Saturday, December 08, 2007

La Terra come dominio da sfruttare è un retaggio della demonologia?

La Terra come dominio da sfruttare è un retaggio della demonologia?
di Francesco Lamendola - 08/12/2007

dal sito di Arianna Editrice (ariannaeditrice.it)

Oggetto della presente riflessione è verificare se la concezione occidentale della natura come luogo del dominio antropologico, da manipolare e sfruttare indiscriminatamente - concezione che ci sta portando velocemente all'implosione ecologica - trovi le sue lontane radici in una particolare idea della religiosità ebraica: quella secondo la quale i luoghi selvaggi e deserti sono la dimora dei demoni.

Se, infatti, le due grandi sorgenti della civiltà occidentale sono Atene e Gerusalemme, possiamo lasciar fuori la prima dal nostro quadro perché alla civiltà ellenica (e, dopo di essa, a quella romana) non appartiene l'idea caratteristica che il male si annidi nella natura incolta e selvaggia; e, inoltre, il daimon non è affatto un essere necessariamente malvagio, può anzi essere un divino consigliere, come lo era quello di Socrate. È nell'antico ebraismo che, sotto la spinta della religione mesopotamica (specialmente durante l'esilio a Babilonia), la quale a sua volta è influenzata da quella persiana, si rafforza la confusa credenza nell'esistenza di esseri spirituali di natura malvagia, abitatori dei luoghi aridi e deserti, e si va sempre più definendo e precisando, fino a raggiungere la massima evidenza nel Nuovo Testamento.

Nel libro del Levitico, ad esempio, si esortano i figli d'Israele a non offrire più sacrifici ai satiri, ai quali erano soliti prostituirsi (17,7): qui i satiri sono degli spiriti cattivi sul tipo di Azazel, ritenuti abitatori del deserto. In realtà, non sappiamo molto di Azazel né del significato della misteriosa cerimonia con la quale un capro era offerto in sacrificio a Yahvé mentre un altro, simbolicamente caricato di tutti i peccati del popolo, veniva mandato nel deserto, appunto ad Azazel (cfr. Levitico, 16, 6-10).



Dopo che Aronne avrà offerto il giovenco in sacrificio per il proprio peccato, e avrà compiuto il rito d'espiazione per sé e per la sua casa, prenda due capri e li presenti davanti al Signore alla porta del Tabernacolo di convegno. Getti quindi le sorti sopra di essi: una sorte per il capro da immolare al Signore e l'altra per quello da inviare ad Azazel. Il capro su cui è caduta la sorte per il Signore, lo offra in sacrificio d'espiazione per il peccato. Invece il capro, su cui è caduta la sorte per Azazel, sia presentato vivo davanti al Signore, per fare sopra di lui l'espiazione e poi mandarlo ad Azazel nel deserto."



Secondo a Pimentel (voce Azazel della Enciclopedia della Bibbia, Torino, Elle Di Ci, 1969, vol. 1, p. 994)



"…Si ignora il significato del nome azazel e ciò che rappresentava. Gli esegeti antichi e moderni non sono d'accordo sulla sua etimologia. Alcuni fanno derivare il nome dal verbo generalmente non usato azal (ar. Azala), 'allontanare', e pertanto azazel significherebbe 'colui che allontana i peccati'; altri pensano che il nome primitivo ('Dio è forte') sia stato a bella posta mutato dai Masoreti. Ci sono stati altri tentativi di interpretazione inconcludenti come quelli elencati sopra. Il giudaismo antico dice che si tratta di un nome di un angelo caduto che abita nei luoghi deserti, quello moderno aggiunge che Raffaele lo terrà incatenato sino al giorno del giudizio, quando sarà gettato nel fuoco. Gli scrittori cristiani interpretano questo nome come un'astrazione, cioè come 'capro che porta su di sé il peccato'."



