il manifesto, luglio 2002,
EDGAR MORIN
Tra due infiniti, il tormento dell'umano
MARIO PORRO
Nel 1973 veniva pubblicato Il paradigma perduto, nel quale un sociologo sui generis, Edgar Morin, riproponeva la domanda sulla natura umana; una domanda elusa dalla tradizione culturalista delle scienze umane del Novecento che, tranne rare eccezioni, dell'uomo aveva fatto un ente isolato, separato dalla natura e smembrato nelle frammentazioni disciplinari. Dalla consapevolezza che la scienza dell'uomo era ancora all'anno zero, nasceva il progetto di una cosmo-antropologia che integrasse le acquisizioni delle scienze per farle convergere nella ricostruzione dell'unità complessa dell'uomo. In fondo è a quel lontano progetto che Morin ha lavorato negli ultimi trent'anni, un progetto che imponeva un percorso nel Paese d'Enciclopedia, iniziato nel `77 con la comparsa del primo volume de «Il metodo», La natura della natura (trad. it. Feltrinelli), che rimane uno dei testi fondamentali del pensiero complesso. Ad esso erano seguiti La vita della vita (Feltrinelli), La conoscenza della conoscenza ('86) e Le idee ('91); si sono dovuti attendere dieci anni prima che apparisse il quinto, L'identità umana, (a cui dovrebbe fra seguito l'opera conclusiva del ciclo, L'etica), il cui sottotitolo ripropone lo schema riflessivo degli altri, L'umanità dell'umanità. Si tratta di un'opera che possiamo considerare una sintesi dell'intera vita di studioso dell'ottantenne Morin, diventato negli ultimi anni un affermato maître à penser, soprattutto nei paesi dell'America latina. In essa tornano i temi originari del suo lavoro di sociologo negli anni `50 e `60: la centralità del rapporto con la morte nella costruzione dell'individuo e nel fondarsi del collettivo, i meccanismi di proiezione, di costruzione di un doppio che dal passato magico-religioso si conservano nell'odierno immaginario filmico e dello spettacolo (le stars). L'identità umana - trad. it. Di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina Editore, pp. 320, euro 24 -, ripropone anche le riflessioni dell'ultimo decennio, dalla consapevolezza dell'integrazione fra destino storico e destino cosmico che ci accomuna nella cittadinanza terrena («Terra-Patria»), alle problematiche relative all'educazione e all'istruzione («La testa ben fatta», «I sette saperi necessari all'educazione del futuro», tutti tradotti da Cortina).
Il progetto di Morin ha richiesto la costruzione di una scatola di attrezzi teorici che fosse in sintonia con le scienze della complessità (in particolare con gli sviluppi della cibernetica e della teoria dei sistemi) e nella quale un ruolo centrale fosse assegnato ai processi di (auto)organizzazione, grazie al ruolo costruttivo del caso e del disordine. Il primo di quegli attrezzi è la dialogica, ossia il riconoscimento che la relazione fra opposti è insieme antagonista e complementare, non prevede conciliazione, come nella dialettica hegeliana; il secondo è l'anello ricorsivo per cui gli effetti retroagiscono sulle cause (es. la natura produce cultura che, a sua volta, modifica la natura), il terzo infine è il principio ologrammico, per il quale ogni elemento contiene in sé la totalità di cui fa parte (es. l'individuo come parte che racchiude la società cui appartiene). Il ricorso costante a questi principi, soprattutto al nesso dialogico fra opposti (natura e cultura, ragione e follia, ...) nelle forme yin-yang, finisce però per ingabbiare la complessità dei processi in griglie semplificatrici.
E' a partire dal radicamento cosmico e biologico dell'umano che muove la riflessione di Morin. La teoria di Mac Lean (il cervello di homo sapiens si compone di tre strati, due arcaici, eredi del cervello dei rettili e dei mammiferi, e infine la neo-corteccia, sede delle attitudini logiche) consente di indicare insieme il punto di connessione fra animalità e umanità (fra biologico e culturale) e la relazione dialogica fra intelligenza, affettività e pulsione, testimoniata dalle ricerche di Antonio Damasio («esiste una passione fondante la ragione») e di Maturana. Ma la conquista del logos non è mai definitiva e in noi homo sapiens convive con homo demens; più che annullare la componente di follia e delirio, il primo ha spesso fornito al secondo solo gli strumenti per lo scatenarsi delle pulsioni aggressive. L'individuo torna ad essere inumano, quando smette di vedere l'umanità degli altri, come ben sa la nostra epoca: «la bestialità e l'inumanità sono tratti specificamente umani».
