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ARTEMIS EFESIA
Albino Galvano
Adelphi, Milano 1967
Se il rapporto tra feticcio e figura è il cammino naturale della religiosità greca, il cammino per il quale essa poté generare una " mitologia " e farne una categoria della coscienza riflessa, mediata tra religiosità e filosofia, non bisogna però invertire il significato del processo. E' il culto che genera la mitologia, il rito che genera il mito, anche se non sempre le cose si saranno svolte col semplicismo in cui gli studi di psicologia e di storia comparata delle religioni le stilizzano. Questo può esser considerato come acquisito dalla coscienza odierna delle origini della fenomenologia religiosa. Si è discusso molto sul rapporto tra religiosità e mitologia, ma forse occorrerebbe prima di tutto chiarire che la mitologia è una cosa "specificamente" greca e che soltanto con molta cautela si può estender l'uso di questa parola a tradizioni diverse da quella classica. Del resto il fatto stesso che una religione, come quella dei Romani, che certamente aveva scaturigini anche etniche comuni con quella greca, non abbia dato luogo a una vera e propria mitologia se non dopo la tarda assimilazione ad essa, può chiarire molte cose. Al limite potremmo affermare che proprio questo gusto romano delle assimilazioni teologiche è stato il " luogo " in cui è nato il concetto di mitologia quale l'Occidente moderno, dal Rinascimento in poi, si è trovato davanti come un problema. Altre soluzioni sarebbero state possibili. Per esempio l'esclusione come demonicità di divinità di popoli differenti e combattuti, qual è per l'Ebraismo e il Cristianesimo. Ma greco e romano si realizzano diversamente. Possono combattere sino allo sterminio contro Persiani o Germani, ma non pensano a negarne gli dèi o a sopraffarli, anzi cercano subito, e non solo a livello politico ma di coscienza religiosa individuale, quali essenze divine, che presso di loro hanno un nome, si celino sotto quelle denominazioni impreviste. In questo senso il mondo classico professa una religione molto più "cattolica ", a suo modo, di quanto lo sarà poi quella della Chiesa che si intitolerà così. Se Wotan non può essere Zeus "deve" essere Ermes, se, molto prima, la dea di Efeso non può essere Hera o Aphrodite "deve" essere Artemis. La negazione di un'essenza divina è "ateismo". Si comprende che ne fossero accusati i cristiani.
Perché a partire dalle coste greche dell'Asia sino al Giappone buddhista la ricchezza degli ornamenti è stata, a differenza di quanto è avvenuto in Egitto, in Grecia, a Roma, un attributo necessario della sacralità, riportato più tardi su chi mondanamente è investito di un attributo sacro, il sovrano? La domanda può apparire oziosa, sopportare una risposta banale quanto scontata: oro e gemme erano scarse sul continente europeo e su quello africano, abbondanti in Asia. Signori e sovrani ne fecero sfoggio a segno di prestigio, ricchezza e potenza, e concepito il dio sul modello umano come "Signore" (Adone, Adonai), la suprema potenza, l'efflusso grazioso o terrificante del divino furono appunto simboleggiati dalle gemme. Probabilmente, sul piano dei fatti, spiegazioni di questo genere contengono una descrizione abbastanza esatta di ciò che è avvenuto, ma non ne chiariscono il significato, la ragione per cui quei fatti poterono avvenire investendo esigenze profonde, irriflesse, che li fecero accettare con profonda persuasione. Il carattere di luce dall'interno che emana dalla gemma e che la rende affascinante è sempre stato sentito come una manifestazione del sacro. La terra pura sulle cime dei monti di cui parla Platone nel mito del Fedone ha per sassi e ciottoli gemme, di cui quelle che vediamo quaggiù non sono che frammenti dispersi. L'aggettivo "aureo" ha grande impiego in Omero con riferimento alla divinità. Gemme e fiori paiono