmo davvero pensato di mettere piede nelle terre favoleggiate di qualche stirpe leggendaria".