L'archetipo della madre
Secondo Carl G. Jung, noi ereditiamo dalla società un insieme di elementi che non ci pervengono dall'esperienza né dalla cultura, come se facesse parte di un patrimonio genetico simbolico.
Si tratta di una serie di credenze, immagini, simboli che lo psicoanalista svizzero chiamò 'inconscio collettivo' per distinguerlo da quello 'individuale'. Unità di base sono gli 'archetipi', immagini simboliche, rappresentazioni, che ciascuno può applicare a se stesso e alla propria vita.
Ritroviamo figure archetipiche nei miti, nelle favole, nei sogni e formano, tutti insieme, la memoria dell'umanità.
Stephen Larsen, studioso di mitologia comparata, sostiene le qualità terapeutiche del racconto mitico che mette l'essere umano a contatto con gli dei, simboli della propria energia psichica e lo aiutano a fare scelte e determinare destini.
Per le donne molti studiosi hanno sottolineato la centralità dell'archetipo della Grande Madre, creatrice universale. La maternità rappresenta un'esperienza primaria che getta le basi di ogni futura esistenza psichica, in quanto ognuno di noi fa i conti con l'archetipo materno in primo luogo come figlio. Inoltre l'archetipo costituisce il fondamento del 'complesso materno' che nella più antica psicopatologia riconosce la madre come parte attiva nell'insorgenza di problemi e disturbi.
Il concetto di Grande Madre nasce all'incirca nel 7000 a.C., nel Neolitico Antico, ma tracce di tale culto sono presenti già dal Paleolitico. Si tratta di una figura religiosa, in cui ad una divinità femminile viene attribuita la genesi di tutte le cose viventi, piante, animali, uomini. Il culto ha certamente origine in comunità che vivevano di agricoltura, stanziali, in armonia con i cicli della natura e della luna, simbolo tipicamente femminile.
A loro volta le donne incarnano molteplici figure mitologiche femminili, da Demetra a Medea, da Afrodite ad Atena, da Estia a Persefone. Qui ci soffermiamo su quelle dee che in qualche modo trovano il proprio significato nella relazione col materno.
Secondo la psicoanalista junghiana Jean S. Bolen, autrice del libro "Le dee dentro la donna" (Astrolabio 1991): 'in una stessa donna sono presenti più dee e la loro conoscenza fornisce la chiave per la comprensione di sé e dei rapporti che stabilisce con gli altri'.
La dea Madre per antonomasia è Demetra, dea delle messi e icona di un istinto materno che non si da pace.
Demetra è la madre di Persefone avuta dal fratello Zeus. Un giorno, mentre la giovane sta raccogliendo dei fiori, viene rapita da Ade (dio dei morti), da tempo innamorato di lei. Il ratto si compie grazie alla complicità di Zeus, padre della ragazza. Demetra, accortasi della scomparsa della figlia la cerca per nove giorni e nove notti senza più curarsi di se stessa e senza che nessuno sia in grado di darle informazioni utili al suo ritrovamento. All'alba del decimo giorno, su suggerimento di Ecate, Demetra chiede a Elios, il Sole, che le rivela l'identità del responsabile.
Folle di rabbia per il tradimento subito la dea abbandona l'Olimpo e per vendetta decide di impedire che la terra dia i suoi frutti in modo che la razza umana si estingua nella carestia. Nel tentativo di lenire il proprio dolore, la dea vaga per il mondo, sorda ai lamenti degli umani ormai senza cibo.
Errabonda, assume le sembianze di un'anziana donna celando il suo splendido aspetto e viene accolta in una casa nella quale diventa nutrice del figlio del re dell'Attica, Demofonte.
Demetra si affeziona subito al piccolo che nutre con la divina ambrosia per renderlo immortale. L'amore per il bambino lenisce il suo dolore sino a che la regina, madre del bambino, la scopre, costringendola a palesarsi nella sua divinità. Ricacciata nella disperazione la dea si rifugia sul monte Callicoro incurante delle suppliche dei mortali, decimati dalla carestia.
Per farla breve, Zeus ingiunge ad Ade di rendere la figlia alla dea e il lieto fine sembra fare capolino, ma prima di far tornare Persefone dall'oltretomba, Ade le fa mangiare un seme di melograno costingendola a fare ritorno periodicamente dall'oscuro marito. Tale è comunque la gioia della madre che appena stringe la figlia tra le braccia la terra torna fertile e le piante e le messi ricominciano a fiorire.