vivere in un raccoglimento su se medesimi che è carattere sacro: soltanto in Occidente esso decadrà, nell'onestà kantiana prima delle grandi confusioni, a "pulchritudo vaga" di natura o d'arte. La bellezza in sé raccolta, senza articolazioni che non siano simmetriche rispondenze interne, questo bello specifico, è stato sentito come realizzante il sacro. Ma, associato alla figura umana, esso doveva realizzare le dynameis di una persona divina, i suoi mezzi d'azione nei riguardi degli uomini. Così anche i gioielli entravano nel gioco delle reiterazioni, nella tecnica del mandala. Ma l'Efesia non offre gioielli, ma protomi zoomorfe, il gioco delle iterazioni accenna qui a un divino "selvaggio"animale, che senza dubbio è quanto ha potuto senza esitazione far nominare Artemis, di fronte a quella divinità, ai coloni greci. Anche questo muovere di determinazioni dall'unità unificante della figura divina sta nello spazio che divide l'uomo dal dio, anzi costituisce colle sue articolazioni questo spazio, ne misura l'incommensurabilità cifrandola col ripetuto e il gremito (confronta l'espressione cinese "le diecimila cose" per indicare il tutto). E se, al caso, gioielli induistici e buddhistici, maioliche islamiche, vetrate cristiane, tutto ciò che, sul corpo degli dèi nelle religioni iconiche e sul tempio degli dèi in quelle totalmente o parzialmente aniconiche, deve sembrar splendere di luce propria, "dall'interno", non sarà forse accidentale che i colori che appaiono nei sogni abbiano appunto questa qualità di luce interna, unita a quell'emotività intensamente nostalgica o angosciosa che soltanto della vita di sogno è propria. In realtà ogni tecnica religiosa tende in qualche modo a riprodurre la situazione di sogno, cioè di contatto colla zona profonda, archetipica, anche se in modo cosciente e pianificato. Il merito dei moderni studi di psicologia è proprio nell'aver riconosciuto il carattere di effettivo "contatto" che l'immagine onirica ha con qualche cosa che sta sotto o sopra (qui il problema si collega a quello delle religioni naturalistiche o spirituali) la coscienza individuale, qualcosa verso cui si ha un'aspirazione prospettica (Jung) o una nostalgia regressiva (Freud), che è, in termini propri, cielo o inferno, ma che è qualche cosa in cui si dispiega lo spazio tra l'uomo e l'essere, altrimenti che nella fuga dall'essere presso la deiezione nel mondo. Così le vetrate della Sainte Chapelle, o di Chartres, o di Siena, sono "oniriche" nel senso forte della parola (molto più dei giochi surrealistici di oggi che dell'Inconscio frugano soltanto le latrine), come onirico è l'apparire delle protomi animali sul paramento dell'Efesia. Si tratta solo di non ridurre la dimensione del sacro alla "psicologia" del sogno, ma di scorgere nell'atteggiamento del sogno - che non per nulla è sottratto alla volontà - la traccia, il più delle volte, presso una vita profana, grottesca, di quell'aspirazione simbolica che trova il suo luogo nella coscienza di permaner nella vicinanza e insieme irrimediabilmente staccati dall'Essere. L'Efesia è una dea " pagana ": questa prossimità è quella della natura ferma, come totalità che all'uomo si offre quale fondamento che lo precede nella scoperta di esser egli gettato in un mondo di selve e di fiere che è anche un mondo di vita e di morte. Morte per sé, morte per gli animali se garanzia per sé di vita, questa dialettica di protezione e di abbandono, questo configurarsi del destino come il colpo di freccia che abbatterà l'animale a garantir al cacciatore la vita o come l'invisibile dardo che colpirà il cacciatore e ne farà un " cacciato " nella morte improvvisa è, per la coscienza religiosa pagana, cioè per una coscienza religiosa che sente lo spazio del sacro come l'enigmatica zona della sorte ove non ha senso ma è soltanto hybris l'invocare giustizia o pietà, è, dicevamo, Artemis.