Tuttavia, durante la deportazione in Babilonia, questa credenza ancor vaga e confusa si definisce intorno ad alcune figure di demoni sicuramente di origine iranica, e la demonologia ebraica entra nella sua fase matura. Le maggiori informazioni al riguardo ci provengono dai libri deuterocanonici dell'Antico Testamento nonché dagli scritti apocrifi, come quel Libro di Enoch di cui sono stati rinvenuti importanti frammenti nelle grotte di Qmran e di cui già si conoscevano tre diverse redazioni: etiopica, slava ed ebraica. Nel Libro di Tobia, ad esempio (che, scritto verso il III secolo a. C., è pertanto uno dei più recenti dell'Antico Testamento, e presenta chiari influssi iranici, già nell'ambientazione geografica) si dice che il demone Asmodeo, l'uccisore dei sette mariti di Sara, venne infine incatenato dall'arcangelo Raffaele nel deserto dell'Alto Egitto, dopo essere stato messo in fuga da Ecbatana, nella Media (8, 1-3):



"Quand'ebbero terminato di mangiare e di bere [i genitori della ragazza]vollero andare a dormire e accompagnarono il giovane fin dentro la camera da letto. Tobia si ricordò allora delle parole di Rafael e prese dal suo sacco il cuore e il fegato del pesce e li pose sul braciere dei profumi. L'odore del pesce allontanò il demonio che fuggì nell'Alto Egitto, dove rafael, inseguitolo, l'incatenò e subito ritornò. "



Gesù, nel Nuovo Testamento, riprende questa credenza dei suoi compatrioti e se ne serve per spiegare le difficoltà di effettuare un esorcismo definitivo, che liberi l'indemoniato una volta per tutte dalla possessione diabolica (Matteo, 12, 43-45).



"Quando uno spirito maligno esce da un uomo e ne va per luoghi deserti in cerca di riposo; ma non lo trova. Allora dice: «Tornerò nella mia casa, quella che ho lasciato». Egli ci va e la trova vuota, pulita e bene ordinata. Allora va a chiamare altri sette spiriti, più maligni di lui; poi, tutt'insieme, entrano e restano in quella casa. Così alla fine quell'uomo si trova in condizioni peggiori di prima."



Anche le tentazioni di Gesù Cristo da parte del demonio sono collocate nel deserto; così come, nei primi secoli del cristianesimo, i monaci eremiti si stabilivano nei deserti dell'Egitto, del Sinai, della Giudea, della Siria, della Mesopotamia e della Cappadocia, proprio per affrontare i demoni e per vincere le loro tentazioni.

Ma che c'entra tutto questo con la filosofia del dominio e dello sfruttamento incontrastato della natura da parte dell'uomo? Il nesso esiste, a nostro avviso, ed è questo: se i luoghi deserti e selvaggi, nella cultura giudaico-cristiana, erano percepiti come la sede del male, ne consegue che per, per estirpare le presenze demoniache dalla faccia della terra, era necessario soggiogare tali regioni, piegare la loro natura impervia, sottomettere il loro carattere ostile. A differenza della cultura greco-romana, infatti, che vedeva nella natura incontaminata il luogo delle divinità per eccellenza, e specialmente delle divinità minori legate alla fertilità e alla riproduzione (ninfe), nonché il luogo idoneo per celebrare i culti misterici a carattere orgiastico (baccanti), quella giudaico-cristiana aveva orrore della natura selvaggia e vi scorgeva pericoli per l'anima non meno che per il corpo. Forse ciò è in relazione con la demonizzazione, operata dal cristianesimo, sia delle divinità agresti (Pan, i satiri), sia dei culti segreti della fertilità, che finirono per trasformarsi - durante il Medioevo - nei sabba delle streghe. Sta di fatto che, così come l'arte della tarda antichità e dell'alto medioevo presenta un caratteristico horror vacui, una paura del vuoto, specialmente nelle superfici dei bassorilievi marmorei, analogamente si potrebbe parlare di un horror selvatici, di una paura degli spazi non domati dall'aratro e messi a coltura.



Ed eccoci giunti al significato biblico dei verbi soggiogare e dominare, di cui si fa uso nel Libroi della Genesi a proposito della creazione dell'uomo da parte di Yahvé.

Scrive Angelo Ranon (L'uomo e il creato, in Il libro della pace, a cura di G. Dal Ferro e Annalisa Lombardo, Vicenza, Edizioni del Rezzara, 1994, pp.139-140):



"Se nel Jahvista al centro sta l'uomo per il quale Dio crea tutto, anche il giardino, nella seconda pagina al centro sta Dio. I sette giorni della creazione culminano nel sabato; tutto il mondo, l'umanità compresa, ha come traguardo non l'essere dentro nel mondo al lavoro, ma l'adorazione, lo 'sabbat' in cui il cosmo non fa nulla e sta insieme con la creazione davanti a Dio, la terra riposa ogni sette anni. L'accentuazione è posta fortemente su Dio che tutto crea con la sua parola; tutto esiste perché lui ha chiamato quella realtà all'esistenza, tutto è ordinato da Lui: «e Dio vide che era cosa buona» è il ritornello che si legge più volte. Tutto ciò che esce dalle mani di Dio, corrisponde esattamente al suo progetto; il termine ebraico è tob (buono, bello).

