recensione:
Gore Vidal, Giuliano, Fazi Editore,
Luca Scarlini
Quel tour anni ’60 nella favola pagana
di Luca Scarlini
da Alias, 27/09/2003
Per lo scrittore kennediano Età dell’oro è quasi sempre formula squisitamente polemica: ed Età dell’oro fu quella vagheggiata dall’Apostata, che qui Vidal resuscitava in tutta la sua tragedia di uomo contro il tempo.
Pubblicato originariamente nel 1964, Giuliano rimane uno dei libri di Gore Vidal più amati e letti in tutto il mondo e ora Fazi ("Le Strade", pp. 580, 18,50 euro) ne manda in libreria una nuova puntuale versione, a cura di Chiara Vatteroni, che sostituisce la precedente tradotta da Ida Omboni (edita da Rizzoli, 1696 e poi da Bompiani, 1990). Se è possibile trovare un genere di preferenza per l’opera del vulcanico scrittore americano, il romanzo storico rimane senz’altro il suo territorio per antonomasia, con due percorsi connessi come le facce della stessa medaglia. In primo luogo, infatti, nel basilare ciclo sull’Impero americano gli eroi si ritrovano adornati di ombre spesso decisamente funeste e mi basti citare, ne L’età dell’oro, la raffigurazione di un Franklin Delano Roosvelt non più senza macchia e senza paura, ma coinvolto in modo pesante nei fatti di Pearl Harbor. Per contrasto i villains professionali, fustigati dalla Storia ufficiale, hanno spesso nelle sue pagine una nuova chance, e valga in questo senso il memorabile Burr del 1973, da molti anni introvabile, in cui firma un grande ritratto decisamente controcorrente del "traditore" della saga a stelle e strisce: Aaron Burr, prima paladino della rivoluzione americana, poi "assassino" in duello del rivale alla presidenza Alexander Hamilton, infine accusato di voler diventare imperatore del Messico e poi assolto dopo un furibondo processo per alto tradimento. Il tutto sempre condito da lunghe ricerche d’archivio e da furibonde polemiche con gli storici ufficiali (è decisamente incantevole la parodia riservata ne L’età dell’oro al biografo di Jefferson, Dumas Malone, che andò in fibrillazione leggendo le pepate rivelazioni vidaliane sulla vita privata del presidente "immacolato").
Eppure con Giuliano il quadro muta sensibilmente, perché in tutte quelle storie in un certo senso lo scrittore esibisce le sue credenziali di protagonista della vita pubblica statunitense, imparentato con o amico di numerosi v.i.p. (non si condivide impunemente un patrigno con Jaqueline Onassis), e L’età dell’oro - che presenta brevemente lui stesso come personaggio (è un Vidal agli esordi, che scrive romanzi di guerra e che compare nella galleria di Peggy Guggenheim qualche tempo prima che scoppi lo scandalo di The City and the Pillar) – conclude un cerchio fatto di familiarità, se non ovviamente con i protagonisti delle trame, quanto meno con un ambiente e con una mentalità diffusi, di cui è cronista precisissimo. Non è certo Giuliano d’altra parte l’unico romanzo in cui lo scrittore ha affrontato l’antichità, basti citare il complesso (e per molti aspetti notevole) Creazione, che narrava una lunga esistenza a contatto con Socrate, Zoroastro, Buddha e Confucio, descrivendo allo stesso modo quattro civiltà e il loro sviluppo, così come Alla ricerca del re, in cui Vidal tornava ad antiche aure britanniche, cantando di Riccardo Cuor di Leone e di Blondel.