Il mito, la magia e le religioni non costituiscono soltanto, argomenta Morin, una fase primitiva del pensiero, restano vivi all'interno della stessa razionalità, agiscono nella storia, magari nelle forme dei fanatismi odierni scatenati da nazionalismi e ideologie. E anche gli ideali, come testimonia il Novecento, conservano potenzialità sterminatrici che equivalgono a quelle delle divinità più crudeli. Ma il mito conserva anche il senso di appartenenza alla tragedia cosmica, tiene viva la parentela e il radicamento nell'avventura biologica, da cui un'antropologia che riduce l'umano alla vita privata ci ha strappato.
L'identità dell'uomo resta comunque polimorfa. All'homo faber e oeconomicus, a cui attribuiamo i progressi della civiltà, in nome di un principio di realtà e di utilità, si accompagna l'homo ludens e consumans, sensibile al principio della dilapidazione e del dono. E' da questa componente ludica, estetica, erede delle finalità magico-religiose, che sorge lo stato di grazia della felicità; essa ci pone in uno stato di risonanza e di comunione con il mondo, stato poetico nel quale ritroviamo l'ombra di Dioniso. La poesia e l'arte stringono con la realtà un patto sur-realista: grazie ad esso possiamo guardare in faccia l'atrocità della morte e l'angoscia umana che Morin, con accenti pascaliani (l'uomo, o il suo erede, resterà pascaliano, tormentato fra due infiniti), ci ricorda mai del tutto eliminabile.
La complessità dell'umano si evidenzia nel paradosso dell'unitas multiplex: accanto all'unità di specie (comune patrimonio ereditario, uguali competenze cerebrali, universali psico-affettivi, come l'idea di sacrifico e l'atteggiamento nei confronti della morte), si stagliano le differenze di gruppi e di civiltà che tendono oggi ad annullarsi nel mondo globalizzato, imposto dai criteri economici dell'Occidente. All'idea del mondo ridotto a merce occorre replicare, sostiene Morin, ispirandosi ai principi universalisti dell'umanesimo, ai diritti civili, all'ideale democratico, alla difesa ecologia della nostra Terra, casa comune, Oikos. L'ideale di emancipazione si connette alla speranza ottimista di un cosmopolitismo terreno, ma Morin sa bene come la mondializzazione in atto susciti balcanizzazione, distrugga diversità culturali e scateni per reazione ansie e chiusure. Mentre il cammino dei privilegiati dell'Occidente sembra avviarsi verso una sorta di «demortalità», la duplice minaccia della barbarie dei fanatismi bellicosi e del degrado strisciante frutto della civiltà tecnologica pone la terra sotto l'ombra della morte, e impone risposte che siano insieme fondamentali e globali. Ed è proprio il diverso rapporto con la morte il segnale più significativo della possibile comparsa di un meta-uomo (metantropo), tema a cui Morin accennava fin dagli anni `60, ma all'euforia di allora si è oggi sostituita l'inquietudine.