Il prezzo da pagare per il ritorno da Ade fu che nei mesi in cui la giovane sarebbe rimasta col marito nel mondo ci sarebbe stato freddo e penuria, dando origine all'autunno e all'inverno. Così narra il mito.
Demetra è quindi la Terra-madre, il simbolo della madre che ama la prole sopra ogni cosa.
Dea delle messi, presiede l'abbondanza dei raccolti.
Rappresenta l'istinto materno che si realizza nella gravidanza e nel nutrimento fisico e psicologico. La donna Demetra si realizza pienamente in questo compito ma rischia la depressione se il suo bisogno di nutrire viene rifiutato.
Tale senso della maternità non si limita all'aspetto biologico ma può esprimersi nell'adozione o in professioni che prevedano di dedicarsi agli altri. Demetra è nutrice, madre perseverante nel perseguimento del benessere dei figli, generosa. Una dea profondamente legata alle sue origini che danno ulteriore significato alla sua essenza: è infatti figli di Rea e nipote di Gea, la madre terra primigenia da cui deriva ogni forma di vita.
Spiega Jean Bolen: "Come dea delle messi, Demetra prosegue il lignaggio delle dee preposte alla fertilità. Tutte e tre soffrirono quando i mariti fecero del male ai figli, tutti e tre i padri biologici manifestarono una mancanza di istinto paterno. In psicologia l'assunzione di un ruolo 'demetrico' da parte di tutte le donne di una famiglia dà luogo a legami profondi di stampo matriarcale".
Un altro mito è quello di Medea (Atena) descritta da Euripide: egli ci propone una madre estrema e negativa che uccide i suoi figli. La sua storia è un insieme di elementi passionali: amore, gelosia, tradimento e vendetta. Oltre alla storia di una donna, simboleggia lo scontro tra due culture: quella tradizionale ed istintuale della Colchide contro il mondo greco civile e raziocinante.
In breve la storia: con un inganno ai danni del padre e del fratello, Medea aiuta Giasone a riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Ma Giasone la lascia per Glauce al fine di ereditare il trono di Creonte. Medea, ingannata e folle di risentimento nella versione euripidea incendia la città, uccide la rivale e sacrifica i figli avuti da Giasone.
Non c'è dubbio che Medea sia un personaggio controverso, destinato a suscitare sentimenti forti e infatti nel 1996 la scrittrice tedesca Christa Wolf riscrive la vita della dea in una lettura a più voci tra i suoi co-protagonisti. In questa nuova versione ci offre una Medea non violenta che assurge il ruolo di capro espiatorio dei Corinzi che la ritengono responsabile della peste che ha colpito la città e per ritorsione lapidano i suoi figli. Le ricerche di Wolf insistono sul fatto che fonti precedenti ad Euripide descrivono il tentativo di Medea di salvare i tre figli portandoli al santuario di Era.
Sempre secondo la scrittrice: "E' impensabile un atto efferato verso la propria prole da parte di una donna che è anche guaritrice, esperta di magia, la cui storia affonda le radici in una società arcaica e matriarcale. La rilettura del mito diventa un pretesto per indagare le forme occidentali del potere. Medea indirettamente racconta il passaggio dal modello matriarcale che rifiuta la violenza a quello dei padri che si fonda sulla violenza e che ha come costo la progressiva perdita del valore della vita e l'estinzione della pietà.
Di questo importante passaggio si era già occupato a metà del 1800 Johann J. Bachofen, singolare figura di storico, sociologo e psicologo che formulò la prima teoria organica del matriarcato. Prima di giungere al patriarcato l'umanità sarebbe passata attraverso due stadi, uno originario di promiscuità sessuale chiamato 'eterismo' e uno 'matriarcale', caratterizzato da stabilità, serenità, sicurezza e pace. Secondo Bachofen, alle origini la vita è regolata da leggi imposte dagli uomini alle donne. In questa fase di 'eterismo' le unioni sono determinate dalla violenza e dalla sopraffazione maschile. Ma a questa superiorità fisica la donna oppone la sua vocazione religiosa, l'ascesa al miracoloso che porta verso una fase più alta di civiltà, che all'odio oppone l'amore e alla violenza la pietà. All'eterismo succede l'amazzonismo', un momento di resistenza armata femminile per poi sfociare in un matriarcato pacifico in cui la donna domina anche la vita politica, sociale e religiosa.
Già i greci avevano studiato i costumi di popoli come i Germani, i Lici, gli Agatirsi e gli Egizi trovando che avevano tutte in comune una cultura matriarcale in cui la successione avveniva per via femminile, vigeva la poliandria, la paternità era trascurata ed era data autorità allo zio materno.