Qualche studioso ha voluto vedere nel Julian un carattere di "biografia come autobiografia", laddove a scrivere era il Vidal candidato a governatore (per chi non l’ha visto in questa veste, consigliamo il memorabile scontro televisivo contro l’ultraconservatore Buckley, reperibile in Internet), che trovava degli echi presenti nella storia cupa e luttuosa dell’ultimo imperatore pagano (aveva abiurato al cristianesimo "di Stato" di Costantino il Grande): in piena era kennedyana, solo apparentemente era di generale cambiamento, questa consonanza tra imperi resta da dimostrare, e ha valore più che altro come indicazione di una temperatura storica. Comunque lo si voglia interpretare, l’Apostata rimane un personaggio tragico che sta nella nostra tradizione sostanzialmente come figura bifronte, da un lato demonizzato dalla Chiesa che lo pone tra i “mostri” per eccellenza, come ben spiega il cinquecentesco quadro di Donato Piperno conservato al Museo Civico di Benevento, in cui egli viene raffigurato secondo le connotazioni iconografiche di un drago ucciso dal San Giorgio di turno; e dall’altro invece esaltato romanticamente come simbolo perfetto di inattualità, di netto rifiuto dell’irregimentazione, costi quel che costi. Il catalogo di opere che gli sono dedicate è per certi aspetti sbalorditivo: citando solo alcuni esempi tra Otto e Novecento, Ibsen dedicò al tema un dramma storico, Cesare e Galileo (1873), il simbolista russo Dmitrij Merezkvoskij spopolò con il magniloquente La morte degli Dei (1896), parte di un’ambiziosissima trilogia intitolata Cristo e Anticristo, non più frequentata oggi, ma che ebbe una certa fortuna anche in Italia. Più di recente, negli anni Cinquanta, un filosofo del calibro di Alexander Kojève definì l’imperatore un "Voltaire di prima classe" per la straordinaria modernità del suo pensiero politico e teologico. Eppure, malgrado tutti i tentativi di riabilitazione, la damnatio memoriae permane tutt’oggi, come hanno dimostrato le polemiche sorte intorno alla puntuale edizione di Sugli dei e il mondo di Salustio, collaboratore strettissimo dell’imperatore, curata da Riccardo di Giuseppe per Adelphi. Gore Vidal costruisce la storia di Giuliano attraverso le lettere di due suoi amici, intellettuali ormai anziani, Libanio e Prisco, che vogliono ristabilire la verità sul monarca calunniato, senza credere però ai loro affetti, e spiegare le motivazioni delle sue azioni, dall’impedimento ai cristiani di tenere scuola alla repressione violenta. Per far questo lo scrittore di Washington attinge a molte fonti (a partire da quella più celebre, Ammiano Marcellino, ma tenendone ben presenti altre, tra cui Gregorio Nazianzeno e appunto Libanio, oltrechè gli scritti stessi dell’imperatore), tessendo una finissima rete di dialoghi e discussioni; ma quello che più colpisce è proprio il ritratto di Giuliano, straordinaria occasione narrativa, come Eliogabalo, che sedusse Artaud e Arbasino, o come Caligola, di cui Vidal scrisse per l’infelice film omonimo di Tinto Brass. Giuliano è quindi in primo luogo una crux di ossimori, che si pone proprio contro il proprio tempo perché è troppo lucido, perché è affetto da una fatale presbiopia, per cui la sua visione diviene chiara solo quando è applicata alle favole pagane del passato. In lui è allo stesso tempo la curiosità di vedere e capire altre culture, come l’attaccamento superstizioso (e rappresentato talvolta con tratti decisamente infantili) ai riti e miti trascorsi, in una proliferazione di pellegrinaggi, talvolta commoventi, ai luoghi capitali del paganesimo, in un ultimo, straziato, Grand Tour nella Classicità prima che tutto cambi, alla ricerca di un’Età dell’Oro (termine che per Vidal è quasi sempre squisitamente polemico) che non è più concepibile se non come sogno: giustamente Henry de Montherlant, poeta della sconfitta nelle sue cupe variazioni sulla Guerra Civile, escogitò per il libro la bella definizione di aubade, canto nostalgico, certo, ma anche pungente, per a fine di un mondo. Vidal ci racconta quindi, da maestro del moderno romanzo storico, un’epoca di transizione e di cambiamento senza esclusione di colpi, dando voce alle diverse anime di esso e narrando, per parafrasare Salustio "la vita di quanti scelsero di vivere secondo virtù e ne furono capaci".