Il futuro rimane incerto, ma all'orizzonte si profila l'emergere di realtà ibride, frutto di una simbiosi fra biologia e tecnica, macchine intelligenti e forse auto-organizzate come i sistemi viventi, e organismi umani dotati di protesi e qualità artificiali. Proprio qui si rivela il conservarsi di un presupposto «umanistico» e antropocentrico nel sentire di Morin, testimoniato anche dal ricorso a categorie «tradizionali», come anima, individuo, o identità. Come attesta l'importante libro di Roberto Marchesini, Post human (Bollati Boringhieri) (se ne è occupato su queste pagine, il 19 giugno, Franco Voltaggio), il percorso dell'uomo non va inteso come un processo autoriferito, centrato su di sé; è stata invece la contaminazione con l'alterità non umana, animale o tecnologica, la condizione costante di evoluzione dell'umanità. L'ibridazione con il non umano, la relazione coniugativa con la natura (quali si sono espresse nell'addomesticamento, nell'apprendimento, e nella scienza stessa), il rendersi esterne (delocalizzate) delle facoltà umane grazie alla tecnica, non costituiscono solo tappe trascorse o di un futuro che ci attende ma sono il meccanismo che ha scandito la nostra stessa evoluzione. Di questa realtà ibrida dell'umano, della coevoluzione con il mondo animale e del ruolo trasformativo della tecnica, mostra piena consapevolezza l'ultimo libro di Michel Serres (autore il cui cammino ha spesso incrociato quello di Morin, non senza polemiche nell'ambiente culturale francese), Hominescence (Editions Le Pommier). Anche in questo caso, è dalla morte che si avvia la riflessione; fino ad una data recente, noi conoscevamo solo due morti, la nostra e quella dei nostri cari, una terza se ne è aggiunta, a partire dall'agosto del 1945: la possibilità che a morire sia l'umanità intera. La morte globale non ha più la forma della catastrofe naturale, come è stato nelle precedenti selezioni, ora essa dipende veramente da noi, si tratti di ordigni nucleari o dell'apocalisse strisciante che riduce la biodiversità. Le novità della tecnoscienza (in particolare nel campo dell'ingegneria genetica) modificano le nostre relazioni con la vita e la morte, producono, per ora in Occidente, uno stadio di ominescenza (un differenziale del processo di ominizzazione).
Un abisso si va scavando fra coloro che nel Sud del mondo restano nella condizione miserevole dei mortali, e quanti si approssimano alla condizione che un tempo si diceva divina, minoranza ricca lanciata alla ricerca dell'immortalità (il cui rischio di morte sta più nell'abbondanza che nella rarità); abitanti di paesi che si vantano di essere democratici, in realtà espressione della «più feroce ed inegualitaria delle aristocrazie», implacabile perché inscritta ormai nel corpo, trasformato dagli sviluppi della medicina, dalla migliore alimentazione, dalle pratiche sportive. Dalle generazioni formate a tollerare il dolore siamo passati a quelle insofferenti verso le minime irritazioni, il che ha reso desuete le morali che imponevano sopportazione e pazienza, che ribadivano la volontà di vivere contro i vincoli inevitabili della morte precoce e del patire. Morte e riproduzione diventano culturali, le abbiamo addomesticate; le biotecnologie pongono nelle nostre mani la nascita di individui e specie, da naturati siamo diventati naturanti, non più sottoposti alla necessità ma esposti al possibile, causa sui come Dio, ubiqui grazie ai telefoni e ai computer portatili.
Stiamo modificando le nostre dimore, quella locale e individuale del corpo e quella globale e universale dell'habitat terrestre. Al vecchio Homo faber, la cui efficacia si esercitava solo localmente, si è sostituito, rileva Serres, Homo universalis, la cui azione ha un potere globale di intervento sugli uomini e le cose, si tratti di beneficio o di sterminio: siamo in grado di produrre oggetti-mondo, disponiamo di tecnologie che toccano la comunità intera, di media capaci di intervenire sull'umanità nel suo complesso, il nostro potere si va estendendo al mondo intero ed al tempo a venire, all'insieme dei viventi. Eccoci dunque eredi degli attributi divini, causa dell'ominizzazione, creatori di specie, onnipotenti; mentre è Dio a ereditare gli attributi che abbiamo lasciato, debolezza e abbandono (e infatti abita sempre più il terzo e quarto mondo), a noi rimane di diventare misericordiosi.
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commento:
nell'articolo sono presenti diversi affermazione che non condivido,
il testo e' interessante perche' dimostra come molti
temi connaturati alla visione pagana del mondo siano
entrati nel patrimonio intellettuale contemporaneo.
lo scrittore non arriva alla conclusione radicale della sua
analisi, non riesce ad avere una visione pagana del mondo, tuttavia l'articolo dimostra come le tematiche pagane siano cosi' attuali.