Se ora si ponesse l'interrogazione: perché una divinità femminile? una risposta "esteriore" sarebbe quanto mai facile e ancora soccorrerebbe la psicanalisi, magari nella sua forma originaria ma più piattamente clinica: è stata la madre che al suo seno (l'Efesia ha molti seni, anche se si tratta di altro, la coscienza di millenni in Occidente ha rivissuta quell'immagine nella suggestione della polimastia, perché l'avido ricordo moltiplica la gioia del neonato alla mammella; l'Efesia ha tanti seni quanti ne sogna un bimbo per cui la madre è tutta nel seno che lo allatta) ha dato la vita; la cui occultazione o il cui sdegno significava minaccia - ogni minaccia è minaccia di morte - è stata la madre che ci ha dato, cullandoci, una morte dolce da cui ci si ridesta (e appunto gli antichi hanno assimilato la morte cui dolcemente ci si abbandona nella promessa del risveglio e la morte che angoscia perché non ha risveglio, "il sonno è fratello della morte"), dunque la madre è la vita, ma è anche la morte. E anche qui si chiarisce perché una dea madre come questa sia una dea "casta", sia Artemis, non Kybele o Aphrodite. Per la coscienza infantile si è figli della madre, cosciente ostilità di rivale o ignoranza di orizzonte non ancora inclusivo di altre complessità escludono o occultano il padre e il momento della mistione. Siamo a uno strato prebisessuale che nella ripetizione idolatrica si cifra come presenza cui il nome d'Artemis conviene. Naturalmente per lo psicologo sarebbe forse interessante l'accostamento dei modi dell'iterazione delle rappresentazioni animali a certe esperienze individuali, ma la cosa riguarda solo marginalmente questo discorso.
Quando Heidegger ci parla della lingua come casa dell'essere ha, presso il complesso verbale "dicere-dictare-Dichtung", l'attenzione alla lingua parlata (altro, anche se connesso, per lui il problema dell'arte figurativa; ma il fatto che esemplifichi con un noto quadro di Van Gogh ci porta in una dimensione che non è quella delle "icone" di cui stiamo parlando) ma "casa" dell'essere, "riparo" di cui poeti e pensatori sono guardiani è anche l'immagine significante, l'idolo colle proprie caratterizzazioni. E se di idolo femminile si tratta presso un'esperienza che si apparenta e si distingue insieme da quella sofianica del Mazdeismo, del Cristianesimo gnostico e dell'Islamismo e Ebraismo cui l'abbiamo sperimentalmente avvicinata, la casa, il "riparo" dell'essere sarà anche la sua originarietà materna, cifra a sua volta della possibilità infinita (cifrata per i guenoniani nelle madonne nere e cifrabile perciò per la coscienza dei moderni dal Romanticismo in poi, e forse anche per qualche antico scultore o per gli assimilatori di Artemis a Isis, in luna nuova e luna piena) come orizzonte su cui si staglia la prima manifestazione "finita" (compiuta, perfetta) dell'essere mascolino e solare. Nello spazio rifluente su se stesso che è, per la religiosità greca, il rapporto tra l'uomo e dio, questa Sophia è soltanto "naturale", selvaggia, potnia theron; nello spazio religioso ebraico cristiano islamico, e forse prima iranico, orientato escatologicamente, la coscienza della naturalità di Sophia doveva portare a quello sdoppiamento di cui parlano gli gnostici (la prima Sophia eonica, la seconda Sophia che cade abortivamente fuori dal Pleroma nel mondo della natura) o, ulteriormente, conoscere solo una Sophia spirituale, ma perciò anche individua, santificata e non divina: Maria "figlia del suo figlio" o Fàtima "madre di suo padre". Perciò alla coscienza moderna essa appare, Artemis, come problematica, come prima Sophia, idolatrica, pagana, blasfema, nera non di sovraessenzialità ineffabile ma di crudele minaccia (Artemis-gorgona, Artemis-impiccata); come seconda Sophia, natura nutrice ignara del dio "altro" che la sovrasta, la condanna e la può riscattare, ma, per ciò appunto, anche ingenua immagine della positività divina, in ciò che nella natura traspare. L'ambivalenza non si può risolvere esteriormente ma solo nello spazio interrogante essa ha un senso.