Gore Vidal, Giuliano, Fazi Editore,
Luca Scarlini
Quel tour anni ’60 nella favola pagana
di Luca Scarlini
da Alias, 27/09/2003
Per lo scrittore kennediano Età dell’oro è quasi sempre formula squisitamente polemica: ed Età dell’oro fu quella vagheggiata dall’Apostata, che qui Vidal resuscitava in tutta la sua tragedia di uomo contro il tempo.
Pubblicato originariamente nel 1964, Giuliano rimane uno dei libri di Gore Vidal più amati e letti in tutto il mondo e ora Fazi ("Le Strade", pp. 580, 18,50 euro) ne manda in libreria una nuova puntuale versione, a cura di Chiara Vatteroni, che sostituisce la precedente tradotta da Ida Omboni (edita da Rizzoli, 1696 e poi da Bompiani, 1990). Se è possibile trovare un genere di preferenza per l’opera del vulcanico scrittore americano, il romanzo storico rimane senz’altro il suo territorio per antonomasia, con due percorsi connessi come le facce della stessa medaglia. In primo luogo, infatti, nel basilare ciclo sull’Impero americano gli eroi si ritrovano adornati di ombre spesso decisamente funeste e mi basti citare, ne L’età dell’oro, la raffigurazione di un Franklin Delano Roosvelt non più senza macchia e senza paura, ma coinvolto in modo pesante nei fatti di Pearl Harbor. Per contrasto i villains professionali, fustigati dalla Storia ufficiale, hanno spesso nelle sue pagine una nuova chance, e valga in questo senso il memorabile Burr del 1973, da molti anni introvabile, in cui firma un grande ritratto decisamente controcorrente del "traditore" della saga a stelle e strisce: Aaron Burr, prima paladino della rivoluzione americana, poi "assassino" in duello del rivale alla presidenza Alexander Hamilton, infine accusato di voler diventare imperatore del Messico e poi assolto dopo un furibondo processo per alto tradimento. Il tutto sempre condito da lunghe ricerche d’archivio e da furibonde polemiche con gli storici ufficiali (è decisamente incantevole la parodia riservata ne L’età dell’oro al biografo di Jefferson, Dumas Malone, che andò in fibrillazione leggendo le pepate rivelazioni vidaliane sulla vita privata del presidente "immacolato").
Eppure con Giuliano il quadro muta sensibilmente, perché in tutte quelle storie in un certo senso lo scrittore esibisce le sue credenziali di protagonista della vita pubblica statunitense, imparentato con o amico di numerosi v.i.p. (non si condivide impunemente un patrigno con Jaqueline Onassis), e L’età dell’oro - che presenta brevemente lui stesso come personaggio (è un Vidal agli esordi, che scrive romanzi di guerra e che compare nella galleria di Peggy Guggenheim qualche tempo prima che scoppi lo scandalo di The City and the Pillar) – conclude un cerchio fatto di familiarità, se non ovviamente con i protagonisti delle trame, quanto meno con un ambiente e con una mentalità diffusi, di cui è cronista precisissimo. Non è certo Giuliano d’altra parte l’unico romanzo in cui lo scrittore ha affrontato l’antichità, basti citare il complesso (e per molti aspetti notevole) Creazione, che narrava una lunga esistenza a contatto con Socrate, Zoroastro, Buddha e Confucio, descrivendo allo stesso modo quattro civiltà e il loro sviluppo, così come Alla ricerca del re, in cui Vidal tornava ad antiche aure britanniche, cantando di Riccardo Cuor di Leone e di Blondel.