EDGAR MORIN
Tra due infiniti, il tormento dell'umano
MARIO PORRO
Nel 1973 veniva pubblicato Il paradigma perduto, nel quale un sociologo sui generis, Edgar Morin, riproponeva la domanda sulla natura umana; una domanda elusa dalla tradizione culturalista delle scienze umane del Novecento che, tranne rare eccezioni, dell'uomo aveva fatto un ente isolato, separato dalla natura e smembrato nelle frammentazioni disciplinari. Dalla consapevolezza che la scienza dell'uomo era ancora all'anno zero, nasceva il progetto di una cosmo-antropologia che integrasse le acquisizioni delle scienze per farle convergere nella ricostruzione dell'unità complessa dell'uomo. In fondo è a quel lontano progetto che Morin ha lavorato negli ultimi trent'anni, un progetto che imponeva un percorso nel Paese d'Enciclopedia, iniziato nel `77 con la comparsa del primo volume de «Il metodo», La natura della natura (trad. it. Feltrinelli), che rimane uno dei testi fondamentali del pensiero complesso. Ad esso erano seguiti La vita della vita (Feltrinelli), La conoscenza della conoscenza ('86) e Le idee ('91); si sono dovuti attendere dieci anni prima che apparisse il quinto, L'identità umana, (a cui dovrebbe fra seguito l'opera conclusiva del ciclo, L'etica), il cui sottotitolo ripropone lo schema riflessivo degli altri, L'umanità dell'umanità. Si tratta di un'opera che possiamo considerare una sintesi dell'intera vita di studioso dell'ottantenne Morin, diventato negli ultimi anni un affermato maître à penser, soprattutto nei paesi dell'America latina. In essa tornano i temi originari del suo lavoro di sociologo negli anni `50 e `60: la centralità del rapporto con la morte nella costruzione dell'individuo e nel fondarsi del collettivo, i meccanismi di proiezione, di costruzione di un doppio che dal passato magico-religioso si conservano nell'odierno immaginario filmico e dello spettacolo (le stars). L'identità umana - trad. it. Di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina Editore, pp. 320, euro 24 -, ripropone anche le riflessioni dell'ultimo decennio, dalla consapevolezza dell'integrazione fra destino storico e destino cosmico che ci accomuna nella cittadinanza terrena («Terra-Patria»), alle problematiche relative all'educazione e all'istruzione («La testa ben fatta», «I sette saperi necessari all'educazione del futuro», tutti tradotti da Cortina).
Il progetto di Morin ha richiesto la costruzione di una scatola di attrezzi teorici che fosse in sintonia con le scienze della complessità (in particolare con gli sviluppi della cibernetica e della teoria dei sistemi) e nella quale un ruolo centrale fosse assegnato ai processi di (auto)organizzazione, grazie al ruolo costruttivo del caso e del disordine. Il primo di quegli attrezzi è la dialogica, ossia il riconoscimento che la relazione fra opposti è insieme antagonista e complementare, non prevede conciliazione, come nella dialettica hegeliana; il secondo è l'anello ricorsivo per cui gli effetti retroagiscono sulle cause (es. la natura produce cultura che, a sua volta, modifica la natura), il terzo infine è il principio ologrammico, per il quale ogni elemento contiene in sé la totalità di cui fa parte (es. l'individuo come parte che racchiude la società cui appartiene). Il ricorso costante a questi principi, soprattutto al nesso dialogico fra opposti (natura e cultura, ragione e follia, ...) nelle forme yin-yang, finisce però per ingabbiare la complessità dei processi in griglie semplificatrici.
E' a partire dal radicamento cosmico e biologico dell'umano che muove la riflessione di Morin. La teoria di Mac Lean (il cervello di homo sapiens si compone di tre strati, due arcaici, eredi del cervello dei rettili e dei mammiferi, e infine la neo-corteccia, sede delle attitudini logiche) consente di indicare insieme il punto di connessione fra animalità e umanità (fra biologico e culturale) e la relazione dialogica fra intelligenza, affettività e pulsione, testimoniata dalle ricerche di Antonio Damasio («esiste una passione fondante la ragione») e di Maturana. Ma la conquista del logos non è mai definitiva e in noi homo sapiens convive con homo demens; più che annullare la componente di follia e delirio, il primo ha spesso fornito al secondo solo gli strumenti per lo scatenarsi delle pulsioni aggressive. L'individuo torna ad essere inumano, quando smette di vedere l'umanità degli altri, come ben sa la nostra epoca: «la bestialità e l'inumanità sono tratti specificamente umani».