Nascono così molte logiche ambivalenze. Presso un esoterismo "cristiano", anche se legato all'ermetismo rosacruciano quale è quello di Meyrink, per esempio, Artemis-Isis è una divinità "nera" proprio come epifania umana della luna calante (ma anche presso la fondatrice della Società Teosofica, H. P. Blavatzky, l'"ottava sfera", cioè la luna, era una specie d'inferno). La Blavatzky e Meyrink o i loro autori derivano probabilmente da Plutarco e dal racconto della morte delle anime sulla luna (senza che ci riguardi il problema se queste esperienze siano effettivamente vissute secondo costanti e se queste costanti abbiano valore soggettivo o oggettivo, o si tratti di più o meno ingannevoli o ingannatrici ricostruzioni "culturali"). Il sacrificio di Patrai getta una luce inquietante sulla possibilità che questa esperienza, nera naturalistica-mente, di Artemis, fosse una realtà anche per i Greci dell'età storica, come del resto di tante altre divinità addirittura legate a sacrifici umani, che, forse, non mancarono all'origine neppure per la nostra dea. E' perciò l'altra faccia, quella " bianca ", luna piena, essere manifestato, diritto d'asilo, custodia di beni, dell'Artemis efesia che consente l'assimilazione così incautamente insistita nei termini meno concreti all'esperienza sofianica cristiana o addirittura a Maria. Forse sentiva ancora meglio le autentiche cadenze di questi rapporti l'uomo del Medioevo. Per Dante Proserpina è " la donna che qui regge ", ma e anche a Proserpina che viene paragonata la enigmatica Matelda nel luogo dell'innocenza originaria. E' questa anche per noi l'ambivalenza della nostra dea nel bianco e nero diventata "lunare". Volto infernale, è anche un'Artemis Gorgo, ma insieme volto di una innocente, altrice, natura, che, se appare nello xoanon "nera", può consentire l'interpretazione dell'immanifesto ineffabile, il volto dell'assoluto nel suo rinvio d'orizzonte passivo, femminino e silenzioso (per Valentino, la paredra dell'Abisso iniziale è, nella prima sizygia, Sighè: la Silenziosità) ma infinitamente originario e materno. E nostro compito e nostro rischio il tener fermo e insieme discriminare questo spazio contraddittorio in cui misuriamo il rapporto con l'Altro e la sua alterità assoluta. Così ciò che nell'unità della concezione greca della vita si presentava come privo di contraddizioni è per noi irrimediabilmente scisso. Questo è stato pensato con chiarezza dai romantici, e i tentativi di eliminare la coscienza di quella scissura possono forse fornire delle premesse o degli elementi per il suo superamento, ma non rappresentano il superamento stesso. Quale sia il destino storico che ci si prepara a partire da questa coscienza o quale sia l'intervento metastorico che l'annulli, non possiamo sapere se non come il vivere un interrogativo angosciato. Anche il tentativo, che possiamo genericamente chiamare "decadentistico", di reimmergerci nella corrente della vita noi non possiamo viverlo se non come atto spirituale, irrimediabilmente, senza poter sperare di sapere se esso rappresenti, in questo chiudersi del cerchio, perdizione o riscatto. Né, scartata come soluzione illusoria l'ontologizzazione dello strumento " ragione " sostituendolo alla vita o allo spirito, anche se la chiacchiera della "cultura" vuol persuaderci di questo, possiamo trovare, se non come scommessa, come si vide da uno spirito cristiano agli inizi dell'età moderna, il rischio di sublimar la vita nel vuoto dello spirito o di tradire lo spirito per la vita dimidiata a concupiscentia, o di cercar una problematica via di conciliazione tra l'uno e l'altra. Resta la responsabilità del cercare, dell'interrogarci, in attesa di un segno individuale o comunitario prima del quale neppur ci è dato sapere se, quando, secondo il detto della porta ermetica venit sine veste Diana, sarà riscattata dalla dealbatio, se la faccia bianca e quella nera della luna (Artemis è anche la luna) porgono l'armonica vicenda di una coincidenza d'opposti, di una via (Tao) al cui ritmo possa l'uomo adeguarsi per trovare il compimento, o un'alternativa di divino e di demoniaco tra cui l'uomo debba scegliere. Senza sapere se suoni, nel ricordo del biblico Nigra sum, sed formosa, delle madonne " nere " che pur dovrebbero essere la stessa bianca o un 'ambivalenza di Yang e di Yin, di Dūrga e Kālī, preghiera o bestemmia l'ambigua invocazione con cui pur ci conviene chiudere queste pagine:
