Wednesday, December 26, 2007

Quando gli dei prendono le armi

da "la repubblica" - 6 novembre 2001
Quando gli dei prendono le armi

UMBERTO GALIMBERTI

Quando una guerra viene caricata di sacralità espande senza misura il suo potenziale distruttivo, perché il conflitto finisce col coinvolgere non solo gli «interessi» dei belligeranti, ma la loro «identità», la loro cultura, la loro fede, in una parola quelle figure irrinunciabili che, quando sono messe in gioco, non prevedono altra alternativa se non l'annientamento dell'avversario o la propria morte.
In questi casi l'umanità retrocede dall'uso della ragione (che può fare il suo lavoro, diplomatico o anche militare, finché il conflitto resta circoscritto al contrasto degli interessi) allo scatenamento dei simboli, di fronte ai quali la ragione è impotente, perché il suo operare prende avvio solo dopo che si è usciti dall'area del sacro, e si è stati in grado di mettere tra parentesi la differenza delle rispettive visioni del mondo o, se si preferisce, dei rispettivi sfondi simbolici, in cui si radicano tutte quelle dimensioni prerazionali che costituiscono lo zoccolo duro dell'identità di un individuo, di un popolo, di una cultura, di una razza, di una fede.

Da sempre e ovunque gli uomini hanno trascinato nei loro conflitti Dio e gli dèi perché, identificandosi con le potenze ritenute superiori, gli uomini avevano l'impressione di aumentare la loro potenza e di legittimare la loro violenza. Combattere infatti per un interesse terreno che divide non scatena mai tanta forza e tanta violenza quanta ne sprigiona la lotta per la propria identità di popolo che il dio suggella e con la sua protezione garantisce.
Nelle religioni politeiste, dove gli dèi sono molti e quindi, proprio per questo, sono limitati nella loro potenza, ricorrere agli dèi significa solo proiettare nel cielo il conflitto tra gli uomini. Ma la divisione degli dèi, come ci racconta Omero nell'Iliade, non consente a nessuno dei belligeranti intorno alle mura di Troia di godere del favore dell'«onnipotenza di Dio». Di questo favore ritengono invece di godere quanti credono in un solo Dio e perciò nella guerra portano fino alle estreme conseguenze il principio dell'intolleranza che è il tratto tipico di ogni religione monoteista.
Se infatti c'è un unico Dio e io sono figlio di Dio, se il mio popolo è eletto, perché la sua fede è l'unica che indica la via della verità e della salvezza, chi sono mai gli altri? Gente da convertire o da combattere. Non ci sono alternative quando in gioco è l'unica via alla verità e alla salvezza. La tolleranza di alcune religioni monoteiste, come ad esempio quella cristiana, è una tolleranza «di fatto» non «di principio», perché chi crede nell'unico dio non può ritenere la propria condizione di fede equivalente alla condizione di chi non la condivide, perché in questo caso dovrebbe ad un tempo credere e non credere.
Per questo le guerre, dove i contendenti si sentono assistiti dall'unico dio onnipotente sono tutte «guerre sante» sono tutte «jihad», mentre non si può dire la stessa cosa ad esempio per la guerra di Troia o per le guerre a cui l'Impero Romano affidava la sua espansione perché, a differenza del monoteismo, il politeismo assicurava ospitalità nell'Olimpo anche agli dèi dei popoli sconfitti, garantendo così la valenza simbolica che è alla base di ogni identità culturale. Le guerre grecoromane, pur prevedendo l'attiva partecipazione degli dèi, erano in fondo guerre che oggi potremmo definire «laiche», perché in primo piano e in bella vista c'erano gli «interessi», non la «fede» .
Dopo 1500 anni di guerre sante combattute in Occidente contro i «barbari», gli arabi e gli indiani d'America, nel 1700, con l'Illuminismo e la rivoluzione francese, si torna a desacralizzare la guerra, non attraverso il politeismo come nel mondo antico, ma attraverso una progressiva laicizzazione del mondo, che comporta quel benefico assentarsi di Dio dalle vicende umane, che a questo punto possono essere affrontate e risolte con gli strumenti che gli uomini hanno a disposizione: la ragione e la forza, che fanno piazza pulita di quel minaccioso potenziale simbolico a sfondo religioso che ottunde la ragione e acceca la forza.
Guerre desacralizzate, guerre «laiche» potremmo dire per intenderci, sono stati i conflitti che in Occidente hanno caratterizzato i secoli XIX e XX, con una sola variante simbolicosacrale che ha fatto la sua comparsa nella seconda guerra mondiale con l'ideologia della superiorità razziale e con il conseguente sterminio degli ebrei. Qui il sacro, con il corredo dei suoi simboli devastanti, ha fatto la sua riapparizione e, a tragedia consumata, l'Occidente si è fatto carico della memoria, non per esorcizzare un'altra possibile guerra, ma quel tipo di guerra dove gli «interessi», che scatenano gli eserciti quando la politica fallisce, sono stati nascosti e occultati dalla potenza nefasta dei simboli. Oggi questa memoria sembra abbia ceduto. E il conflitto, non più arginato dalla logica «ragionevole» degli interessi, si è rivestito di simboli. Tali sono: l'Occidente contro il mondo arabo, il Corano contro la Bibbia, il dio cristiano contro il dio di Maometto, per non parlare di quelle espressioni e di quelle metafore tratte dal più arcaico linguaggio religioso da cui non rifuggono neanche i media nei loro servizi e taluni politici nei loro discorsi. Che altro significato ha questo richiamo a Dio, che così di frequente ricorre nei discorsi di Bush e nei messaggi di Bin Laden, se non quello di eccitare gli animi dei rispettivi popoli col fuoco pericolosissimo che la sacralità scatena, quando con la sua simbolica evoca «identità», «appartenenze», «radici culturali», «fedi»? Di questo sovrappiù simbolico non potremmo farne a meno? Non potremmo ricondurre il conflitto a quel contrasto d'interessi che pure esiste tra queste due aree che siamo soliti chiamare mondo occidentale e mondo islamico, e che hanno per nome: mercato del petrolio, controllo delle aree d'influenza, distribuzione della ricchezza, tutti temi umanamente trattabili con la politica e al limite anche con la guerra, senza far scendere in terra, anzi nel conflitto, Iddio, perché quando Dio scende in terra è subito apocalisse.
Già Platone, in quel dialogo che ha per titolo Il Politico, parla del «Grande capovolgimento (megiste metabole) che avvenne quando Dio abbandonò il timone del mondo e gli uomini dovettero darsi da fare con le tecniche e soprattutto con quella tecnica regia (basilike techne) che tutte le coordina e che ha per nome politica, per poter giungere al governo di sé». La lezione di Platone con mille difficoltà è stata almeno in parte assimilata dall'Occidente che ha desacralizzato gli interessi umani e i conflitti che essi inevitabilmente generano, chiamandoli con il loro nome.
Continuiamo a chiamare con il loro nome questi interessi e non confondiamoli con il nome di Dio, innanzitutto per non mettere Dio in contraddizione con se stesso, dal momento che sia gli islamici sia i cristiani si rifanno allo stesso Dio, che è poi il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e in secondo luogo perché una guerra desacralizzata e quindi limitata ai veri interessi, sia pure contrastanti, dei contendenti, ha più possibilità di comporsi e di concludersi di quanto non ne abbia una guerra santa, dove in gioco sono identità di popoli, appartenenze, culture, razze, fedi.