In questo periodo dal punto di vista simbolico, il grembo della madre terra prevale sul mare fecondatore, la sinistra, che corrisponde alla potenza passiva della natura, prevale sulla destra e sul raziocinio.
Dalla maternità deriva il principio di fratellanza universale tanto che l'autore definisce questo periodo dell'antica società ellenica "la poesia della storia": peccato che tanta stabilità sia destinata a degenerare e a cedere il testimone ai valori del patriarcato. Il passaggio è quanto mai singolare in quanto secondo il mito gli uomini tentano di impadronirsi delle leve del dominio femminile fingendo di allattare i figli. Un fenomeno, la 'couvade', ben noto ai moderni antropologi. Il predominio paterno si innalza verso il cielo e si impadronisce dei suoi simboli: il sole che desta la vita nella materia si oppone alla luna femminea.
Mentre l'Oriente è patria del principio materno, in Europa la società si ispira al padre, passando dallo stato di natura allo 'stato civile'. Uomini e donne stipulano un patto, il matrimonio, in cui le donne accettano di cedere il loro potere. Il resto è storia recente.
In realtà l'archetipo della Grande Madre porta in sé ambivalenze profonde: è colei che dona la vita ma che possiede in sé anche lati oscuri, quel simbolo notturno che è l'inconscio, la parte più segreta della psiche. La Madre è luminosa ma può, allo stesso tempo, divorare e usare il proprio amore come strumento di potere e di dominio. L'inconscio è anche associato al grembo materno, caldo e buio, ma dal quale è necessario uscire per vivere. In questa ottica Medea e Demetra non sono altro che due facce della stessa medaglia, quanto mai sfaccettata e preziosa.
di Johann Rossi Mason
Mente & Cervello di nov-dic 2003
Bibliografia: Eric Neumann – La Grande Madre. Fenomenologia
delle configurazioni femminili dell'inconscio – Astrolabio 1981
Jean S. Bolen – Le dee dentro la donna – Astrolabio 1991
Christa Wolf – Medea. Voci – E/O Roma 1996
Carl G. Jung – Opere Vol. 9/1 Gli archetipi dell'inconscio
collettivo – Bollati Boringhieri 1997
Johann J. Bachofen – Il potere femminile – Il Saggiatore 1977
Secondo Carl G. Jung, noi ereditiamo dalla società un insieme di elementi che non ci pervengono dall'esperienza né dalla cultura, come se facesse parte di un patrimonio genetico simbolico.
Si tratta di una serie di credenze, immagini, simboli che lo psicoanalista svizzero chiamò 'inconscio collettivo' per distinguerlo da quello 'individuale'. Unità di base sono gli 'archetipi', immagini simboliche, rappresentazioni, che ciascuno può applicare a se stesso e alla propria vita.
Ritroviamo figure archetipiche nei miti, nelle favole, nei sogni e formano, tutti insieme, la memoria dell'umanità.
Stephen Larsen, studioso di mitologia comparata, sostiene le qualità terapeutiche del racconto mitico che mette l'essere umano a contatto con gli dei, simboli della propria energia psichica e lo aiutano a fare scelte e determinare destini.
Per le donne molti studiosi hanno sottolineato la centralità dell'archetipo della Grande Madre, creatrice universale. La maternità rappresenta un'esperienza primaria che getta le basi di ogni futura esistenza psichica, in quanto ognuno di noi fa i conti con l'archetipo materno in primo luogo come figlio. Inoltre l'archetipo costituisce il fondamento del 'complesso materno' che nella più antica psicopatologia riconosce la madre come parte attiva nell'insorgenza di problemi e disturbi.
Il concetto di Grande Madre nasce all'incirca nel 7000 a.C., nel Neolitico Antico, ma tracce di tale culto sono presenti già dal Paleolitico. Si tratta di una figura religiosa, in cui ad una divinità femminile viene attribuita la genesi di tutte le cose viventi, piante, animali, uomini. Il culto ha certamente origine in comunità che vivevano di agricoltura, stanziali, in armonia con i cicli della natura e della luna, simbolo tipicamente femminile.
A loro volta le donne incarnano molteplici figure mitologiche femminili, da Demetra a Medea, da Afrodite ad Atena, da Estia a Persefone. Qui ci soffermiamo su quelle dee che in qualche modo trovano il proprio significato nella relazione col materno.
Secondo la psicoanalista junghiana Jean S. Bolen, autrice del libro "Le dee dentro la donna" (Astrolabio 1991): 'in una stessa donna sono presenti più dee e la loro conoscenza fornisce la chiave per la comprensione di sé e dei rapporti che stabilisce con gli altri'.