ARTEMIS EFESIA
Albino Galvano
Adelphi, Milano 1967
Se il rapporto tra feticcio e figura è il cammino naturale della religiosità greca, il cammino per il quale essa poté generare una " mitologia " e farne una categoria della coscienza riflessa, mediata tra religiosità e filosofia, non bisogna però invertire il significato del processo. E' il culto che genera la mitologia, il rito che genera il mito, anche se non sempre le cose si saranno svolte col semplicismo in cui gli studi di psicologia e di storia comparata delle religioni le stilizzano. Questo può esser considerato come acquisito dalla coscienza odierna delle origini della fenomenologia religiosa. Si è discusso molto sul rapporto tra religiosità e mitologia, ma forse occorrerebbe prima di tutto chiarire che la mitologia è una cosa "specificamente" greca e che soltanto con molta cautela si può estender l'uso di questa parola a tradizioni diverse da quella classica. Del resto il fatto stesso che una religione, come quella dei Romani, che certamente aveva scaturigini anche etniche comuni con quella greca, non abbia dato luogo a una vera e propria mitologia se non dopo la tarda assimilazione ad essa, può chiarire molte cose. Al limite potremmo affermare che proprio questo gusto romano delle assimilazioni teologiche è stato il " luogo " in cui è nato il concetto di mitologia quale l'Occidente moderno, dal Rinascimento in poi, si è trovato davanti come un problema. Altre soluzioni sarebbero state possibili. Per esempio l'esclusione come demonicità di divinità di popoli differenti e combattuti, qual è per l'Ebraismo e il Cristianesimo. Ma greco e romano si realizzano diversamente. Possono combattere sino allo sterminio contro Persiani o Germani, ma non pensano a negarne gli dèi o a sopraffarli, anzi cercano subito, e non solo a livello politico ma di coscienza religiosa individuale, quali essenze divine, che presso di loro hanno un nome, si celino sotto quelle denominazioni impreviste. In questo senso il mondo classico professa una religione molto più "cattolica ", a suo modo, di quanto lo sarà poi quella della Chiesa che si intitolerà così. Se Wotan non può essere Zeus "deve" essere Ermes, se, molto prima, la dea di Efeso non può essere Hera o Aphrodite "deve" essere Artemis. La negazione di un'essenza divina è "ateismo". Si comprende che ne fossero accusati i cristiani.
Perché a partire dalle coste greche dell'Asia sino al Giappone buddhista la ricchezza degli ornamenti è stata, a differenza di quanto è avvenuto in Egitto, in Grecia, a Roma, un attributo necessario della sacralità, riportato più tardi su chi mondanamente è investito di un attributo sacro, il sovrano? La domanda può apparire oziosa, sopportare una risposta banale quanto scontata: oro e gemme erano scarse sul continente europeo e su quello africano, abbondanti in Asia. Signori e sovrani ne fecero sfoggio a segno di prestigio, ricchezza e potenza, e concepito il dio sul modello umano come "Signore" (Adone, Adonai), la suprema potenza, l'efflusso grazioso o terrificante del divino furono appunto simboleggiati dalle gemme. Probabilmente, sul piano dei fatti, spiegazioni di questo genere contengono una descrizione abbastanza esatta di ciò che è avvenuto, ma non ne chiariscono il significato, la ragione per cui quei fatti poterono avvenire investendo esigenze profonde, irriflesse, che li fecero accettare con profonda persuasione. Il carattere di luce dall'interno che emana dalla gemma e che la rende affascinante è sempre stato sentito come una manifestazione del sacro. La terra pura sulle cime dei monti di cui parla Platone nel mito del Fedone ha per sassi e ciottoli gemme, di