Il mito, la magia e le religioni non costituiscono soltanto, argomenta Morin, una fase primitiva del pensiero, restano vivi all'interno della stessa razionalità, agiscono nella storia, magari nelle forme dei fanatismi odierni scatenati da nazionalismi e ideologie. E anche gli ideali, come testimonia il Novecento, conservano potenzialità sterminatrici che equivalgono a quelle delle divinità più crudeli. Ma il mito conserva anche il senso di appartenenza alla tragedia cosmica, tiene viva la parentela e il radicamento nell'avventura biologica, da cui un'antropologia che riduce l'umano alla vita privata ci ha strappato.
L'identità dell'uomo resta comunque polimorfa. All'homo faber e oeconomicus, a cui attribuiamo i progressi della civiltà, in nome di un principio di realtà e di utilità, si accompagna l'homo ludens e consumans, sensibile al principio della dilapidazione e del dono. E' da questa componente ludica, estetica, erede delle finalità magico-religiose, che sorge lo stato di grazia della felicità; essa ci pone in uno stato di risonanza e di comunione con il mondo, stato poetico nel quale ritroviamo l'ombra di Dioniso. La poesia e l'arte stringono con la realtà un patto sur-realista: grazie ad esso possiamo guardare in faccia l'atrocità della morte e l'angoscia umana che Morin, con accenti pascaliani (l'uomo, o il suo erede, resterà pascaliano, tormentato fra due infiniti), ci ricorda mai del tutto eliminabile.
La complessità dell'umano si evidenzia nel paradosso dell'unitas multiplex: accanto all'unità di specie (comune patrimonio ereditario, uguali competenze cerebrali, universali psico-affettivi, come l'idea di sacrifico e l'atteggiamento nei confronti della morte), si stagliano le differenze di gruppi e di civiltà che tendono oggi ad annullarsi nel mondo globalizzato, imposto dai criteri economici dell'Occidente. All'idea del mondo ridotto a merce occorre replicare, sostiene Morin, ispirandosi ai principi universalisti dell'umanesimo, ai diritti civili, all'ideale democratico, alla difesa ecologia della nostra Terra, casa comune, Oikos. L'ideale di emancipazione si connette alla speranza ottimista di un cosmopolitismo terreno, ma Morin sa bene come la mondializzazione in atto susciti balcanizzazione, distrugga diversità culturali e scateni per reazione ansie e chiusure. Mentre il cammino dei privilegiati dell'Occidente sembra avviarsi verso una sorta di «demortalità», la duplice minaccia della barbarie dei fanatismi bellicosi e del degrado strisciante frutto della civiltà tecnologica pone la terra sotto l'ombra della morte, e impone risposte che siano insieme fondamentali e globali. Ed è proprio il diverso rapporto con la morte il segnale più significativo della possibile comparsa di un meta-uomo (metantropo), tema a cui Morin accennava fin dagli anni `60, ma all'euforia di allora si è oggi sostituita l'inquietudine.