"L'uomo viene creato nel sesto giorno, dopo gli animali, in continuità solidale con tutta la creazione precedente, bisognoso di tutti gli esseri creati prima; viene per ultimo perché ha bisogno di tutto quel che sta prima. L'uomo, però, si distingue nettamente da tutto il resto perché viene creato a immagine e somiglianza di Dio; se noi cerchiamo chi è realmente l'uomo non dobbiamo guardare al cosmo ma alzare lo sguardo verso Dio. Quest'uomo, giunto nel mondo, riceve un compito, attraverso la famosa benedizione (cap. 1, 28-30) che si potrebbe così sintetizzare. Condividere l'ammirazione per la creazione, prenderne cura, entrare come creatura fatta a immagine di Dio e imprimere il proprio sigillo nella creazione.

"La benedizione non è un comando, è una possibilità che chiede all'uomo una risposta da dare nella responsabilità. Il primo aspetto della benedizione è la fecondità, la capacità dell'uomo di dar vita ad altri uomini che portino la sua impronta e che siano fatti a immagine e somiglianza di Dio. I due verbi chiave di questa benedizione, interpretati più volte in modo distorto, sono 'soggiogare' e 'dominare'. Dal punto di vista dell'analisi filologica, dato che molte persone non hanno dimestichezza con l'ebraico, è facile andar incontro a interpretazioni sbagliate, negative; il contesto però non lascia posto a dubbi, perché non si può pensare a due verbi che permettano una manipolazione sconsiderata all'interno della creazione di Dio («e vide che tutto era buono»). Infatti, se l'uomo partecipa alla signoria di Dio, dovrà assomigliare a Dio nel suo porsi nei confronti del mondo. Il primo verbo («soggiogate la terra») è quello che viene usato per Israele quando entra nella Terra promessa; prender possesso della Terra non vuol dire sfruttarla, devastarla, ma vuol dire riceverla nella sua ricchezza, umanizzandola; dietro a questo verbo c'è l'idea caratteristica della paura di quei tempi per le zone che rimangono selvagge e che possono essere luoghi sotto l'influenza dei demoni. Prendere possesso dunque vuol dire riceverla come dono dalle mani di Dio.

"Il secondo verbo («dominate gli animali») in ebraico è caratteristico per indicare il modo con cui il pastore si rapporta al gregge; non ha nessun significato negativo di sfruttamento o repressione, non offre certamente all'uomo la possibilità di dilapidare il dono di Dio.

"Certo, se si toglie Dio, allora l'uomo si trova lui solo di fronte al cosmo e queste parole verranno interpretate come la legittimazione del 'fare ciò che si vuole'; invece è sempre Dio che è presente nella creazione, il cosmo è un Suo dono, e da tutto questo non si può assolutamente prescindere. L'interpretazione selvaggia può derivare solamente dall'ignoranza o dall'interesse o perché si legge la Bibbia senza la volontà di rapportarsi realmente alla creazione secondo il disegno divino."



Non siamo esperti di lingue orientali e ammettiamo tranquillamente che le cose stiano come afferma Ranon. Tuttavia, vorremmo richiamare l'attenzione su quel passaggio significativo del suo ragionamento: prender possesso della Terra non vuol dire sfruttarla, devastarla, ma vuol dire riceverla nella sua ricchezza, umanizzandola; dietro a questo verbo c'è l'idea caratteristica della paura di quei tempi per le zone che rimangono selvagge e che possono essere luoghi sotto l'influenza dei demoni. Vi troviamo la conferma della nostra tesi, secondo la quale la cultura ebraica, e quella cristiana da essa derivata, nutre più che una diffidenza, una vera e propria avversione per la natura selvaggia, vista come ricettacolo delle presenze demoniache.