cui quelle che vediamo quaggiù non sono che frammenti dispersi. L'aggettivo "aureo" ha grande impiego in Omero con riferimento alla divinità. Gemme e fiori paiono vivere in un raccoglimento su se medesimi che è carattere sacro: soltanto in Occidente esso decadrà, nell'onestà kantiana prima delle grandi confusioni, a "pulchritudo vaga" di natura o d'arte. La bellezza in sé raccolta, senza articolazioni che non siano simmetriche rispondenze interne, questo bello specifico, è stato sentito come realizzante il sacro. Ma, associato alla figura umana, esso doveva realizzare le dynameis di una persona divina, i suoi mezzi d'azione nei riguardi degli uomini. Così anche i gioielli entravano nel gioco delle reiterazioni, nella tecnica del mandala. Ma l'Efesia non offre gioielli, ma protomi zoomorfe, il gioco delle iterazioni accenna qui a un divino "selvaggio"animale, che senza dubbio è quanto ha potuto senza esitazione far nominare Artemis, di fronte a quella divinità, ai coloni greci. Anche questo muovere di determinazioni dall'unità unificante della figura divina sta nello spazio che divide l'uomo dal dio, anzi costituisce colle sue articolazioni questo spazio, ne misura l'incommensurabilità cifrandola col ripetuto e il gremito (confronta l'espressione cinese "le diecimila cose" per indicare il tutto). E se, al caso, gioielli induistici e buddhistici, maioliche islamiche, vetrate cristiane, tutto ciò che, sul corpo degli dèi nelle religioni iconiche e sul tempio degli dèi in quelle totalmente o parzialmente aniconiche, deve sembrar splendere di luce propria, "dall'interno", non sarà forse accidentale che i colori che appaiono nei sogni abbiano appunto questa qualità di luce interna, unita a quell'emotività intensamente nostalgica o angosciosa che soltanto della vita di sogno è propria. In realtà ogni tecnica religiosa tende in qualche modo a riprodurre la situazione di sogno, cioè di contatto colla zona profonda, archetipica, anche se in modo cosciente e pianificato. Il merito dei moderni studi di psicologia è proprio nell'aver riconosciuto il carattere di effettivo "contatto" che l'immagine onirica ha con qualche cosa che sta sotto o sopra (qui il problema si collega a quello delle religioni naturalistiche o spirituali) la coscienza individuale, qualcosa verso cui si ha un'aspirazione prospettica (Jung) o una nostalgia regressiva (Freud), che è, in termini propri, cielo o inferno, ma che è qualche cosa in cui si dispiega lo spazio tra l'uomo e l'essere, altrimenti che nella fuga dall'essere presso la deiezione nel mondo. Così le vetrate della Sainte Chapelle, o di Chartres, o di Siena, sono "oniriche" nel senso forte della parola (molto più dei giochi surrealistici di oggi che dell'Inconscio frugano soltanto le latrine), come onirico è l'apparire delle protomi animali sul paramento dell'Efesia. Si tratta solo di non ridurre la dimensione del sacro alla "psicologia" del sogno, ma di scorgere nell'atteggiamento del sogno - che non per nulla è sottratto alla volontà - la traccia, il più delle volte, presso una vita profana, grottesca, di quell'aspirazione simbolica che trova il suo luogo nella coscienza di permaner nella vicinanza e insieme irrimediabilmente staccati dall'Essere. L'Efesia è una dea " pagana ": questa prossimità è quella della natura ferma, come totalità che all'uomo si offre quale fondamento che lo precede nella scoperta di esser egli gettato in un mondo di selve e di fiere che è anche un mondo di vita e di morte. Morte per sé, morte per gli animali se garanzia per sé di vita, questa dialettica di protezione e di abbandono, questo configurarsi del destino come il colpo di freccia che abbatterà l'animale a garantir al cacciatore la vita o come l'invisibile dardo che colpirà il cacciatore e ne farà un " cacciato " nella morte improvvisa è, per la coscienza religiosa pagana, cioè per una coscienza religiosa che sente lo spazio del sacro come l'enigmatica zona della sorte ove non ha senso ma è soltanto hybris l'invocare giustizia o pietà, è, dicevamo, Artemis.