Il futuro rimane incerto, ma all'orizzonte si profila l'emergere di realtà ibride, frutto di una simbiosi fra biologia e tecnica, macchine intelligenti e forse auto-organizzate come i sistemi viventi, e organismi umani dotati di protesi e qualità artificiali. Proprio qui si rivela il conservarsi di un presupposto «umanistico» e antropocentrico nel sentire di Morin, testimoniato anche dal ricorso a categorie «tradizionali», come anima, individuo, o identità. Come attesta l'importante libro di Roberto Marchesini, Post human (Bollati Boringhieri) (se ne è occupato su queste pagine, il 19 giugno, Franco Voltaggio), il percorso dell'uomo non va inteso come un processo autoriferito, centrato su di sé; è stata invece la contaminazione con l'alterità non umana, animale o tecnologica, la condizione costante di evoluzione dell'umanità. L'ibridazione con il non umano, la relazione coniugativa con la natura (quali si sono espresse nell'addomesticamento, nell'apprendimento, e nella scienza stessa), il rendersi esterne (delocalizzate) delle facoltà umane grazie alla tecnica, non costituiscono solo tappe trascorse o di un futuro che ci attende ma sono il meccanismo che ha scandito la nostra stessa evoluzione. Di questa realtà ibrida dell'umano, della coevoluzione con il mondo animale e del ruolo trasformativo della tecnica, mostra piena consapevolezza l'ultimo libro di Michel Serres (autore il cui cammino ha spesso incrociato quello di Morin, non senza polemiche nell'ambiente culturale francese), Hominescence (Editions Le Pommier). Anche in questo caso, è dalla morte che si avvia la riflessione; fino ad una data recente, noi conoscevamo solo due morti, la nostra e quella dei nostri cari, una terza se ne è aggiunta, a partire dall'agosto del 1945: la possibilità che a morire sia l'umanità intera. La morte globale non ha più la forma della catastrofe naturale, come è stato nelle precedenti selezioni, ora essa dipende veramente da noi, si tratti di ordigni nucleari o dell'apocalisse strisciante che riduce la biodiversità. Le novità della tecnoscienza (in particolare nel campo dell'ingegneria genetica) modificano le nostre relazioni con la vita e la morte, producono, per ora in Occidente, uno stadio di ominescenza (un differenziale del processo di ominizzazione).
Un abisso si va scavando fra coloro che nel Sud del mondo restano nella condizione miserevole dei mortali, e quanti si approssimano alla condizione che un tempo si diceva divina, minoranza ricca lanciata alla ricerca dell'immortalità (il cui rischio di morte sta più nell'abbondanza che nella rarità); abitanti di paesi che si vantano di essere democratici, in realtà espressione della «più feroce ed inegualitaria delle aristocrazie», implacabile perché inscritta ormai nel corpo, trasformato dagli sviluppi della medicina, dalla migliore alimentazione, dalle pratiche sportive. Dalle generazioni formate a tollerare il dolore siamo passati a quelle insofferenti verso le minime irritazioni, il che ha reso desuete le morali che imponevano sopportazione e pazienza, che ribadivano la volontà di vivere contro i vincoli inevitabili della morte precoce e del patire. Morte e riproduzione diventano culturali, le abbiamo addomesticate; le biotecnologie pongono nelle nostre mani la nascita di individui e specie, da naturati siamo diventati naturanti, non più sottoposti alla necessità ma esposti al possibile, causa sui come Dio, ubiqui grazie ai telefoni e ai computer portatili.
Stiamo modificando le nostre dimore, quella locale e individuale del corpo e quella globale e universale dell'habitat terrestre. Al vecchio Homo faber, la cui efficacia si esercitava solo localmente, si è sostituito, rileva Serres, Homo universalis, la cui azione ha un potere globale di intervento sugli uomini e le cose, si tratti di beneficio o di sterminio: siamo in grado di produrre oggetti-mondo, disponiamo di tecnologie che toccano la comunità intera, di media capaci di intervenire sull'umanità nel suo complesso, il nostro potere si va estendendo al mondo intero ed al tempo a venire, all'insieme dei viventi. Eccoci dunque eredi degli attributi divini, causa dell'ominizzazione, creatori di specie, onnipotenti; mentre è Dio a ereditare gli attributi che abbiamo lasciato, debolezza e abbandono (e infatti abita sempre più il terzo e quarto mondo), a noi rimane di diventare misericordiosi.
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commento:
nell'articolo sono presenti diversi affermazione che non condivido,
il testo e' interessante perche' dimostra come molti
temi connaturati alla visione pagana del mondo siano
entrati nel patrimonio intellettuale contemporaneo.
lo scrittore non arriva alla conclusione radicale della sua
analisi, non riesce ad avere una visione pagana del mondo, tuttavia l'articolo dimostra come le tematiche pagane siano cosi' attuali.