Qualche studioso ha voluto vedere nel Julian un carattere di "biografia come autobiografia", laddove a scrivere era il Vidal candidato a governatore (per chi non l’ha visto in questa veste, consigliamo il memorabile scontro televisivo contro l’ultraconservatore Buckley, reperibile in Internet), che trovava degli echi presenti nella storia cupa e luttuosa dell’ultimo imperatore pagano (aveva abiurato al cristianesimo "di Stato" di Costantino il Grande): in piena era kennedyana, solo apparentemente era di generale cambiamento, questa consonanza tra imperi resta da dimostrare, e ha valore più che altro come indicazione di una temperatura storica. Comunque lo si voglia interpretare, l’Apostata rimane un personaggio tragico che sta nella nostra tradizione sostanzialmente come figura bifronte, da un lato demonizzato dalla Chiesa che lo pone tra i “mostri” per eccellenza, come ben spiega il cinquecentesco quadro di Donato Piperno conservato al Museo Civico di Benevento, in cui egli viene raffigurato secondo le connotazioni iconografiche di un drago ucciso dal San Giorgio di turno; e dall’altro invece esaltato romanticamente come simbolo perfetto di inattualità, di netto rifiuto dell’irregimentazione, costi quel che costi. Il catalogo di opere che gli sono dedicate è per certi aspetti sbalorditivo: citando solo alcuni esempi tra Otto e Novecento, Ibsen dedicò al tema un dramma storico, Cesare e Galileo (1873), il simbolista russo Dmitrij Merezkvoskij spopolò con il magniloquente La morte degli Dei (1896), parte di un’ambiziosissima trilogia intitolata Cristo e Anticristo, non più frequentata oggi, ma che ebbe una certa fortuna anche in Italia. Più di recente, negli anni Cinquanta, un filosofo del calibro di Alexander Kojève definì l’imperatore un "Voltaire di prima classe" per la straordinaria modernità del suo pensiero politico e teologico. Eppure, malgrado tutti i tentativi di riabilitazione, la damnatio memoriae permane tutt’oggi, come hanno dimostrato le polemiche sorte intorno alla puntuale edizione di Sugli dei e il mondo di Salustio, collaboratore strettissimo dell’imperatore, curata da Riccardo di Giuseppe per Adelphi. Gore Vidal costruisce la storia di Giuliano attraverso le lettere di due suoi amici, intellettuali ormai anziani, Libanio e Prisco, che vogliono ristabilire la verità sul monarca calunniato, senza credere però ai loro affetti, e spiegare le motivazioni delle sue azioni, dall’impedimento ai cristiani di tenere scuola alla repressione violenta. Per far questo lo scrittore di Washington attinge a molte fonti (a partire da quella più celebre, Ammiano Marcellino, ma tenendone ben presenti altre, tra cui Gregorio Nazianzeno e appunto Libanio, oltrechè gli scritti stessi dell’imperatore), tessendo una finissima rete di dialoghi e discussioni; ma quello che più colpisce è proprio il ritratto di Giuliano, straordinaria occasione narrativa, come Eliogabalo, che sedusse Artaud e Arbasino, o come Caligola, di cui Vidal scrisse per l’infelice film omonimo di Tinto Brass. Giuliano è quindi in primo luogo una crux di ossimori, che si pone proprio contro il proprio tempo perché è troppo lucido, perché è affetto da una fatale presbiopia, per cui la sua visione diviene chiara solo quando è applicata alle favole pagane del passato. In lui è allo stesso tempo la curiosità di vedere e capire altre culture, come l’attaccamento superstizioso (e rappresentato talvolta con tratti decisamente infantili) ai riti e miti trascorsi, in una proliferazione di pellegrinaggi, talvolta commoventi, ai luoghi capitali del paganesimo, in un ultimo, straziato, Grand Tour nella Classicità prima che tutto cambi, alla ricerca di un’Età dell’Oro (termine che per Vidal è quasi sempre squisitamente polemico) che non è più concepibile se non come sogno: giustamente Henry de Montherlant, poeta della sconfitta nelle sue cupe variazioni sulla Guerra Civile, escogitò per il libro la bella definizione di aubade, canto nostalgico, certo, ma anche pungente, per a fine di un mondo. Vidal ci racconta quindi, da maestro del moderno romanzo storico, un’epoca di transizione e di cambiamento senza esclusione di colpi, dando voce alle diverse anime di esso e narrando, per parafrasare Salustio "la vita di quanti scelsero di vivere secondo virtù e ne furono capaci".