La dea Madre per antonomasia è Demetra, dea delle messi e icona di un istinto materno che non si da pace.
Demetra è la madre di Persefone avuta dal fratello Zeus. Un giorno, mentre la giovane sta raccogliendo dei fiori, viene rapita da Ade (dio dei morti), da tempo innamorato di lei. Il ratto si compie grazie alla complicità di Zeus, padre della ragazza. Demetra, accortasi della scomparsa della figlia la cerca per nove giorni e nove notti senza più curarsi di se stessa e senza che nessuno sia in grado di darle informazioni utili al suo ritrovamento. All'alba del decimo giorno, su suggerimento di Ecate, Demetra chiede a Elios, il Sole, che le rivela l'identità del responsabile.
Folle di rabbia per il tradimento subito la dea abbandona l'Olimpo e per vendetta decide di impedire che la terra dia i suoi frutti in modo che la razza umana si estingua nella carestia. Nel tentativo di lenire il proprio dolore, la dea vaga per il mondo, sorda ai lamenti degli umani ormai senza cibo.
Errabonda, assume le sembianze di un'anziana donna celando il suo splendido aspetto e viene accolta in una casa nella quale diventa nutrice del figlio del re dell'Attica, Demofonte.
Demetra si affeziona subito al piccolo che nutre con la divina ambrosia per renderlo immortale. L'amore per il bambino lenisce il suo dolore sino a che la regina, madre del bambino, la scopre, costringendola a palesarsi nella sua divinità. Ricacciata nella disperazione la dea si rifugia sul monte Callicoro incurante delle suppliche dei mortali, decimati dalla carestia.
Per farla breve, Zeus ingiunge ad Ade di rendere la figlia alla dea e il lieto fine sembra fare capolino, ma prima di far tornare Persefone dall'oltretomba, Ade le fa mangiare un seme di melograno costingendola a fare ritorno periodicamente dall'oscuro marito. Tale è comunque la gioia della madre che appena stringe la figlia tra le braccia la terra torna fertile e le piante e le messi ricominciano a fiorire.
Il prezzo da pagare per il ritorno da Ade fu che nei mesi in cui la giovane sarebbe rimasta col marito nel mondo ci sarebbe stato freddo e penuria, dando origine all'autunno e all'inverno. Così narra il mito.
Demetra è quindi la Terra-madre, il simbolo della madre che ama la prole sopra ogni cosa.
Dea delle messi, presiede l'abbondanza dei raccolti.
Rappresenta l'istinto materno che si realizza nella gravidanza e nel nutrimento fisico e psicologico. La donna Demetra si realizza pienamente in questo compito ma rischia la depressione se il suo bisogno di nutrire viene rifiutato.
Tale senso della maternità non si limita all'aspetto biologico ma può esprimersi nell'adozione o in professioni che prevedano di dedicarsi agli altri. Demetra è nutrice, madre perseverante nel perseguimento del benessere dei figli, generosa. Una dea profondamente legata alle sue origini che danno ulteriore significato alla sua essenza: è infatti figli di Rea e nipote di Gea, la madre terra primigenia da cui deriva ogni forma di vita.
Spiega Jean Bolen: "Come dea delle messi, Demetra prosegue il lignaggio delle dee preposte alla fertilità. Tutte e tre soffrirono quando i mariti fecero del male ai figli, tutti e tre i padri biologici manifestarono una mancanza di istinto paterno. In psicologia l'assunzione di un ruolo 'demetrico' da parte di tutte le donne di una famiglia dà luogo a legami profondi di stampo matriarcale".
Un altro mito è quello di Medea (Atena) descritta da Euripide: egli ci propone una madre estrema e negativa che uccide i suoi figli. La sua storia è un insieme di elementi passionali: amore, gelosia, tradimento e vendetta. Oltre alla storia di una donna, simboleggia lo scontro tra due culture: quella tradizionale ed istintuale della Colchide contro il mondo greco civile e raziocinante.
In breve la storia: con un inganno ai danni del padre e del fratello, Medea aiuta Giasone a riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Ma Giasone la lascia per Glauce al fine di ereditare il trono di Creonte. Medea, ingannata e folle di risentimento nella versione euripidea incendia la città, uccide la rivale e sacrifica i figli avuti da Giasone.