Se ora si ponesse l'interrogazione: perché una divinità femminile? una risposta "esteriore" sarebbe quanto mai facile e ancora soccorrerebbe la psicanalisi, magari nella sua forma originaria ma più piattamente clinica: è stata la madre che al suo seno (l'Efesia ha molti seni, anche se si tratta di altro, la coscienza di millenni in Occidente ha rivissuta quell'immagine nella suggestione della polimastia, perché l'avido ricordo moltiplica la gioia del neonato alla mammella; l'Efesia ha tanti seni quanti ne sogna un bimbo per cui la madre è tutta nel seno che lo allatta) ha dato la vita; la cui occultazione o il cui sdegno significava minaccia - ogni minaccia è minaccia di morte - è stata la madre che ci ha dato, cullandoci, una morte dolce da cui ci si ridesta (e appunto gli antichi hanno assimilato la morte cui dolcemente ci si abbandona nella promessa del risveglio e la morte che angoscia perché non ha risveglio, "il sonno è fratello della morte"), dunque la madre è la vita, ma è anche la morte. E anche qui si chiarisce perché una dea madre come questa sia una dea "casta", sia Artemis, non Kybele o Aphrodite. Per la coscienza infantile si è figli della madre, cosciente ostilità di rivale o ignoranza di orizzonte non ancora inclusivo di altre complessità escludono o occultano il padre e il momento della mistione. Siamo a uno strato prebisessuale che nella ripetizione idolatrica si cifra come presenza cui il nome d'Artemis conviene. Naturalmente per lo psicologo sarebbe forse interessante l'accostamento dei modi dell'iterazione delle rappresentazioni animali a certe esperienze individuali, ma la cosa riguarda solo marginalmente questo discorso.
Quando Heidegger ci parla della lingua come casa dell'essere ha, presso il complesso verbale "dicere-dictare-Dichtung", l'attenzione alla lingua parlata (altro, anche se connesso, per lui il problema dell'arte figurativa; ma il fatto che esemplifichi con un noto quadro di Van Gogh ci porta in una dimensione che non è quella delle "icone" di cui stiamo parlando) ma "casa" dell'essere, "riparo" di cui poeti e pensatori sono guardiani è anche l'immagine significante, l'idolo colle proprie caratterizzazioni. E se di idolo femminile si tratta presso un'esperienza che si apparenta e si distingue insieme da quella sofianica del Mazdeismo, del Cristianesimo gnostico e dell'Islamismo e Ebraismo cui l'abbiamo sperimentalmente avvicinata, la casa, il "riparo" dell'essere sarà anche la sua originarietà materna, cifra a sua volta della possibilità infinita (cifrata per i guenoniani nelle madonne nere e cifrabile perciò per la coscienza dei moderni dal Romanticismo in poi, e forse anche per qualche antico scultore o per gli assimilatori di Artemis a Isis, in luna nuova e luna piena) come orizzonte su cui si staglia la prima manifestazione "finita" (compiuta, perfetta) dell'essere mascolino e solare. Nello spazio rifluente su se stesso che è, per la religiosità greca, il rapporto tra l'uomo e dio, questa Sophia è soltanto "naturale", selvaggia, potnia theron; nello spazio religioso ebraico cristiano islamico, e forse prima iranico, orientato escatologicamente, la coscienza della naturalità di Sophia doveva portare a quello sdoppiamento di cui parlano gli gnostici (la prima Sophia eonica, la seconda Sophia che cade abortivamente fuori dal Pleroma nel mondo della natura) o, ulteriormente, conoscere solo una Sophia spirituale, ma perciò anche individua, santificata e non divina: Maria "figlia del suo figlio" o Fàtima "madre di suo padre". Perciò alla coscienza moderna essa appare, Artemis, come problematica, come prima Sophia, idolatrica, pagana, blasfema, nera non di sovraessenzialità ineffabile ma di crudele minaccia (Artemis-gorgona, Artemis-impiccata); come seconda Sophia, natura nutrice ignara del dio "altro" che la sovrasta, la condanna e la può riscattare, ma, per ciò appunto, anche ingenua immagine della positività divina, in ciò che nella natura traspare. L'ambivalenza non si può risolvere esteriormente ma solo nello spazio interrogante essa ha un senso.