Si ricordi la foresta stregata della Gerusalemme Liberata, dopo che il mago Ismeno ha evocato legioni di demoni che si sono insediati, uno ad uno, nei suoi alberi: compito dei crociati sarà, ad un tempo, scacciare i demoni ed abbattere la foresta - l'unica che esista nei dintorni della Città santa - fino all'ultimo tronco, per fabbricare le potenti macchine d'assedio con le quali superare le difese dei nemici. Nella concezione di Torquato Tasso, la distruzione totale della foresta non è solo un passo necessario dal punto di vista logistico, nel quadro di una precisa strategia militare, ma è anche un simbolo - come lo è, del resto, tutto il poema: il simbolo della lotta tra Bene e Male, tra peccato e redenzione. Ove la buia e fittissima foresta è, appunto, dimora dei demoni e cifra del peccato, mentre i luoghi aperti e domati dalla mano dell'uomo sono simbolo di redenzione e di ristabilimento del legame con il divino.

Non solo il deserto, quindi, ma in genere i luoghi deserti, ossia non redenti dal lavoro dell'uomo, sono ricettacolo del male; il che, storicamente, si può spiegare con il fatto che essi sono dimora di animali feroci e pericolosi. Nel deserto pullulavano serpenti e scorpioni, nella steppa si aggirava ruggendo il leone (cfr. 1 Pietro, 5, 8); la selva era popolata da orsi, lupi, perfino tigri e buoi selvatici (animali in gran parte scomparsi, e da gran tempo, dalla Palestina odierna). Coccodrilli e ippopotami, infine, abitavano la valle del Nilo e riempivano gli uomini di spavento e meraviglia (cfr. la descrizione del Leviatano nel Libro di Giobbe). Tale era la fauna dei luoghi deserti dell'antico Medio Oriente, e si può ben comprendere come i suoi abitanti non si sentissero del tutto al sicuro se non dopo che le terre erano state messe a coltura, le foreste abbattute e, così, distrutto l'habitat naturale delle fiere (che venivano magari concentrate nelle immense riserve di caccia dei re assiri, babilonesi e persiani).

Resta il fatto che una tale percezione negativa dei luoghi aspri e disabitati, trasferendosi nel cristianesimo nel corso della tarda antichità e dell'alto medioevo - ossia nei secoli di regressione delle superfici agricole e di ripresa della flora e della fauna selvatiche, in Europa e nel bacino del Mediterraneo), ha senza dubbio contribuito a diffondere l'idea che fosse necessario sottomettere la natura, piegare la natura selvaggia alla volontà dell'uomo, alle sue esigenze economiche e al suo bisogno di sicurezza, anche psicologica e, quindi, a una massiccia trasformazione e manipolazione della Terra in vista di un processo di antropizzazione, ove non c'era spazio se non per le piante selezionate dall'uomo e per gli animali giudicati utili per il suo lavoro e per la sua alimentazione.

Orbene, dove ci abbia condotti una tale percezione dell'alterità naturale, ossia proprio di quella parte della natura che ha conservato caratteri di natura vergine e incontaminata, è oggi sotto gli occhi di tutti. Essa è stata presa d'assalto con zelo religioso, in una sorta di crociata mondiale contro il lato selvatico del mondo; una crociata senza regole e senza pietà. Il fatto è che, per l'uomo occidentale, l'unica natura buona (si potrebbe dire, parafrasando una frase tristemente celebre riferita agli Indiani d'America) è la natura "morta", ossia totalmente manipolata e sottoposta al suo controllo. Abbiamo così creato giardini, riserve e parchi naturali ove si consente a una modesta porzione della natura primigenia di continuare ad esistere, in condizioni di rigoroso isolamento e costante controllo, abbattendo ogni anno tutti quegli alberi e tutti quei capi di selvaggina che le amministrazioni forestali giudicano in eccesso rispetto a siffatte zone-rifugio di una natura ormai edulcorata e semi-artificiale.

Forse, per tentar di recuperare un rapporto meno nevrotico e distruttivo con il mondo della natura, dovremmo superare l'originaria equivalenza giudeo-cristiana "luogo selvaggio = luogo del male" e ritrovare un po' di quell'animismo, di quel panismo che vedeva un valore autonomo in ogni fonte e selva, in ogni monte e fiume, in ogni singolo albero e in ogni zolla di terra. Oppure, restando all'interno di un'ottica cristiana, bisognerebbe riscoprire la presenza divina in ogni luogo della natura, e specialmente nei luoghi selvaggi e incontaminati - nelle alte montagne, per esempio - in quanto, essendo meno compromessi dagli effetti dell'avidità umana (sfruttamento selvaggio, deforestazione, inquinamento, inaridimento), meglio esprimono la bellezza originaria, la purezza della creazione così come è uscita dal progetto provvidenziale e amorevole di Dio: la sua freschezza, la sua forza poderosa, il suo slancio stupendo verso l'Assoluto.