Non c'è dubbio che Medea sia un personaggio controverso, destinato a suscitare sentimenti forti e infatti nel 1996 la scrittrice tedesca Christa Wolf riscrive la vita della dea in una lettura a più voci tra i suoi co-protagonisti. In questa nuova versione ci offre una Medea non violenta che assurge il ruolo di capro espiatorio dei Corinzi che la ritengono responsabile della peste che ha colpito la città e per ritorsione lapidano i suoi figli. Le ricerche di Wolf insistono sul fatto che fonti precedenti ad Euripide descrivono il tentativo di Medea di salvare i tre figli portandoli al santuario di Era.
Sempre secondo la scrittrice: "E' impensabile un atto efferato verso la propria prole da parte di una donna che è anche guaritrice, esperta di magia, la cui storia affonda le radici in una società arcaica e matriarcale. La rilettura del mito diventa un pretesto per indagare le forme occidentali del potere. Medea indirettamente racconta il passaggio dal modello matriarcale che rifiuta la violenza a quello dei padri che si fonda sulla violenza e che ha come costo la progressiva perdita del valore della vita e l'estinzione della pietà.
Di questo importante passaggio si era già occupato a metà del 1800 Johann J. Bachofen, singolare figura di storico, sociologo e psicologo che formulò la prima teoria organica del matriarcato. Prima di giungere al patriarcato l'umanità sarebbe passata attraverso due stadi, uno originario di promiscuità sessuale chiamato 'eterismo' e uno 'matriarcale', caratterizzato da stabilità, serenità, sicurezza e pace. Secondo Bachofen, alle origini la vita è regolata da leggi imposte dagli uomini alle donne. In questa fase di 'eterismo' le unioni sono determinate dalla violenza e dalla sopraffazione maschile. Ma a questa superiorità fisica la donna oppone la sua vocazione religiosa, l'ascesa al miracoloso che porta verso una fase più alta di civiltà, che all'odio oppone l'amore e alla violenza la pietà. All'eterismo succede l'amazzonismo', un momento di resistenza armata femminile per poi sfociare in un matriarcato pacifico in cui la donna domina anche la vita politica, sociale e religiosa.
Già i greci avevano studiato i costumi di popoli come i Germani, i Lici, gli Agatirsi e gli Egizi trovando che avevano tutte in comune una cultura matriarcale in cui la successione avveniva per via femminile, vigeva la poliandria, la paternità era trascurata ed era data autorità allo zio materno.
In questo periodo dal punto di vista simbolico, il grembo della madre terra prevale sul mare fecondatore, la sinistra, che corrisponde alla potenza passiva della natura, prevale sulla destra e sul raziocinio.
Dalla maternità deriva il principio di fratellanza universale tanto che l'autore definisce questo periodo dell'antica società ellenica "la poesia della storia": peccato che tanta stabilità sia destinata a degenerare e a cedere il testimone ai valori del patriarcato. Il passaggio è quanto mai singolare in quanto secondo il mito gli uomini tentano di impadronirsi delle leve del dominio femminile fingendo di allattare i figli. Un fenomeno, la 'couvade', ben noto ai moderni antropologi. Il predominio paterno si innalza verso il cielo e si impadronisce dei suoi simboli: il sole che desta la vita nella materia si oppone alla luna femminea.
Mentre l'Oriente è patria del principio materno, in Europa la società si ispira al padre, passando dallo stato di natura allo 'stato civile'. Uomini e donne stipulano un patto, il matrimonio, in cui le donne accettano di cedere il loro potere. Il resto è storia recente.
In realtà l'archetipo della Grande Madre porta in sé ambivalenze profonde: è colei che dona la vita ma che possiede in sé anche lati oscuri, quel simbolo notturno che è l'inconscio, la parte più segreta della psiche. La Madre è luminosa ma può, allo stesso tempo, divorare e usare il proprio amore come strumento di potere e di dominio. L'inconscio è anche associato al grembo materno, caldo e buio, ma dal quale è necessario uscire per vivere. In questa ottica Medea e Demetra non sono altro che due facce della stessa medaglia, quanto mai sfaccettata e preziosa.
di Johann Rossi Mason
Mente & Cervello di nov-dic 2003
Bibliografia: Eric Neumann – La Grande Madre. Fenomenologia
delle configurazioni femminili dell'inconscio – Astrolabio 1981
Jean S. Bolen – Le dee dentro la donna – Astrolabio 1991
Christa Wolf – Medea. Voci – E/O Roma 1996
Carl G. Jung – Opere Vol. 9/1 Gli archetipi dell'inconscio
collettivo – Bollati Boringhieri 1997
Johann J. Bachofen – Il potere femminile – Il Saggiatore 1977