Nascono così molte logiche ambivalenze. Presso un esoterismo "cristiano", anche se legato all'ermetismo rosacruciano quale è quello di Meyrink, per esempio, Artemis-Isis è una divinità "nera" proprio come epifania umana della luna calante (ma anche presso la fondatrice della Società Teosofica, H. P. Blavatzky, l'"ottava sfera", cioè la luna, era una specie d'inferno). La Blavatzky e Meyrink o i loro autori derivano probabilmente da Plutarco e dal racconto della morte delle anime sulla luna (senza che ci riguardi il problema se queste esperienze siano effettivamente vissute secondo costanti e se queste costanti abbiano valore soggettivo o oggettivo, o si tratti di più o meno ingannevoli o ingannatrici ricostruzioni "culturali"). Il sacrificio di Patrai getta una luce inquietante sulla possibilità che questa esperienza, nera naturalistica-mente, di Artemis, fosse una realtà anche per i Greci dell'età storica, come del resto di tante altre divinità addirittura legate a sacrifici umani, che, forse, non mancarono all'origine neppure per la nostra dea. E' perciò l'altra faccia, quella " bianca ", luna piena, essere manifestato, diritto d'asilo, custodia di beni, dell'Artemis efesia che consente l'assimilazione così incautamente insistita nei termini meno concreti all'esperienza sofianica cristiana o addirittura a Maria. Forse sentiva ancora meglio le autentiche cadenze di questi rapporti l'uomo del Medioevo. Per Dante Proserpina è " la donna che qui regge ", ma e anche a Proserpina che viene paragonata la enigmatica Matelda nel luogo dell'innocenza originaria. E' questa anche per noi l'ambivalenza della nostra dea nel bianco e nero diventata "lunare". Volto infernale, è anche un'Artemis Gorgo, ma insieme volto di una innocente, altrice, natura, che, se appare nello xoanon "nera", può consentire l'interpretazione dell'immanifesto ineffabile, il volto dell'assoluto nel suo rinvio d'orizzonte passivo, femminino e silenzioso (per Valentino, la paredra dell'Abisso iniziale è, nella prima sizygia, Sighè: la Silenziosità) ma infinitamente originario e materno. E nostro compito e nostro rischio il tener fermo e insieme discriminare questo spazio contraddittorio in cui misuriamo il rapporto con l'Altro e la sua alterità assoluta. Così ciò che nell'unità della concezione greca della vita si presentava come privo di contraddizioni è per noi irrimediabilmente scisso. Questo è stato pensato con chiarezza dai romantici, e i tentativi di eliminare la coscienza di quella scissura possono forse fornire delle premesse o degli elementi per il suo superamento, ma non rappresentano il superamento stesso. Quale sia il destino storico che ci si prepara a partire da questa coscienza o quale sia l'intervento metastorico che l'annulli, non possiamo sapere se non come il vivere un interrogativo angosciato. Anche il tentativo, che possiamo genericamente chiamare "decadentistico", di reimmergerci nella corrente della vita noi non possiamo viverlo se non come atto spirituale, irrimediabilmente, senza poter sperare di sapere se esso rappresenti, in questo chiudersi del cerchio, perdizione o riscatto. Né, scartata come soluzione illusoria l'ontologizzazione dello strumento " ragione " sostituendolo alla vita o allo spirito, anche se la chiacchiera della "cultura" vuol persuaderci di questo, possiamo trovare, se non come scommessa, come si vide da uno spirito cristiano agli inizi dell'età moderna, il rischio di sublimar la vita nel vuoto dello spirito o di tradire lo spirito per la vita dimidiata a concupiscentia, o di cercar una problematica via di conciliazione tra l'uno e l'altra. Resta la responsabilità del cercare, dell'interrogarci, in attesa di un segno individuale o comunitario prima del quale neppur ci è dato sapere se, quando, secondo il detto della porta ermetica venit sine veste Diana, sarà riscattata dalla dealbatio, se la faccia bianca e quella nera della luna (Artemis è anche la luna) porgono l'armonica vicenda di una coincidenza d'opposti, di una via (Tao) al cui ritmo possa l'uomo adeguarsi per trovare il compimento, o un'alternativa di divino e di demoniaco tra cui l'uomo debba scegliere. Senza sapere se suoni, nel ricordo del biblico Nigra sum, sed formosa, delle madonne " nere " che pur dovrebbero essere la stessa bianca o un 'ambivalenza di Yang e di Yin, di Dūrga e Kālī, preghiera o bestemmia l'ambigua invocazione con cui pur ci conviene chiudere queste pagine:
TURRIS EBURNEA ORA PRO NOBIS